MOBBING : GIURISPRUDENZA

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Una non condivisibile sentenza in tema di "mobbing"

Rapporto di lavoro – Vessazioni morali, trasferimento e demansionamento con inattività, attualizzanti la fattispecie del mobbing – Cessazione della condotta, dichiarazione di illegittimità del trasferimento di sede ed assegnazione a  mansioni equivalenti ex art. 2103 c.c. – Addizionale risarcimento del danno (da qualificarsi come “danno esistenziale”) in via equitativa, ex art. 1226 c.c. - Spettanza e criteri di calcolo.

Tribunale di Forlì – sezione lavoro (1° grado) – 15 marzo 2001 (ud. 23 febbraio 2001) – Est. Sorgi – Mulas (avv. Spinelli) c. Banca Nazionale dell’Agricoltura (poi Banca Antoniana Popolare Veneta)(avv. Pessi, Cagnani).

Per il danno da vessazioni morali, trasferimento illegittimo, pregiudizio  all’integrità dello stato di salute (sindrome ansioso-depressiva somatizzata, in fattispecie), la tripartizione danno biologico-danno patrimoniale-danno morale oramai appare riduttiva per l’interprete in quanto lascia troppi spazi privi di adeguata tutela. Sul punto è oramai acquisito, seppure recentemente, il concetto di danno esistenziale, o danno alla vita di relazione, che si realizza ogni qual volta il lavoratore viene aggredito nella sfera della dignità senza che tale aggressione offra sbocchi per altra qualificazione risarcitoria. Non a caso il mobbing è stato definito violenza morale e non a caso il danno esistenziale appare particolarmente congeniale a tale situazione.
In termini di ripartizione dell’onere probatorio, spetterà al datore di lavoro che voglia evitare profili di responsabilità ogni volta che il lavoratore abbia subito un danno esistenziale – e dopo che il lavoratore abbia assolto il proprio onere probatorio di dimostrazione della sussistenza del nesso causale tra l’evento lesivo ed il comportamento del datore di lavoro (nel caso accertato anche tramite CTU) –, dimostrare di aver posto in essere tutte le misure necessarie, ex art. 2087 c.c., a tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore (in fattispecie,  indimostrate dalla banca convenuta).
Quali parametri risarcitori  per una liquidazione equitativa, ex art. 1226 c.c.,  si ritiene  di utilizzare quello della “durata” della situazione di inadempienza  congiunta a quella di una “percentuale della retribuzione mensile lorda” (calcolata a seconda del danno inferto o della sofferenza subita).
Una volta emerso come dato medio mensile retributivo quello di 5 milioni (attualizzato senza necessità di rivalutazione ed interessi), il giudice ritiene che per i primi 22 mesi di “danno esistenziale”  spettino 22 milioni di risarcimento sulla base di una quota percentuale della retribuzione pari al 20% e,  per i successivi 28 mesi, la somma di 42 milioni, calcolata sulla base di una percentuale retributiva elevata al 30% (per un totale di 64 milioni più interessi e rivalutazione monetaria dalla data della sentenza a quella del saldo effettivo).(1)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso presentato alla sezione del Lavoro del Tribunale di Forlì Giuseppe Mulas dichiarava di lavorare per la Banca Nazionale dell’Agricoltura dal gennaio 1979 come impiegato di concetto, dal 12/1985 vice Capo Ufficio, dal  10/1989 Capo Ufficio e dal 7/1991 Quadro e di seguito dal 11/93 Quadro Super . Dal 1996, esponeva sempre il ricorrente, il suo rapporto con l’azienda cambiava in negativo poiché, mano a mano, gli venivano tolte tutte le attività di responsabilità che caratterizzavano la sua mansione di Quadro Super . In particolare riconduceva i suoi problemi con l’assunzione della Direzione della sede di Forlì della BNA da parte del Dottor Palumbo e la Vicedirezione da parte del Dottor Consogni, nomine avvenute nel giugno 1996. La sua attività veniva sempre più dequalificata, la sua posizione per nuovi incarichi sempre ignorata. Altri segnali modesti ma significativi erano stati  l’esclusione dal beneficio del parcheggio o il rifiuto di incontri chiarificatori e da ultimo lo spostamento presso la sede di Rimini dal novembre 1998 in assenza di qualunque esigenza organizzativa e senza alcuna mansione lavorativa specifica ed ancora più incomprensibile per il ricorrente in considerazione del fatto che nella sede di Forlì risultava carenza di personale con trasferimento in tale sede di personale da Bologna, Cesena, Ravenna e Roma. Tutti gli elementi ricordati  indicavano per il ricorrente una condotta della BNA mirata a produrre un ridimensionamento delle capacità professionali in termini di chances e di mancato apprezzamento del dipendente fino a produrre nello stesso seri problemi alla sua salute.
