Sommario:
1.
Nozione legale e
nozione convenzionale di "unità produttiva" nel settore credito
2.
Obbligo aziendale
di tener conto delle "condizioni personali e di famiglia" del
candidato al trasferimento
3.
Comunicazione dei
motivi del trasferimento
4.
Trasferimento per
asserita incompatibilità ambientale
******
2.
Obbligo aziendale
di tener conto delle “condizioni personali e di famiglia” del candidato al trasferimento
Gli artt.110 del
vigente ccnl per il personale di base e 56 del vigente ccnl per il personale
direttivo contemplano - oltre
all'obbligo legale della ricorrenza di "comprovate esigenze
aziendali" - l'obbligo addizionale
aziendale della presa in considerazione della situazione personale e familiare
del candidato al trasferimento, tramite dizione per cui "nel disporre il trasferimento, l'azienda
terrà conto delle condizioni personali e di famiglia del l'interessato".
Secondo
giurisprudenza di merito, le "comprovate
esigenze tecniche, organizzative e produttive" di cui all'art. 13 L.
n. 300/'70, imporrebbero al datore di lavoro l'obbligo di provare la
sussistenza delle stesse sia nella sede di partenza che nella sede di
destinazione (ad es., per eccedenza di personale nella prima e carenza di una
specifica professionalità nella seconda), non ritenendosi sufficiente una mera
vacanza nell'organico della sede di
destinazione "magari
determinata dal concomitante spostamento di altro dipendente, perchè se ciò
dovesse ritenersi sufficiente i lavoratori sarebbero sottoposti, sotto questo
aspetto, alla più assoluta discrezionalità datoriale" (7) . In tal
senso si sono pronunciate diverse decisioni, tra cui Pret. Milano 18 ottobre
1994, Trib. Milano 6 novembre 1993, Trib. Milano 16 luglio 1992 (8) che hanno
negato legittimità al trasferimento quando l'onere probatorio datoriale non
risultava assolto, ex post, in entrambe le sedi. Secondo giurisprudenza
di legittimità sarebbe altresì necessario che il datore di lavoro provasse che
la scelta di trasferire un dipendente risponde all'esigenza del miglior
funzionamento aziendale e consente altresì una maggiore valorizzazione del
candidato al trasferimento nella sede di destinazione, "finalità
questa che può essere raggiunta anche attraverso un giudizio di
comparazione tra i vari dipendenti, tenendo conto, in caso di parità di
requisiti, delle eventuali particolari esigenze di ciascun dipendente"
(9). Va tuttavia evidenziato che nella posteriore giurisprudenza di legittimità
si è giunti a negare che l'ulteriore garanzia contrattuale della presa in
considerazione delle "esigenze personali e di famiglia" del candidato
al trasferimento comporti l'onere per il datore di lavoro di dar corso a "comparazioni o procedure concorsuali, in
quanto lo stesso è obbligato ad una scelta diversa ( rispetto a quella
preventivata) del soggetto da trasferire solo
in presenza di esigenze personali o familiari particolarmente
consistenti, alla stregua dei principi di buona fede e correttezza"(10).
In dottrina
l'orientamento è più variegato, ritenendosi da taluno (11) che la scelta del
lavoratore da trasferire debba effettuarsi "comparando le condizioni soggettive dei potenziali destinatari del
provvedimento, tenendo conto dell'incidenza del provvedimento sulle condizioni di
vita dei prestatori". Altri (12) ritiene, invece, che la scelta del
lavoratore da trasferire fra più dipendenti - tutti idonei a ricoprire il posto
nella sede di destinazione - debba essere risolta alla stregua del "criterio della oggettiva convenienza aziendale,
sebbene si reputi che al riguardo possa trovare maggior spazio la valutazione
di situazioni personali (età, carichi di famiglia, salute, ecc.)".
Altri ancora (13) sostiene che "ovviamente
il datore di lavoro deve comportarsi secondo buona fede e correttezza, per modo
che gli interessi dei lavoratori debbono essere attentamente valutati ed
eventualmente sacrificati, allorquando si constati l'imprescindibilità della
scelta datoriale. Dunque il trasferimento potrebbe essere lecitamente disposto
a patto di contemperare in modo equo e razionale le esigenze aziendali e quelle
personali del lavoratore. Dal che si deduce che la scelta del lavoratore non
può prescindere dall'apprezzamento delle esigenze personali e sociali del
medesimo. Dunque il datore di lavoro deve scegliere il lavoratore esposto al
minor disagio" (14).
