Danno alla professionalità, danno biologico, danno morale

 

Trib. Civitavecchia, sez. lav., 8 luglio 2004 – Giud. Colella – E. M. (avv. Mocci, Cerniglia, Nardoianni) c. Aeroporti di Roma SpA (avv. Mariotti, Salonia)

 

Demansionamento – Danno alla professionalità – Sussistenza – Quantificazione -  Danno biologico da stress post-traumatico acclarato da CTU - Sussistenza - Danno morale da diffamazione - Sussistenza.

 

Orbene, come noto, il datore di lavoro viola l’art. 2103 c.c. e compie un atto illecito, definito come atto di dequalificazione professionale, non solo quando assegna il dipendente a mansioni inferiori, ma anche quando, pur corrispondendogli la retribuzione, lo lasci in condizione di forzata inattività e senza assegnazione di compiti, atteso che il lavoro costituisce non soltanto un mezzo di sostentamento e di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità del lavoratore. Sussiste, dunque, secondo la giurisprudenza di legittimità, anche se la questione è controversa in dottrina, un diritto del lavoratore all'effettivo svolgimento della propria prestazione di lavoro (Cass. 15 giugno 1983 n. 4106; Cass. 6 giugno 1985 n. 3372; Cass. 10 febbraio 1988 n. 1437; Cass. 13 novembre 1991 n. 12088; Cass. 15 luglio 1995 n. 7708; Cass. 4 ottobre 1995 n. 10405; Cass. 2001/14199), la cui lesione da parte del datore di lavoro costituisce un inadempimento contrattuale e determina, oltre all'obbligo di corrispondere le retribuzioni dovute, l'obbligo del risarcimento del danno da dequalificazione professionale. Questo danno può consistere nel pregiudizio patrimoniale derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità; può, inoltre, essere costituito dal fatto che la minore qualificazione professionale ha impedito al lavoratore di sfruttare particolari occasioni di lavoro o di percepire emolumenti ricollegati alla effettiva prestazione delle proprie mansioni. Si tratta, in entrambi i casi, di un danno patrimoniale, con la differenza che nel primo il danno incide direttamente sulle capacità professionali del lavoratore, nel secondo deriva dalla perdita di una ulteriore possibilità di guadagno. Peraltro, il danno professionale può assumere anche aspetti non patrimoniali.

Può, ad esempio, costituire una lesione del diritto del lavoratore all'integrità fisica (art. 2087 del c.c.) o, più in generale, alla salute (art. 32 della Costituzione), quando la forzosa inattività ha determinato nel lavoratore una vera e propria patologia psichica, come uno stato ansioso o una sindrome da esaurimento (Cass. 16 dicembre 1992 n. 13299).

In ordine alla quantificazione di tale pregiudizio, tenuto conto, oltre che dei criteri sopra menzionati, della posizione gerarchica del ricorrente, delle perdute possibilità di ulteriori guadagni connessi alla effettiva prestazione dell’attività lavorativa e della durata della condotta illecita (dal febbraio del 2001 al gennaio del 2003, data in cui il M. è stato licenziato), si stima equo liquidare, ai sensi dell’art. 1226 c.c., all’attualità, la complessiva somma di euro 61.440,02, pari al 75% della retribuzione per ogni mese di accertata inattività .In relazione al riscontro da parte del CTU di una invalidità del 25% conseguente a disturbo post-traumatico da stress, compete altresì il risarcimento del danno biologico, secondo le tabelle adottate dal Tribunale di Roma.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato in data 5.11.2002, l’istante in epigrafe indicato, premesso di essere dipendente della ADR s.p.a. dal 1.7.1974 con mansioni – sin dal 15.2.1996 – di Capo Servizio delle Attività Commerciali Dirette (Duty Free Shop), riferiva che il menzionato incarico era stato fino ad allora ricoperto da altro dipendente con la qualifica di dirigente; che esso ricorrente si era occupato, in particolare, dell’analisi del mercato, della individuazione dei prodotti da commercializzare e da acquistare, della determinazione dei prezzi di vendita, della gestione delle risorse umane, del sistema informativo, della pubblicità, del contenzioso con i clienti e i fornitori, della redazione e della predisposizione del budget annuale e di altre attività implicanti ampia autonomia decisionale; che il servizio di cui era responsabile costituiva un settore autonomo di attività commerciali all’interno della compagine societaria della resistente; che, nello svolgimento delle descritte mansioni, aveva gestito e coordinato una struttura complessa, articolata in un Ufficio Magazzino, Ufficio Pianificazione Vendite e Gestione Ordini e Ufficio Vendite e che a capo di tali strutture organizzative vi erano anche dipendenti con la qualifica di Quadro-livello 1s, la medesima rivestita da esso istante; che all’interno dei detti uffici lavoravano circa 125 persone poste alle proprie dipendenze; che nel corso della carriera aveva ricevuto diversi encomi; che all’interno della società resistente si era consolidata la prassi di attribuire a coloro che avessero svolto per circa tre anni mansioni di Capo Servizio con inquadramento iniziale nel livello 1s del ccnl di categoria la qualifica di dirigente; che esso attore aveva ampi poteri decisionali in ordine ai prodotti da commercializzare ed ai fornitori con cui contrattare, con i quali intratteneva rapporti vincolanti da cui scaturivano obblighi per la società datrice; che, a decorrere dal febbraio del 2001, gli era stato revocato l’incarico fino ad allora ricoperto e gli era stata contestualmente attribuita la funzione di Capo Ufficio, con mansioni esclusivamente esecutive e con obbligo di seguire le direttive tanto del nuovo Capo Servizio quanto di dipendenti inquadrati in un livello inferiore al proprio; che, successivamente, era stato costretto a restituire il cellulare aziendale, il personal computer portatile e le chiavi della macchina di servizio, nonché ad abbandonare la propria stanza; che, pertanto, era rimasto senza alcun effettivo incarico e senza un ufficio; che era stato aggredito verbalmente dal collega Jachna, il quale, alla presenza di altri dipendenti, lo aveva ingiuriato; che, a partire dal giugno del 2001, era stato assegnato alla Direzione Acquisti, rimanendo comunque privo di effettivi incarichi e sostanzialmente inattivo; che, a seguito dei comportamenti posti in essere dalla società convenuta, aveva subito un grave nocumento alla professionalità acquisita nonché rilevanti lesioni alla propria sfera psico-fisica che lo avevano, successivamente, costretto ad allontanarsi dalla propria famiglia e a trasferirsi presso l’abitazione del padre.