Infatti a causa delle difficoltà nel lavoro il Mulas veniva colpito da una sindrome ansioso-depressiva somatizzata a livello cardiocircolatorio su base conflittuale lavorativa, secondo la diagnosi del medico curante del ricorrente, che dichiarava che mai prima del 1997 il Mulas aveva manifestato quadri morbosi di particolare interesse clinico. Il ricorrente richiedeva il ripristino delle mansioni precedentemente occupate, in particolare nell’ufficio sviluppo, o mansioni operative equivalenti e la condanna della banca al pagamento dei danni conseguenti l’illegittima dequalificazione ai sensi dell’art. 1226 c.c., danno professionale, all’immagine ed alla carriera, danno alla salute e danno biologico e danno per perdita di chance. Il ricorso era presentato unitamente ad una richiesta di provvedimento di urgenza ai sensi dell’art. 700 c.p.c. per la reintegra presso la sede di Forlì ove era addetto prima  e nelle mansioni precedentemente svolte dal ricorrente.
Si costituiva in giudizio la Banca Nazionale dell’Agricoltura in persona del legale rappresentante respingendo in pieno le contestazioni formulate dal Mulas e chiedendo il rigetto del  ricorso, oltre che ovviamente la non concessione del provvedimento di urgenza. Sul provvedimenti di urgenza, in particolare,  le critiche relative al periculum in mora apparivano ben argomentate .
Per altro nella fase d’urgenza le parti, concordemente, in uno spirito di ricerca dell’armonia necessaria per il lavoro dichiaravano di rinunciare e di accettare la rinuncia rinviando al merito le questioni.
La BNA si costituiva allora per il merito. Venivano svolte una serie di precisazioni con riguardo al ricorso del Mulas. Il dipendente aveva avuto delle note di qualifica sempre meno positive ( 1995: distinto; 1996: buono; 1997: normale ). Il Mulas dopo la titolarità dell’agenzia 1 di Forlì era dovuto rientrare all’Ufficio Sviluppo dal gennaio 1996 per esigenze organizzative.  Dopo un primo utilizzo nel settore amministrativo sezione segreteria e supporto operativo comparto titoli avendo lo stesso richiesto ed ottenuto il passaggio dal tempo pieno al part-time nell’agosto 1997 era stato necessario spostare lo stesso dall’area sviluppo, che richiede una costante presenza e disponibilità per i clienti. Conseguentemente gli erano state ritirate le chiavi del garage ed il permesso di usufruire del posto macchina. Successivamente il Mulas veniva trasferito presso la succursale di Rimini ed adibito al supporto gestori della rete clientela imprese , perfettamente coerente con la qualifica di quadro che gli competeva. Venivano fornite tutta una serie di giustificazioni relative al provvedimento di trasferimento del ricorrente, tutte riconducibili ad un’azione di ristrutturazione generale dell’azienda. Si negava che l’organico di Forlì fosse deficitario e si dava spiegazione di movimenti indicati dal Mulas come trasferimenti a Forlì mentre lui era trasferito a Rimini.