Circa la
rispondenza del trasferimento alle esigenze ex art. 13 L. n. 300/'70, si
sostiene in magistratura che tali esigenze non debbono rivestire carattere
ineluttabile e di assoluta necessarietà (15) né spingersi sino alla
dimostrazione aziendale dell'impossibilità di utilizzare il dipendente nella
sede originaria (16), con la conseguenza che le ragioni giustificatrici trovano
la loro sufficienza e congruità nell'effettiva valutazione dell'imprenditore
tra più soluzioni tutte ragionevoli sul piano tecnico, organizzativo e
produttivo, purché non lesive della sicurezza, libertà e dignità del
lavoratore.
3.
Comunicazione
dei motivi del trasferimento
Si è, poi, molto
discusso in ordine all'obbligo - da taluna magistratura imposto dall'art. 13
stat. lav. - di comunicare al lavoratore i motivi del trasferimento "contestualmente" al provvedimento,
onde consentire al dipendente di valutare con immediatezza la rispondenza alle
esigenze tecniche aziendali. A tale
esigenza le sezioni unite della Cassazione (17), modificando un loro precedente
orientamento positivo, hanno opposto l'inesistenza di un obbligo della "contestuale" notifica dei motivi
giustificativi del trasferimento, legittimandone la comunicazione successiva al
lavoratore dietro espressa richiesta dello stesso (18) . Fondandosi sul richiamo analogico dell'art.
2 L. n. 604/'66, attinente ai motivi del licenziamento, la Cassazione sottopone
l'evasione datoriale della richiesta dei motivi al fatto che la domanda del
lavoratore sia avanzata entro il termine di decadenza di 8 giorni dalla
comunicazione del provvedimento di trasferimento (19).
Ancora, secondo la
Cassazione, la comunicazione del
trasferimento sarebbe libera nella forma - cioè non necessariamente scritta -
sussistendo tale obbligatorietà per gli atti giuridici specificatamente
indicati dalla legge (20). Tanto meno sussisterebbe per il datore di lavoro un onere di "tempestività" di
risposta scritta, una volta che la tempestività risulti assolta dalla
comunicazione orale dei motivi del trasferimento.
Le ragioni del
trasferimento debbono, ad ogni buon conto, riposare su esigenze obiettive
(riscontrabili ex post dal
lavoratore) e non su atteggiamenti soggettivi del dipendente, i quali possono
essere sanzionati tramite il potere disciplinare. Tuttavia va affermandosi in
magistratura l'orientamento per cui anche atteggiamenti soggettivi del
prestatore possono risultare rilevanti ai fini di disporre un trasferimento ad
altra sede, quando siano tali da incidere negativamente sul normale, sereno
svolgimento dell'attività dell'impresa in ragione di incompatibilità tra i
membri di un nucleo di lavoro, imputabile ad esclusivo comportamento del
sottoposto a spostamento ad altra sede, per ovviare agli inconvenienti
organizzativi conseguenti al clima di tensione interno (21).
4. Trasferimento
per asserita incompatibilità ambientale
Conviene ora illustrare al lettore – più diffusamente di
quanto soprariferito in sintesi - i passaggi effettuati dalla Cassazione in
ordine alla legittimazione di quella modalità dell’esercizio dello «ius
variandi» costituita dal trasferimento topografico per c.d. «incompatibilità
ambientale».
Dopo due sentenze,
la prima della Corte costituzionale, del 1974 (n. 55 del 6 marzo (22) e la
seconda della Cassazione, del 1975 (n. 832 del 6 marzo (23), si «fa strada
l’idea che un comportamento del dipendente – dovuto alla sua particolare
‘indole’(difficoltà di rapporti o contrasti con i colleghi, superiori,
clientela, o, più in generale, con l’ambiente di lavoro) – possa essere
valutato non in sé ma per le sue conseguenze negative sul normale svolgimento
dell’attività dell’impresa in termini di disfunzione del servizio o di
disorganizzazione dell’unità produttiva. Se tali conseguenze sono oggettive, o
quanto meno valutabili alla stregua di un criterio oggettivo, allora – per la
Corte – potranno integrare una delle ragioni tecnico-organizzative e produttive
che giustificano il trasferimento del lavoratore. In questa prospettiva, i
motivi ‘soggettivi’ vengono trasfusi nelle…conseguenze ‘oggettive’ degli
stessi. Così, con una sovrapposizione dei concetti, l’elemento soggettivo
costituisce il presupposto di fatto del giustificato motivo oggettivo di
trasferimento» (24).