Tanto ed altro premesso, il M. adiva l’intestato Tribunale chiedendo che il Giudice, previo accertamento dello svolgimento delle mansioni dirigenziali, dichiarasse il proprio diritto all’inquadramento nella predetta qualifica a far data dal settembre 1996 o, in subordine, dal marzo 1999 e, per l’effetto, condannasse la società convenuta al pagamento delle differenze retributive maturate, pari a euro 49.593,00, oltre al pagamento delle somme maturande in corso di causa; ordinasse alla ADR s.p.a., previo accertamento della avvenuta violazione dell’art. 2103 c.c., la reintegra nelle mansioni precedentemente svolte e condannasse la medesima società al risarcimento del danno alla professionalità, quantificato nella complessiva somma di euro 84.912,20 (avuto riguardo alla retribuzione mensile del dirigente) o, in subordine, di euro 81.920,02 (avuto riguardo alla retribuzione mensile dei quadri), oltre alle ulteriori somme eventualmente dovute in caso di protrazione del demansionamento in corso di causa; condannasse la resistente al pagamento di euro 19.130,00 o, in subordine, di euro 15.026,00 a titolo di danno subito per effetto della mancata percezione degli incentivi ricollegati all’effettivo esercizio delle proprie funzioni, nonché al risarcimento del danno morale e patrimoniale (rispettivamente euro 20.000,00 ed euro 5.000,00) subito per effetto delle ingiurie descritte e del danno alla salute ed esistenziale patito a seguito del comportamento posto in essere dal datore di lavoro, quantificato, rispettivamente, in euro 50.000,00 ed euro 10.000,00, oltre al pagamento della somma di euro 16.287,00 per le spese mediche sostenute.

Il tutto con rivalutazione monetaria e interessi legali, vittoria di spese, competenze e onorari, da distrarsi in favore dei procuratori dichiaratisi antistatari.

Istituitosi ritualmente il contraddittorio, parte convenuta eccepiva l’infondatezza dell’avverso dedotto, stante l’inesistenza del diritto della controparte all’inquadramento superiore rivendicato, attesa l’indubbia riconducibilità delle mansioni svolte alla categoria attribuitale; contestava quanto ex adverso affermato in ordine al demansionamento subito e al risarcimento di tutti i danni conseguentemente richiesti, concludendo per il rigetto integrale del ricorso perché infondato in fatto ed in diritto.

Acquisiti i documenti allegati, escussi i testi intimati dalle parti, disposta ed espletata consulenza medico-legale, all’odierna udienza, il Giudice Unico – cui la causa è pervenuta a seguito di provvedimento di riassegnazione del Presidente del Tribunale - sulla produzione di note illustrative delle rispettive pretese, udita la discussione, decideva come da separato dispositivo di cui dava lettura.

MOTIVI DELLA DECISIONE

La domanda appare solo parzialmente fondata e merita, pertanto, accoglimento per quanto di ragione.

Come noto, nel procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento di un lavoratore subordinato occorre in primo luogo accertare quali siano le attività lavorative in concreto svolte, individuare poi le qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e, quindi, procedere al raffronto fra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda (cfr., ex plurimis, Cass. 2003/12854).

Ciò premesso, si osserva che il ricorrente deduce di aver svolto, alle dipendenze della ADR s.p.a., mansioni riconducibili alla qualifica dirigenziale - cui appartengono i dipendenti che “ricoprono nell’azienda un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale ed esplicano le loro funzioni al fine di promuovere, coordinare e gestire la realizzazione degli obiettivi dell’impresa; rientrano sotto tale definizione, ad esempio, i direttori, i condirettori, coloro che sono posti con ampi poteri direttivi a capo di importanti servizi o uffici, gli institori e i procuratori ai quali la procura conferisca in modo continuativo poteri di rappresentanza e di decisione per tutta o per una notevole parte dell’azienda. L’esistenza di fatto delle condizioni di cui sopra comporta l’attribuzione della qualifica e quindi…omissis” - e non già all’attuale 1° livello super della categoria quadri - cui appartengono “gli impiegati con funzioni direttive che - svolgendo mansioni tali da implicare ampia responsabilità, vasta preparazione, conoscenza e capacità di altissimo livello professionale, acquisite anche a seguito di prolungato esercizio delle funzioni, ampia facoltà di iniziativa, piena discrezionalità e libertà di apprezzamento nella realizzazione delle direttive aziendali – effettuano attività di altissima specializzazione e/o sono preposti a importanti e complesse unità organizzative o servizi, svolgendo ruoli o funzioni per i quali siano previste peculiari responsabilità e deleghe in ordine al conseguimento di essenziali obiettivi aziendali”.

La declaratoria contrattuale sopra riportata attribuisce alla qualifica dirigenziale un preminente rilievo di carattere contenutistico, ponendo in risalto le proprietà qualitative della attività di un dirigente, senza che decisivo significato assumano l'esercizio di poteri di supremazia gerarchica e, in genere, di poteri direttivi che, con evidenza, sono cosa ben diversa dai poteri decisionali. Il dato al quale, ad avviso di questo Giudice, occorre fare riferimento per la nozione della dirigenza, è, pertanto, la trasposizione del baricentro dell'attività dirigenziale dal piano della preposizione al piano della qualità, della discrezionalità e dell’autonomia decisionale e strategica delle mansioni affidate al dipendente.