Veniva contestata la genericità della domanda del ricorrente volta ad ottenere la reintegra in mansioni equivalenti a quelle precedentemente svolte ed acquisite e si evidenziava come alla luce delle declaratorie contrattuali le mansioni attribuite al ricorrente presso la filiale di Forlì e la succursale di Rimini fossero equivalenti e si sosteneva che l’operato della banca fosse in sintonia con il potere della stessa in ordine allo jus variandi contro il quale si scontrava la volontà del Mulas di vedere cristallizzata la propria posizione all’interno dell’azienda.
 Mancava, comunque, secondo l’azienda convenuta  la prova relativa all’esistenza di un eventuale danno risarcibile riconducibile alla lesione alla professionalità così come appariva priva di riscontri probatori la domanda tesa al riconoscimento del danno biologico ed assolutamente non giustificata la domanda di risarcimento danni per perdita di chance.
Nelle more della prima udienza del merito parte ricorrente proponeva nuova richiesta di provvedimento ex art. 700 c.p.c. dichiarando che dopo la rinuncia al precedente ricorso d’urgenza, realizzata  in un’ottica costruttiva di collaborazione per migliorare il rapporto, la situazione era ulteriormente peggiorata con la destinazione  del Mulas al  compimento di attività  meramente operative e con peggioramento della propria sindrome ansioso depressiva e lunghe pause dal lavoro per motivi di salute.
Nella prima fase istruttoria, nella quale andavano parallelamente il merito ed il ricorso di urgenza, si apprezzava la circostanza che la sede di Rimini aveva cambiato gestore ed era in fase di ristrutturazione. Per tali motivi si determinava la comune volontà delle parti di superare ancora una volta la fase di urgenza.
Riteneva, relativamente al merito, il giudice che fosse indispensabile procedere ad una consulenza tecnica tesa ad accertate la sussistenza delle situazioni descritte dal ricorrente sotto il profilo del danno provocato allo stesso per la situazione lavorativo, situazioni oramai conosciute e riconosciute anche dalla giurisprudenza di merito sotto il nome di mobbing e veniva conferita la consulenza al maggior esperto nazionale dell’argomento che si avvaleva di un ausiliario neuropsichiatra per meglio delineare gli aspetti più strettamente medici. Venivano, inoltre, escussi i testi richiesti dalle parti.
Alla conclusione  delle attività descritte la Banca Nazionale dell’Agricoltura veniva incorporata nella Banca Antoniana Popolare Veneta s.c.a r.l. e ne seguiva una interruzione del processo per consentire la riassunzione nei confronti del nuovo soggetto processuale. All’esito dell’attività descritta veniva riproposto, in considerazione di questo mutamento della titolarità dell’azienda, dal giudice uno sbocco conciliativo che non veniva ritenuto neppure dalla nuova proprietà dell’azienda praticabile utilmente.
All’esito di tale attività e dopo la discussione delle parti la causa appariva matura per la decisione, essendo state tutte le precedenti attività descritte svolte utilmente anche per il giudizio tra le attuali parti in causa.  
MOTIVI DELLA DECISIONE
Ritiene il giudice che il ricorso debba essere accolto relativamente sia alla richiesta della revoca del trasferimento presso la succursale di Rimini che alla richiesta di risarcimento danni.
Prima di entrare nel merito degli argomenti della decisione corre l’obbligo di precisare che la notizia del licenziamento che sarebbe stato comunicato al Mulas con raccomandata 16/1/2001, richiamato nelle note conclusive della parte ricorrente, non entrerà nella presente materia del contendere ( se non per un fugace spunto in tema di mobbing ) perché non oggetto del presente ricorso.
Sostanzialmente due sono le questioni che deve affrontare questo giudice proposte nel presente ricorso. La prima riguarda la legittimità o meno del provvedimento di trasferimento del Mulas e la seconda la qualificazione della situazione del Mulas rispetto alla banca ai  fini risarcitori chiesti dallo stesso.