Nella tappa
successiva effettuata da Cass. sez. un. n. 4747 del 1986 (25) si afferma che
premesso che «il trasferimento a titolo
disciplinare è certamente illegittimo (‘perché sanzione atipica rispetto ai
provvedimenti in materia disciplinare previsti dall’art. 7 st. lav.’), tuttavia
nel caso in cui nel comportamento del dipendente possa essere configurabile al
tempo stesso un fatto rilevante sotto il profilo disciplinare ed una delle
ragioni tecniche, organizzative e produttive che consentono il trasferimento,
il datore di lavoro può scegliere se esercitare ‘in alternativa’ il potere
disciplinare (con i limiti di cui all’art. 7 st. lav.) o il potere
direttivo-organizzativo (con i limiti di cui all’art. 13 st. lav.), senza che
il giudice possa valutare la convenienza o l’alternativa opportunità tra le due
soluzioni » .«Con una specie di ‘slittamento’, la causa (i motivi soggettivi)
passa in secondo piano dando rilievo all’effetto (le conseguenze oggettive)
posto a giustificazione del potere organizzativo del datore . Non a caso, tale
trasferimento è battezzato da qualche giudice come ‘organizzativo’ per
differenziarlo da quello ‘disciplinare’ in senso stretto».«L’immediata e
principale implicazione dell’affermato collegamento del trasferimento per incompatibilità ambientale al potere
direttivo-organizzativo è quella dell’inapplicabilità allo stesso delle
fondamentali e corpose garanzie procedurali in difesa del lavoratore sancita
dall’art. 7 st. lav. Implicazione, questa, non evidenziata dalla giurisprudenza
forse perché ritiene sufficienti le (scarne) garanzie procedimentali previste
dall’art. 13 st. lav.»(26).
Seguono poi diverse sentenze rese dalla Cassazione negli
anni ’90 (n. 3811/1990, n.11233/1990 e n. 12088/1991 (27). Tramite le prime due (riguardanti clausole del ccnl
dei lavoratori dell’Enel contemplante, tra le sanzioni disciplinari, il
«trasferimento per punizione») si
afferma innanzitutto che «in assenza di
una previsione contrattuale…deve escludersi la ammissibilità del ricorso da
parte del datore di lavoro ad una sanzione certamente atipica quale il
trasferimento» e, contemporaneamente – in contrasto con il consolidato
orientamento della stragrande maggioranza della dottrina (28) - si dispone che «la sanzione del trasferimento disciplinare, malgrado le previsioni del
4° comma dell’art. 7 l. 20. 5.1970, n. 300 e dell’ultimo comma dell’art. 2103
c.c., può essere introdotta dalle parti sociali, nell’esercizio dell’autonomia
collettiva, per consentire un’ulteriore graduazione dei provvedimenti
disciplinari in ordine a fatti che altrimenti sarebbero sanzionabili con il
licenziamento. Inoltre esso non
incontra neppure il divieto di cui all’art. 7, 4° comma, di non irrogazione di
‘sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di
lavoro’ poiché la disposizione non si
riferisce ai mutamenti del luogo di
esecuzione della prestazione lavorativa, intendendo invece essenzialmente
impedire la dequalificazione professionale per fini punitivi». Ad esse si
conforma ora Cass. 27 giugno 1998, n. 6383 (29), la quale – sempre in relazione all'espressa previsione
del "trasferimento" quale sanzione disciplinare nel ccnl Enel – ha
asserito che "deve ritenersi
ammissibile il trasferimento per ragioni disciplinari, ove esso sia previsto
come sanzione dalla contrattazione collettiva. Il luogo della prestazione
lavorativa non costituisce, di per sé ed in via generale, un elemento
essenziale ed immutabile del rapporto di lavoro, cosicché la norma contrattuale
relativa al trasferimento disciplinare non è di per se in contrasto con il
divieto, previsto dall'art. 7 stat. di disporre sanzioni che comportino il
mutamento definitivo del rapporto di lavoro. peraltro questo tipo di