Dall’analisi della declaratoria contrattuale dei quadri–livello 1s, in cui era inquadrato il ricorrente, peraltro, emerge chiaramente come anche per tali dipendenti sia previsto lo svolgimento di mansioni che comportano, da un lato, ampie responsabilità, e, dall’altro, capacità di altissimo livello professionale e ampie facoltà di iniziativa da esercitare, tuttavia, comunque, nell’ambito delle direttive aziendali e per il conseguimento degli essenziali obiettivi dell’impresa. Ebbene, in presenza di quest’ultima declaratoria, deve ritenersi che l’elemento differenziale che contraddistingue l’attività del dirigente risiede nell’esercizio di funzioni al di fuori dei limiti delle direttive generali e caratterizzate dalla possibilità di porre in essere le scelte fondamentali per l’impresa o un ramo di essa con autonomo potere decisionale e rappresentativo. Viceversa, l’autonomia degli altri funzionari o impiegati con funzioni direttive preposti ad uffici o servizi si distingue da quella dirigenziale per il fatto che la prima consiste nell'attuazione, determinazione e cura dell'esecuzione delle direttive generali dell'imprenditore o dei dirigenti dell'azienda in un ramo o servizio di questa.

Nella concreta fattispecie, alla luce della istruttoria espletata, il Giudice non ritiene che il M. abbia svolto mansioni dirigenziali nel senso sopra precisato.

Invero, occorre innanzi tutto sottolineare che lo stesso ricorrente, in sede di interrogatorio formale, ha ammesso che i provvedimenti disciplinari venivano adottati in via esclusiva – anche se su sua richiesta - dalla Direzione del Personale; ha, inoltre, confermato, che non aveva poteri di firma e non poteva impegnare direttamente la società convenuta all’esterno, con ciò contraddicendo quanto affermato nell’atto introduttivo relativamente alla possibilità di intrattenere con i fornitori rapporti vincolanti da cui scaturivano per la ADR s.p.a. obblighi e facoltà.

Ciò premesso, va rilevato che il teste di parte ricorrente Gaudio ha confermato che, in qualità di consulente delle ditte fornitrici della società resistente, aveva rapporti professionali esclusivamente con il M. o con i suoi collaboratori, ma ha altresì specificato che la formalizzazione dei contratti era rimessa all’ufficio acquisti e che il M. non poteva fargli alcun ordine prima di tale momento; ha poi dichiarato che il responsabile del detto ufficio, pur limitandosi a ratificare i prodotti già selezionati, provvedeva comunque a contrattare il prezzo di acquisto degli stessi. Anche in ordine alla gestione della pubblicità all’interno dei negozi, infine, ha ribadito che, dopo le trattative intercorse con il M., era un altro ufficio a stipulare i contratti.

Anche il teste Martinis, fornitore della Trussardi s.p.a., ha riferito che il suo referente esclusivo era l’odierno ricorrente, ma non ha chiarito quali fossero “tutte le decisioni importanti” che prendeva direttamente il M.; quanto alle campagne promozionali, ha riferito che il M. si occupava della sola gestione delle medesime senza, peraltro, identificarlo in colui che prendeva anche le decisioni in merito all’avvio della campagna stessa.

Il teste Girinelli, infine, ha dichiarato che era il Comitato Acquisti a ratificare gli ordini superiori ai 250.000 milioni di lire e che era comunque il Direttore ad avallare le decisioni su proposta del Responsabile di Area; quanto alle campagne promozionali, ha riferito che quelle di maggiore importanza venivano deliberate dalla Direzione Marketing, mentre solo quelle secondarie venivano deliberate direttamente dal ricorrente.

Il teste Di Bari, ex dipendente della società convenuta con la qualifica di Direttore Vendite, ha poi riferito che le decisioni in ordine all’ingresso di nuovi fornitori venivano prese dal Comitato Acquisti; analogamente, l’acquisto delle merci, su proposta del M., doveva essere autorizzato dal Direttore Acquisti, il quale negoziava anche in prima persona il prezzo con il fornitore; il teste ha poi dichiarato che il Direttore Vendite non si limitava ad un mero riscontro formale della regolarità del contratto, entrando anche nel merito del contenuto negoziale; quanto alla fase della vendita, ha dichiarato che i prezzi dei prodotti venivano stabiliti dal Direttore sulla base delle indicazioni dei fornitori. Per quanto riguarda la gestione del personale, inoltre, ha riferito che tanto le assunzioni quanto i provvedimenti disciplinari erano decisi dalla Direzione del Personale, limitandosi il M. ad una funzione meramente propositiva; quanto alla gestione del contenzioso, infine, il teste ha riferito che l’odierno ricorrente si occupava solo di piccole problematiche quotidiane attinenti all’ordinaria amministrazione.

Del medesimo tenore sono le deposizioni della teste Terziantz, dipendente di ADR dal 1993, la quale ha confermato che le decisioni in ordine all’apertura di nuovi negozi o alla stipula di nuovi contratti venivano prese dal Comitato Acquisti e che i budgets annuali non venivano predisposti dal M. ma dalla Direzione Vendite, e del teste Cavina, anch’egli dipendente della società resistente, il quale ha riferito che le scelte definitive in ordine ai prodotti da acquistare e ai fornitori spettavano al Direttore Vendite e, fino al 2000, al Comitato Acquisti; lo stesso teste ha, inoltre, riferito che il Direttore Vendite non si limitava ad un assenso meramente formale sulle proposte del M., precisando che analoga distribuzione di compiti riguardava anche le decisioni relative al personale.

Orbene, questo Giudice ritiene che le mansioni effettivamente svolte dal M., così come risultanti dalle descritte testimonianze, siano perfettamente riconducibili a quelle proprie della categoria di inquadramento contrattuale rivestita dal ricorrente (I livello super – categoria Quadri e non già Dirigente, come sostenuto in ricorso). Invero, dall’istruttoria testimoniale è emerso che l’attività del M. fu sempre, essenzialmente, una attività propositiva e di gestione, sotto la responsabilità decisionale diretta dei dirigenti preposti alle singole direzioni; il M., in altri termini, non ha goduto di un elevato grado di autonomia, essendo questa ampia ma limitata ad attività di gestione, informazione e proposta, senza, tuttavia, il potere decisionale proprio del dirigente (nel senso anzidetto).

Né tale conclusione è smentita dalle risultanze documentali, le quali, al contrario, confermano l’assenza di un vero e proprio potere decisionale autonomo volto direttamente alla determinazione e al conseguimento degli obiettivi primari dell’azienda.

Irrilevante, infine, è la circostanza per cui ad altri dipendenti con il medesimo inquadramento del M. era stata attribuita, dopo circa tre anni, la qualifica dirigenziale, dovendosi anzitutto ribadire, in proposito, che il datore di lavoro non è tenuto ad assicurare la parità di trattamento dei propri dipendenti, atteso che l’esistenza di tale principio è stata autorevolmente esclusa dalle Sezioni Unite della C. di Cassazione con la sentenza n. 4570 del 17 maggio 1996. Il ricorrente, peraltro, allega la circostanza anche al fine di fondare il proprio diritto sulla esistenza di una prassi aziendale; tale assunto è, tuttavia, privo di pregio.

Per la formazione degli usi aziendali, riconducibili alla categoria degli usi negoziali, è necessaria la sussistenza di una prassi generalizzata - che si realizza mediante la mera reiterazione di comportamenti posti in essere spontaneamente e non già in esecuzione di un obbligo - che riguardi i dipendenti, anche di una sola azienda, e che comporti per essi un trattamento più favorevole rispetto a quello previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva (cfr. Cass. SS.UU. 1995/3101; Cass. 1997/1438).

Ebbene, nel caso in esame, il M. ha dedotto che ai dipendenti con la qualifica di Capo Servizio, dopo circa tre anni di esercizio continuo di tali funzioni, al raggiungimento o miglioramento degli obiettivi fissati, veniva riconosciuta la qualifica di dirigente. L’odierno attore, tuttavia, da un lato, non ha allegato quali fossero gli “obiettivi di ruolo” da esso concretamente raggiunti; dall’altro, non ha specificato l’entità, in concreto, del recupero dei costi, del profitto economico, della quantità e qualità dei servizi erogati ed effettivamente realizzati dagli altri dipendenti, sì da impedire tanto una puntuale verifica dell’esistenza delle condizioni a cui era asseritamente subordinato il riconoscimento della qualifica dirigenziale, quanto un raffronto tra i risultati da esso raggiunti e quelli realizzati dagli altri lavoratori successivamente promossi. A ciò si aggiunga che il ricorrente ha omesso di specificare quali fossero le mansioni effettivamente svolte dai dipendenti promossi, limitandosi ad indicare la qualifica da essi precedentemente rivestita, non consentendo, pertanto, di verificare se l’attribuzione della qualifica superiore avesse comportato o meno un trattamento più favorevole rispetto alla disciplina legale o collettiva.

Alla luce delle considerazioni sopra esposte, le domande aventi ad oggetto il riconoscimento della superiore qualifica dirigenziale e la conseguente condanna al pagamento delle differenze retributive maturate vanno rigettate. Passando all’esame della domanda avente ad oggetto l’illegittimo demansionamento posto in essere dalla società datrice di lavoro, va rilevato che le circostanze fattuali allegate, in proposito, a sostegno del ricorso hanno trovato, all’esito dell’istruttoria testimoniale, pieno riscontro, dovendosi, peraltro, sin d’ora precisare che va dichiarata la cessazione della materia del contendere per la parte della domanda relativa alla reintegra nelle precedenti mansioni, atteso che il M., nel corso del giudizio (gennaio 2003), è stato licenziato.

Dalle deposizioni dei testi Ghinelli, Martinis, Vincenzi e Girinelli emerge, infatti, chiaramente che il M., a seguito della generale riorganizzazione aziendale che interessò la compagine societaria della ADR s.p.a., fu lasciato in una situazione di progressiva e completa inoperosità, con sostanziale privazione di qualsiasi potere gestionale ed operativo fino al momento del licenziamento (teste Ghinelli: “…omissis…non si occupava più di nulla, si limitava a passeggiare davanti agli shops…gli era stato ordinato di restituire il cellulare aziendale…ricordo che il ricorrente non aveva un ufficio, non sapeva dove andare e si appoggiava o al magazzino Duty Free o …ho personalmente assistito ad a ordini dati al ricorrente dalla signora…che in precedenza…dipendeva dall’Avv.to M.… andavo all’ufficio acquisti…e vedevo il ricorrente seduto. Non aveva nulla davanti; la scrivania era vuota; anche a giugno 2001 e fino a novembre o primi di dicembre molte volte lo vedevo passeggiare in aerostazione senza far nulla; fino al licenziamento il ricorrente è sempre rimasto presso l'ufficio acquisti... quotidianamente lo si vedeva passeggiare in aerostazione...'; teste Martinis: "...omissis...posso dire di aver visto il ricorrente occuparsi esclusivamente della sistemazione della merce negli scaffali e provvedere a far riassortire gli stessi... divenne impossibile trovare il M. al telefono, sia dell'ufficio che del cellulare; posso dire di aver visto il M.... seduto senza far nulla; una volta lo vidi all'interno di un ufficio, davanti ad una scrivania completamente vuota... mi rispose che non aveva nulla da fare; ciò verso l'estate del 2001; teste Vincenzi: ... omissis... constatai che aveva sempre meno potere e che non aveva più la stanza ... ho assistito alla progressiva inoperosità del M. che ritrovavo in aerostazione davanti ai duty free, che passeggiava senza far nulla; non aveva alcun ufficio, né nella "Baracche" né nella palazzina Epua... un paio di volte lo ho visto nel magazzino centrale dello shop 1 seduto su delle casse"; teste Girinelli: "... omissis.... non aveva più telefonino, computer, chiavi della macchina e la stanza...lo ho visto stazionare davanti ai negozi...so che è stato trasferito alla Direzione Acquisti...gli hanno dato una stanza ma quando mi recavo alla Direzione Acquisti constatavo che non svolgeva alcun incarico”).