provvedimento può essere ritenuto illegittimo in caso di insussistenza di una
ragionevole proporzione tra le modalità e l'entità del trasferimento e la
gravità, valutata anche in relazione all'incidenza sull'ambiente di lavoro,
dell'infrazione commessa" (per il cui nuovo accertamento, accogliendo
il ricorso della lavoratrice sanzionata con il provvedimento di trasferimento
che ne aveva eccepito altresì la "sproporzionalità" in violazione
dell'art. 2106 c.c., ha cassato la sentenza del Tribunale di Messina, con
rinvio per un nuovo esame al Tribunale di Patti). Proprio per gli spazi di
legittimazione all'introduzione – per via pattizia – del
"trasferimento" quale sanzione disciplinare, sulla base di un
asserito, inesistente contrasto con l'art. 7 stat. lav., queste decisioni non incontrano il nostro consenso,
atteso che contrastano con un consolidato orientamento dottrinario che
riscontra nella formulazione dell'art. 7 la preclusione a provvedimenti
conservativi stabilmente modificativi
del rapporto di lavoro, tra i quali è stato da sempre, ed eminentemente nel
corso dei lavori preparatori della L. n. 300, inserito il "trasferimento
disciplinare".
Tramite la terza
decisione n. 12088 del 1991 si afferma che «il
trasferimento del lavoratore che segua l’irrogazione di una sanzione
disciplinare, non assume, per effetto di questo solo rapporto cronologico, esso
stesso valore sanzionatorio, ben potendo un fatto disciplinarmente rilevante
costituire altresì una delle ragioni tecniche, organizzative e produttive,
previste dall’art. 2103 c.c. ai fini della legittimità del trasferimento, come
nel caso in cui, con congruo apprezzamento delle specifiche circostanze – il
quale non può non essere affidato ad una valutazione a priori, senza dover
attendere il verificarsi di elementi effettivamente perturbatori – il pregresso
illecito disciplinare si palesi tale da suggerire, per il lavoratore che se n’è
reso autore, un immediato mutamento di sede, al fine di evitare contatti
presuntivamente pregiudizievoli con i colleghi di lavoro, con incidenza
negativa sul rendimento dei singoli e, quindi, sulla produttività dell’impresa»
.Ad essa si ricollega e si conforma
la più recente sentenza edita della S.
corte in tema di trasferimento per incompatibilità ambientale, cioè a dire
Cass. 21 ottobre 1997, n. 10333 (30), la quale
ha riaffermato gli stessi principi (di non configurazione nel
trasferimento di una sanzione disciplinare) occupandosi dell’allontanamento in
altra sede di lavoro di un dipendente venuto a diverbio litigioso con un
collaboratore, al quale l’azienda aveva esplicitato nella comunicazione di
trasferimento la causale motivante, consistente «nell’evitare il protrarsi di una situazione di tensione ed una forzosa
convivenza lavorativa tra lei ed i suoi colleghi», situazione che il magistrato aveva accertato come
effettivamente ricorrente in ragione «dell’entità del fatto, della risonanza
dello stesso all’interno dell’ufficio, del rapporto creatosi con la segretaria,
il tutto risultante dalle testimonianze assunte in primo grado…».
A conclusione
dell’excursus in ordine alla
legittimazione giudiziale del «trasferimento per incompatibilità ambientale» va
detto, con le parole di Brollo, che «la
tesi del trasferimento per incompatibilità ambientale appare suggestiva, ma non
semplice da sistemare su di un piano di esegesi rigorosa e soprattutto
pericolosa a causa delle sue potenzialità applicative….Si corre il rischio di
consentire all’imprenditore di abusare del trasferimento mascherando, dietro
apparenti esigenze tecnico-organizzative, ragioni soggettive non invocabili
perché illegittime (discriminatorie o illecite) o ‘comunque non rilevanti ai
fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore’ (ex art. 8 st .lav.)" (31).