A fronte di tali circostanziate e concordanti deposizioni, nulla in contrario è emerso dalle dichiarazioni dei testi di parte resistente, i quali si sono, in sostanza, limitati a confermare che la struttura organizzativa della società subì, nel periodo di cui è causa, un profondo riassetto organizzativo, dovendosi, anzi, rilevare che anche il teste Cavina - intimato dalla ADR s.p.a. - ha riconosciuto che, a seguito della menzionata riorganizzazione, l'inserimento del M. fu attuato senza l'attribuzione di compiti specifıci; analogamente, il legale rappresentante della società convenuta, in sede di interrogatorio formale, ha espressamente ammesso che, anche dopo che il M. fu assegnato alla Direzione Acquisti, non gli venne affidato alcun incarico.

Orbene, come noto, il datore di lavoro viola l’art. 2103 c.c. e compie un atto illecito, definito come atto di dequalificazione professionale, non solo quando assegna il dipendente a mansioni inferiori, ma anche quando, pur corrispondendogli la retribuzione, lo lasci in condizione di forzata inattività e senza assegnazione di compiti, atteso che il lavoro costituisce non soltanto un mezzo di sostentamento e di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità del lavoratore. Sussiste, dunque, secondo la giurisprudenza di legittimità, anche se la questione è controversa in dottrina, un diritto del lavoratore all'effettivo svolgimento della propria prestazione di lavoro (Cass. 15 giugno 1983 n. 4106; Cass. 6 giugno 1985 n. 3372; Cass. 10 febbraio 1988 n. 1437; Cass. 13 novembre 1991 n. 12088; Cass. 15 luglio 1995 n. 7708; Cass. 4 ottobre 1995 n. 10405; Cass. 2001/14199), la cui lesione da parte del datore di lavoro costituisce un inadempimento contrattuale e determina, oltre all'obbligo di corrispondere le retribuzioni dovute, l'obbligo del risarcimento del danno da dequalificazione professionale. Questo danno può consistere nel pregiudizio patrimoniale derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità; può, inoltre, essere costituito dal fatto che la minore qualificazione professionale ha impedito al lavoratore di sfruttare particolari occasioni di lavoro o di percepire emolumenti ricollegati alla effettiva prestazione delle proprie mansioni. Si tratta, in entrambi i casi, di un danno patrimoniale, con la differenza che nel primo il danno incide direttamente sulle capacità professionali del lavoratore, nel secondo deriva dalla perdita di una ulteriore possibilità di guadagno. Peraltro, il danno professionale può assumere anche aspetti non patrimoniali.

Può, ad esempio, costituire una lesione del diritto del lavoratore all'integrità fisica (art. 2087 del c.c.) o, più in generale, alla salute (art. 32 della Costituzione), quando la forzosa inattività ha determinato nel lavoratore una vera e propria patologia psichica, come uno stato ansioso o una sindrome da esaurimento (Cass. 16 dicembre 1992 n. 13299).

Tutto ciò, tuttavia, non deve far ritenere che l'atto di dequalificazione professionale di un lavoratore sia sempre fonte di danno.

Il danneggiato, invero, ha l'onere di fornire gli elementi probatori e i dati di fatto in suo possesso per consentire che l'apprezzamento - necessariamente equitativo – volto alla quantificazione del pregiudizio subito sia, per quanto possibile, limitato e riconducibile alla sua caratteristica funzione di colmare solo le inevitabili lacune al fine della puntuale determinazione del danno, dovendosi precisare, peraltro, che la prova del nocumento può essere anche presuntiva (Cass. 2003/16792; Cass. 2001/13580). Orbene, nel caso di specie, ritiene il Giudice che – tenuto conto della posizione medio-alta rivestita dal M. all’interno della società e del conseguente possesso di un elevato bagaglio professionale, dell’età (55 anni) dello stesso al momento della accertata condotta illecita e della natura e gravità del demansionamento subito, consistito essenzialmente in una totale privazione di mansioni – possa ritenersi certamente sussistente il pregiudizio richiesto sub specie di danno patrimoniale alla professionalità.

In ordine alla quantificazione di tale pregiudizio, tenuto conto, oltre che dei criteri sopra menzionati, della posizione gerarchica del ricorrente, delle perdute possibilità di ulteriori guadagni connessi alla effettiva prestazione dell’attività lavorativa e della durata della condotta illecita (dal febbraio del 2001 al gennaio del 2003, data in cui il M. è stato licenziato), si stima equo liquidare, ai sensi dell’art. 1226 c.c., all’attualità, la complessiva somma di euro 61.440,02, pari al 75% della retribuzione per ogni mese di accertata inattività.

Al danneggiato va inoltre attribuita la somma di euro 2.764,57 a titolo di risarcimento del danno da lucro cessante per il mancato godimento della somma liquidata a titolo di risarcimento, somma che - ove posseduta ex tunc - sarebbe stata presumibilmente investita per ricavarne un lucro finanziario. Tale importo è stato determinato equitativamente ex art. 2056 co. I c.c., secondo il più recente orientamento giurisprudenziale (cfr. Cass. Sez. Un. 17 febbraio 1995, n. 1712), col metodo seguente:

- a base di calcolo si è assunta non la somma sopra liquidata (cioè rivalutata ad oggi), ma l’originario importo rivalutato anno per anno;

- su tale importo si è applicato un saggio di rendimento ricavato - equitativamente - dalla media ponderata del rendimento dei titoli di stato e dal tasso degli interessi legali (3,37%);

- il periodo di temporanea indisponibilità della somma liquidata a titolo di risarcimento è stato computato con decorrenza dalla data della cessazione dell’illecito.

Risulta altresì accertato che il ricorrente, in due diverse occasioni, è stato definito dal collega Jachna, alla presenza di altri dipendenti ed in sua assenza, come un “farabutto, ladro, poco di buono, corrotto e delinquente…” (sul punto vedi le dichiarazioni rese dai testi Ghinelli e Vincenzi, presenti al momento dei fatti).

Essendo ravvisabili nel fatto descritto gli estremi del reato di diffamazione, la società ADR – che risponde dell’operato del proprio dipendente ai sensi dell’art. 2049 c.c. – va condannata al risarcimento del danno morale, liquidato equitativamente, tenuto conto della reiterazione del reato, all’attualità, in euro 10.000.

Nessuna somma può essere riconosciuta al ricorrente a titolo di danno patrimoniale conseguente all’accertata condotta delittuosa di cui sopra, posto che nessuna allegazione in concreto è stata effettuata.

Al danneggiato va inoltre attribuita la somma di 878,94 a titolo di risarcimento del danno da lucro cessante per il mancato godimento della detta somma liquidata a titolo di risarcimento, somma che - ove posseduta ex tunc - sarebbe stata presumibilmente investita per ricavarne un lucro finanziario. Tale importo è stato determinato equitativamente ex art. 2056 co. I c.c., secondo il più recente orientamento giurisprudenziale (cfr. Cass. Sez. Un. 17 febbraio 1995, n. 1712), col metodo sopra descritto. Risulta, infine, provato che il M., a seguito della prolungata inattività e del comportamento posto in essere dalla società datrice nei suoi confronti, ha subito un danno psicofisico qualificato dal consulente come “sindrome ansioso depressiva” e “disturbo post-traumatico da stress cronico di livello marcato”, con una conseguente invalidità permanente pari al 25%. Al riguardo, occorre preliminarmente chiarire che è infondata l’eccezione di difetto di legittimazione passiva sollevata, in sede di note autorizzate finali, dalla odierna resistente con riferimento alla disciplina legislativa introdotta dal D.Lgs. n. 38/2000 che, come noto, ha ampliato l’area dell’esonero dalla responsabilità del datore di lavoro alla categoria del danno biologico derivante da infortunio o malattia professionale, ponendo il relativo onere a carico dell’Inail. Invero - a prescindere dalla riconducibilità dell’eccezione alla categoria della legittimatio ad causam o della effettiva titolarità del rapporto e, quindi, dalla tempestività della stessa - nel caso in esame, ad avviso di questo Giudice, la patologia contratta dal M. non è qualificabile, ai sensi dell’art. 13 del predetto decreto, come malattia professionale stricto sensu, atteso che la stessa non è direttamente derivata dall’espletamento dell’attività lavorativa del ricorrente ma da una condotta illecita posta in essere dal datore di lavoro.

Tanto premesso, si osserva che le conclusioni cui è giunto il consulente possono essere condivise e accolte, in quanto fondate su accertamenti scientifici seri ed esenti da vizi logico – giuridici, nonché su esami specialistici. Né la perizia risulta viziata in ragione dall’acquisizione, da parte del consulente, previa autorizzazione del Giudice in sede di conferimento dell’incarico, di documenti esistenti presso la ASL, atteso, da un lato, che il Giudice, nel rito del lavoro, gode di poteri istruttori più ampi rispetto al rito ordinario ai sensi dell’art. 421 c.p.c.; dall’altro, che il consulente stesso ha espressamente riferito che la detta documentazione non ha in alcun modo influito sulle sue valutazioni, espresse esclusivamente in base alle indagini medico legali effettuate personalmente ed in base ad altra certificazione medica di provenienza della ASL, tempestivamente prodotta dal ricorrente unitamente al deposito dell’atto introduttivo (vedi pag.29 dell’elaborato peritale). Analoghe considerazioni vanno fatte con riguardo alla censura, pure sollevata dalla resistente, riguardante l’avvenuta acquisizione, agli atti peritali, della consulenza di parte ricorrente, atteso che dalla perizia non emerge in alcun modo che il ctu abbia concretamente tenuto conto della detta consulenza. Di conseguenza, tenuto conto della gravità effettiva dei postumi e dell'età del soggetto leso, posto in relazione il concreto evento biologico con il quadro completo delle funzioni vitali in cui poteva e potrà estrinsecarsi l'efficienza psicofisica del danneggiato, si ritiene equo, ex art. 1226 c.c., liquidare il danno derivante dalla lesione permanente dell'integrità psicofisica, secondo l’insegnamento del giudice di legittimità (Cass. 2008/’93; Cass. 4255/’95), nella misura di euro 34.800,00 attuali (pari a euro 2.320,00 per ogni punto di invalidità permanente, valore che nel caso di specie si ritiene costituire un equo ristoro del pregiudizio personale subito dal danneggiato); si perviene a tale valore opportunamente adattando il valore monetario base del punto di invalidità (secondo la tabella uniformemente adottata dal Tribunale di Roma) in funzione aritmeticamente decrescente rispetto all'età del danneggiato ed in funzione geometricamente crescente rispetto all'entità dei postumi. Al danneggiato va inoltre attribuita la somma di euro 1.565,87 a titolo di risarcimento del danno da lucro cessante per il mancato godimento della somma liquidata a titolo di risarcimento, somma che - ove posseduta ex tunc - sarebbe stata presumibilmente investita per ricavarne un lucro finanziario. Tale importo è stato determinato equitativamente ex art. 2056 co. I c.c., secondo il più recente orientamento giurisprudenziale (cfr. Cass. Sez. Un. 17 febbraio 1995, n. 1712), col metodo più volte menzionato. Quanto alle spese mediche richieste (pari ad euro 16.287,00), si osserva che dall'esame della documentazione prodotta emerge che si tratta di spese sostenute quasi esclusivamente dalla moglie del M., sicché dal mancato accoglimento della domanda avente ad oggetto il superiore inquadramento - da cui sarebbe derivato il diritto all'iscrizione al Fondo assicurativo FASI - non può che conseguire il rigetto di tale richiesta, mentre le uniche spese sostenute dal ricorrente (pari ad euro 165,27) non sono in alcun modo ricollegabili alle patologie accertate dal consulente.