(pubblicato in Lavoro
e previdenza Oggi 1999, n. 5, p. 871)
(*)
Nonostante nel paragrafo e nell’intero
nostro articolo si faccia riferimento alla formulazione di due articoli di due
contratti superati – il primo dal ccnl 11 luglio 1999 ed il secondo dal ccnl 1
dicembre 2000, peraltro relativo ai
soli dirigenti – l’analisi da noi sviluppata è del tutto attuale, mancando in
entrambi i nuovi contratti (il primo dei quali, relativo anche agli ex
funzionari ora quadri direttivi, è ancora in via di stesura) indizi di
abbandono ( la regola anzi è quella
della conferma di quanto non espressamente modificato dai nuovi accordi di
rinnovo) delle pregresse formulazioni afferenti la nozione “convenzionale” di
unità produttiva ai fini del trasferimento dei dipendenti dello specifico
settore creditizio.
Roma,12
gennaio 2001
(1)
Conf. in
dottrina, Vallebona, L’unità produttiva,
in Riv. dir. lav. 1979, 270 ed ivi
277, secondo cui: “Il carattere
dell’autonomia dell’unità produttiva si desume, altresì, dall’elencazione
esemplificativa (di cui all’art. 35, n.d.r.) nella quale la sede, lo stabilimento
o la filiale costituiscono, per definizione, suddivisioni autonome
dell’impresa, mentre l’ufficio o il reparto vengono considerati unità
produttiva soltanto quando siano autonomi”. Conf. De Luca Tamajo, Lo statuto dei lavoratori (Commentario
diretto da Giugni), sub art. 35,
Milano 1979, 611 ed ivi 621, secondo
cui: “L’art. 35 allude..., probabilmente
a titolo esemplificativo, a ‘ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o
reparto autonomo’ e sintetizza, poi, i detti nuclei organizzativi con la
formula dell’unità produttiva, cui peraltro lo statuto fa cenno in varie altre
disposizioni...”. Contra: Cass 19
luglio 1995, n. 7848, secondo la quale: “Costituisce
unità produttiva, ai sensi dell’art. 35 della L. n. 300/’70, non ogni sede,
stabilimento, filiale, ufficio o reparto dell’impresa, ma soltanto la più
consistente e vasta entità aziendale che, eventualmente articolata in organismi
minori - anche non ubicati tutti nel territorio del medesimo comune -, si
caratterizzi per sostanziali condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica
e amministrativa, tali che in essa si esaurisca per intero il ciclo relativo ad
una frazione o ad un momento essenziale dell’attività produttiva aziendale”.
(1
bis) Conf. in giurisprudenza l’orientamento minoritario di Cass. 10 aprile
1984, n. 2130; Cass. 15 settembre 1987, n. 7249; Cass. 4 marzo 1989, n. 1203.
(2) In Not. giurisp.lav.
1978,327. Conf. più di recente Cass. 13 giugno 1998, n. 5934; Cass. 14 giugno
1999, n. 5892, in Guida al lavoro 1999,n.30, p. 24.
(3) Conf. Cass. 22 novembre 1988, n. 6277.
(4) In tal senso, Cass.16.10.1987
n. 7682, in Giur.it. 1988,I,1,564 con
nota di Berruti, Sui limiti alla
individuazione dell'unità produttiva da parte dei contratti collettivi;
Cass. 19.1.1990, n. 295, in Riv. giur. lav.
1990,II,476 con nota di Fiori, L'unità
produttiva:nozione legale e convenzionale. In dottrina, sul tema, v.
altresì , Papaleoni, Sulla nozione di
unità produttiva, in Giust.civ.
1985,I,729; Genghini, Trasferimento,
unità produttiva e dirigente di r.s.a., in Giur. it. 1985,I,1,743; Ioele, Trasferimento
del lavoratore e nozione di unità produttiva nelle aziende di credito, in Giur. it. 1987, I, 1, 1755; Pelaggi, Il trasferimento del lavoratore subordinato
e la giurisprudenza della corte di Cassazione, in Mass. giur. lav. 1988, 391; Meucci, Il rapporto di lavoro nell'impresa, cap. 12° (Distacco,
trasferimento e risoluzione del rapporto per il personale direttivo del
credito:regime e tutele), Napoli, 1991, 213 e ss.
(5) In Not. giurisp.lav. 1985,560.
(6) Rispettivamente in Not.
giurisp. lav. 1987,308; 1989,477 e 1991,241.
(7) Così in Cass. 14.5.1985,
n.2993, cit.
(8)
Rispettivamente in Riv. crit.dir.lav.