Nessuna somma può essere liquidata a titolo di incapacità lavorativa specifıca, pur quantifıcata dal consulente nella misura del 25%.

Ritiene questo Giudice che la materia in esame (conseguenza di un danno alla persona sulla attività lavorativa del danneggiato) meriti una riconsiderazione funditus, in considerazione della esigenza da un lato di risarcire integralmente il danno alla persona; dall'altro, di evitare duplicazioni risarcitorie. In astratto, ogni lesione della salute può riverberare effetti sull'attività lavorativa in tre modi:

1) precludendola del tutto, con conseguente soppressione totale del reddito;

2) costringendo il soggetto leso a mutare funzioni o qualifıca, ovvero a ridurre la propria produttività, con conseguente riduzione del reddito;

3) costringendo il soggetto leso, per svolgere le medesime attività cui attendeva prima del sinistro, a sopportare sforzi maggiori, ovvero a subire una maggiore usura.

I primi due casi costituiscono altrettante ipotesi di danno patrimoniale; nella terza ipotesi, la limitata validità del danneggiato non contrae il suo reddito lavorativo, ma sottopone la sua validità residua ad una maggiore usura (è questo il c.d. danno da cenestesi lavorativa); si tratta, dunque, di un'ipotesi di lesione della salute (c.d. danno biologico), la quale non può dare origine ad un autonomo risarcimento, ma deve essere valutata come una soltanto delle molteplici componenti di quella valutazione complessa che è la valutazione del danno alla salute.

Appare quindi chiaro che col medesimo sintagma incapacità (lavorativa) specifıca si designano nella prassi realtà disomogenee ed affatto equiparabili allorché si debba procedere alla aestimatio del danno. Ed infatti il danno alla persona è danno evento; sussiste necessariamente in caso di lesione della salute e va risarcito proporzionalmente al baréme di invalidità permanente.

Al contrario, la lesione del reddito è danno conseguenza; sussiste solo eventualmente in caso di lesione della salute e va risarcito a prescindere dal grado di invalidità permanente. Infatti, per particolari attività, a modeste lesioni possono conseguire devastanti effetti sull'attività lavorativa; mentre, per contro, gravi lesioni possono non precludere né ridurre la produzione del reddito.

Sarebbe pertanto auspicabile superare la dizione stessa di incapacità lavorativa specifıca, distinguendo invece le ipotesi di danno da cenestesi lavorativa (le quali determinano un "appesantimento" del baréme di invalidità permanente), dalle ipotesi di danno da lesione del reddito (un comune danno patrimoniale, da provare e stimare secondo i criteri comuni in materia di risarcimento).

Del resto, non è inutile ricordare che il concetto stesso di incapacità lavorativa specifica è stato mutuato nel campo della responsabilità civile dalla infortunistica del lavoro, in un’epoca in cui il riferimento al reddito (di volta in volta potenziale, alternativo, eventuale, futuro) del soggetto leso costituiva l’unica strada per liquidare il danno alla salute.

Ma oggi, riconosciuta dalla Corte Costituzionale (sent. n. 184/86) la risarcibilità e la onnicomprensività del danno alla salute, rispetto alle singole voci di danno in precedenza elaborate dalla giurisprudenza (danno alla vita di relazione, danno estetico, danno alla vita sessuale), deve, di conseguenza, abbandonarsi il riferimento alla capacità lavorativa come fonte autonoma di danno e devesi semplicemente distinguere il danno consistito nella deminutio patrimonii (la lesione del reddito), da quello consistito nella deminutio corporis (la disfunzione anatomo-patologica conseguenza della lesione). In altri termini, le ripercussioni che la lesione subita dal danneggiato ha prodotto sulla attitudine di quest’ultimo a svolgere un lavoro purchessia, devono essere tenute presenti – come è avvenuto nel caso di specie - nella liquidazione del danno biologico (Trib. Crema 8 giugno 1989, in Giur. mer. 1990, 993, ove si dice chiaramente che “ove la ridotta capacità lavorativa comporti soltanto l’applicazione di maggior sforzo lavorativo o una maggior usura delle energie di riserva, senza effettiva perdita di reddito, nessun lucro cessante dovrà essere riconosciuto, e tali conseguenze rileveranno solo sotto il profilo del danno biologico”; Trib. Piacenza 19 maggio 1993 n. 190, in Arc. giur. circ. sin. strad., 1993, 705; Trib. Milano 19 marzo 1992, in Riv. it. med. leg., 1994, 199, ove si afferma tout court che la “capacità lavorativa generica (...) è una delle componenti del danno biologico”; Trib. Livorno 26 marzo 1993 n. 186, in Arc. giur. circ. sin. strad., 1994, 136; App. Milano 25 gennaio 1994, in Assicurazioni, 1994, 169; Trib. Roma 11 luglio 1995 n. 10077, in Riv. giur. circ. trasp., 1996, 141; Trib. Roma 5.12.1996, Fanelli c. Milano, inedita; Trib. Roma 10.12.1996, in Giur. romana, 1997, 65; Trib. Roma 8.3.1997, Torre c. SAI, inedita; Trib. Roma 18.3.1997, Bernardini c. Tirrena, inedita; Trib. Roma 2.6.1997, Porceddu c. Intercontinentale, inedita; Trib. Roma 3.6.1997, Saccone c. Liguria, inedita; Trib. Roma 3.10.1997, Famelli c. Toro, inedita; Trib. Roma 29.11.1997, Spada c. Assitalia, inedita). Occorre dunque accertare e valutare separatamente due distinti effetti che le lesioni personali possono avere sull'attività lavorativa: se le lesioni producono una accertata riduzione del reddito futuro, tale danno costituisce un ordinario danno patrimoniale da lucro cessante; se le lesioni non incidono sul reddito (sia perché resta invariato; sia perché manca addirittura un reddito), ma rendono più faticosa la prestazione lavorativa, di tale circostanza deve tenersi debito conto nella liquidazione del danno biologico, elevando l'ammontare del risarcimento dovuto.

Alla luce di quanto premesso, va rilevato che il ricorrente non ha domandato nell'atto introduttivo il risarcimento del pregiudizio derivante dalla diminuzione futura del reddito in ragione della incapacità, totale o parziale, di attendere alla mansioni in precedenza espletate, sicché una eventuale pronuncia sul punto sarebbe evidentemente viziata, ex art. 112 c.p.c., da ultrapetizione.

Né può essere interpretata in tal senso la richiesta di cui al capo e) delle conclusioni del ricorso, qualifıcata quale danno alla carriera ed espressamente ed esclusivamente riconnessa alla mancata percezione degli incentivi corrisposti ai dipendenti in servizio effettivo.

Quanto, poi, a tale ultima domanda, la stessa, pur meritevole di accoglimento, non necessita di apposita liquidazione, atteso che della circostanza relativa al mancato guadagno ulteriore connesso all’effettivo espletamento dei propri incarichi si è già tenuto conto, come sopra detto, in sede di liquidazione del danno patrimoniale alla professionalità.

Non merita accoglimento, infine, la domanda avente ad oggetto il risarcimento del danno esistenziale.

Alla luce delle recenti e note sentenze della Suprema Corte di Cassazione (SS.UU. 9556/2002; Cass. 8827/2003; Cass. 8828/2003), con cui è stata riconosciuta quale altra categoria di danno non patrimoniale distinto da quello biologico e morale, il c.d. danno esistenziale, occorre fare alcune precisazioni relative al caso in esame.

Nel risarcimento del danno biologico, il Giudice ricomprende il danno alla salute subito dal soggetto, il danno alla vita di relazione generica, il danno estetico, il danno alla sfera sessuale. Ne consegue che i rapporti parentali-familiari e le relazioni personali lese che rientrano come conseguenza normale del trauma subito, sono già risarciti con la liquidazione del danno biologico, poiché le tabelle liquidative tengono conto di tutti questi fattori e della loro naturale e conseguente lesione.

Pertanto, il danno esistenziale è un pregiudizio che, per essere risarcito e liquidato, deve incidere in maniera specifica e permanente sui rapporti familiari o personali, sugli hobbies, sulle attività sportive o ludiche del danneggiato, poiché le normali e naturali conseguenze nefaste generiche sono già ricomprese nella liquidazione del danno biologico o morale. Nella fattispecie concreta, l’unico danno esistenziale prospettato dalla parte attrice nell’atto introduttivo è la lesione o, più propriamente, la rottura del vincolo familiare tutelato dalla Costituzione agli artt. 29 e 30 e risarcibile, secondo la giurisprudenza citata, ex art. 2043 c.c..

Alla luce delle considerazioni sopra esposte e al fine di evitare il pericolo di speculazioni o duplicazioni risarcitorie, il danno esistenziale esige, tuttavia, una prova rigorosa.

Ebbene, nel caso in esame, la circostanza allegata a sostegno della domanda – relativa all’abbandono, da parte del M., della casa coniugale in conseguenza dello stato depressivo in cui lo stesso versa a seguito del trauma subito - non ha trovato alcun riscontro, atteso che nessuno dei testi ha riferito alcunché in proposito, sicché la domanda deve essere rigettata, ai sensi dell’art. 2697 c.c., per assenza di prova.

Su tutte le somme complessivamente liquidate, pari a euro 111.449,4, decorrono gli interessi legali dalla data della pronuncia del dispositivo al saldo effettivo.

Le spese del presente giudizio, ivi comprese quelle di ctu, liquidate con separato decreto, seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo, con attribuzione ex art. 93 c.p.c. ai procuratori dichiaratisi antistatari.

P.Q.M.

Il Giudice Unico del lavoro di Civitavecchia, definitivamente pronunciando, ogni altra domanda, eccezione e deduzione disattese, così provvede:

1) in parziale accoglimento del ricorso, condanna la A. di R. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, al pagamento, in favore del ricorrente, per i titoli di cui in motivazione, della complessiva somma di euro 111.449,4, oltre interessi legali dalla pronuncia del dispositivo al saldo; 2) condanna la società resistente al pagamento delle spese processuali, liquidate in euro 4.834,55, di cui euro 3.258,84 per onorari, oltre IVA e CPA, da liquidarsi ex art. 93 c.p.c. in favore dei procuratori dichiaratisi antistatari; 3) condanna la A.D.R. s.p.a. al pagamento delle spese di c.t.u., liquidate con separato decreto.

Civitavecchia, 8 luglio 2004.

 

Il Giudice Unico del Lavoro

Dott. Francesco Colella

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