1995,379; 1994,323; 1992,927.
(9) Così Cass.
28.8.1976 n. 3065, in Not.giurisp.lav.
1976, 197.
(10)
Così Cass. 15.10.1992, n. 11339 e Cass. 18.2.1994, n. 1563, rispettivamente in Not. giurisp lav. 1992,828 e 1994,181.
(11) Cfr.
Angiello, Il trasferimento dei lavoratori,
Padova, 1986,94.
(12) Vallebona, Il trasferimento del lavoratore, in Riv.
it. dir. lav. 1987,I, 80.
(13) Nicolini, Il trasferimento del lavoratore, in La voce dei bancari, 1995, 2, 18.
(14) Conf., sul
punto, Trib Firenze 23.3.1985, in Riv.
it. dir. lav. 1985,II,426.
(15) Conf. Cass. 28.11.1994, n. 1022, in Not. giurisp. lav. 1995,227.
(16) Conf. Cass. 19.6.1987, n. 5432, ibidem 1987,778.
(17) Cass. sez.
un. n. 4572 del 15.7.1986 nonché sez. lav. n.909 del 26.1.1995, rispettivamente
in Not. giurisp. lav. 1986,494 e
1995,6.
(18) Conf. Cass.
n. 1563/1994, cit. e Cass. n. 909/1995, cit.
(19) Conf. Cass. 15.10.1992, n. 11339, cit.
(20) Conf. Cass.
3.3.1994, n.2095 in Dir.prat.lav.
1994, 24,1663.
(21)
Così Cass. 9.5.1990, n.3811 e Cass. 16.4.1992, n. 4655, rispettivamente in Riv. it. dir. lav.
1990,II,898 e 1993,II,571; Pret. Treviso 2012.1994, in Not. giurisp. lav. 1995,227.
(22)
In Riv. dir. lav. 1974, II, 74
(23)
In Foro it. 1975, I, 2007, con nota
di Proto Pisani, Sul trasferimento del
lavoratore.
(24)
Così condivisibilmente riassume la situazione , Brollo, La mobilità interna, cit.,544.
(25) Cass sez. un. 24 luglio 1986, n. 4747 trovasi in Giust. civ. 1988, I, 208, con nota di
Mariani, Trasferimento per
incompatibilità con i colleghi a seguito di comportamento disciplinarmente
rilevante, nonché in Riv. it. dir.
lav. 1987, II, 518, con nota di Silvagna. Conf. Cass. 16 giugno 1987, n.
5339, in Riv. it. dir. lav. 1988, II,
247, con annotazione di Poso, Sul
trasferimento come conseguenza non disciplinare delle mancanze del lavoratore.
(26) E’ ancora il condivisibile pensiero di Brollo (che abbiamo
preso a prestito per la totale coincidenza con il nostro), espresso in La mobilità interna, cit. 546-547.
(27) Cass. 21
novembre 1990 n. 11233 può leggersi in Not.
giurisp. lav. 1991, 174; Cass. 13 novembre 1991, n. 12088, ibidem 1991, 830.
(28) Vedila esaustivamente citata nella nota 158 (p.
554) dell’opera di Brollo, La mobilità
interna, cit., cui si rinvia per necessaria brevità.
(29) In causa
Enel c. I.N., (Pres. Lanni, Rel. Castiglione), inedita allo stato.
(30)
Vedila in Not. giurisp. lav. 1997,
761.
(31) Così Brollo, in La mobilità interna, cit. 566. E pensare
che c’è addirittura taluno che a questo “infortunio giurisprudenziale” ha
dedicato un libro (A. Levi Il trasferimento disciplinare del prestatore di
lavoro, Torino, 2000, pp. 326, di cui abbiamo letto la sola recensione, in Riv.
it. dir. lav. 2000, III, 260) in cui si asserisce che l’a. condivide
l’istituto in questione compresso – a
suo dire – tra “le istanze conservatrici della giurisprudenza di merito
(sic!, nostro) e le istanze di apertura della giurisprudenza di legittimità
(ancora sic!, nostro)”, dando poi conto degli itinerari della dottrina (quale,
di grazia?) “verso un possibile approdo al definitivo riconoscimento della
legittimità del trasferimento disciplinare, nel mutato contesto di operatività
dell’art. 13 St. lav.”.
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