Il primo punto in questione può essere affrontato agilmente anche se per la comprensione profonda dell’episodio si ritiene che non si possa non contestualizzarlo ma, per tale approfondimento, si rimanda alla successiva descrizione del problematico rapporto tra le parti. In questa prima fase verrà esaminato solo l’aspetto della legittimità del trasferimento a Rimini del Mulas.
Non ci sono elementi che giustificano oggettivamente il trasferimento del Mulas nella succursale di Rimini. È inutile dire, come sostiene la società convenuta con argomentazione suggestiva ma non condivisibile,  che si è voluto agevolare il Mulas che abita a Gambettola quando lo stesso non voleva essere trasferito, e questo è pacifico. Neppure appare argomento valido quello ulteriore sostenuto con riferimento alle condizioni familiari del Mulas che secondo l’azienda non presentava criticità al fine di ritenere il trasferimento fonte di disagi ( e, inoltre, pare a questo giudice che le due ragioni appena espresse si contraddicano logicamente ).  Le ragioni tecnico organizzative dichiarate dalla banca appaiono impalpabili, indipendentemente dalla necessità di organico della sede di Forlì. Dire che il Mulas è l’unico in grado di occupare il posto di supporto gestore alla clientela particolarmente alla luce delle scarse, dequalificanti, se non mortificanti, attività che gli vengono attribuite è veramente poco credibile. Compito essenziale del Mulas è quello di fare fotocopie e  non può essere l’unico in grado di farle e appare difficile immaginare l’utilizzo della professionalità di un Quadro Super con minore attenzione alla qualifica ed alla professionalità dello stesso. Questo a meno di non condividere l’impostazione prospettata dal teste Forasassi che testualmente dichiara:” anche per l’attività di fotocopiatura per fascicoli da inviare all’esterno occorre criterio per sapere quello che serve”, introducendo un nuovo ruolo di fotocopiatore di concetto ignoto sino ad ora.
Per superare le difficoltà di comprensione di una collocazione professionale a dir poco riduttiva si sottolinea, allora, da parte della Banca   che la determinazione  rientra nella libertà  di scelta dell’imprenditore ma anche sul punto non si concorda. Non è vero che nel nostro ordinamento viga il principio dell’intangibilità della libera iniziativa economica perché l’articolo 41 Costituzione al secondo comma afferma che la stessa non può svolgersi, tra l’altro, in modo da arrecare danno alla dignità umana e che la stessa debba essere riconosciuta anche ad un dipendente non può essere in dubbio.
Conseguentemente deve ritenersi illegittimo il provvedimento di trasferimento del Mulas presso la succursale di Rimini e deve essere disposto il suo rientro nella sede di Forlì. È evidente che le mansioni da attribuire allo stesso dovranno tener conto effettivamente della sua esperienza professionale e della sua qualifica per evitare la reiterazione di ricorsi giurisdizionali.
Si tratta di affrontare il secondo e sicuramente più problematico aspetto che è quello di verificare la sussistenza dei presupposti risarcitori nella condotta della Banca datrice di lavoro per le condotte subite dal Mulas.
Siamo di fronte ad un caso di mobbing e su questo non possono esserci dubbi, anche alla luce delle risultanze della consulenza in atti.
Per quanto non ancora definito con una normativa specifica che potrebbe sicuramente precisarne i contorni ed i profili relativi alla risarcibilità dei danni derivanti da questo, il mobbing è diventato oramai un concetto acquisito anche se non ben definito  nella conoscenza comune anche alla luce di recenti sentenze di merito ( in particolare la più famosa è quella del Tribunale di Torino 16/11/99 alla quale segue l’altra dello stesso giudice 30/12/99, entrambe edite in svariate riviste e pubblicazioni con commenti tutti sostanzialmente favorevoli ) e dell’elaborazione sociologica  e giuridica sviluppatesi negli ultimi anni in Italia dopo che nel resto dell’Europa, in particolare nella parte settentrionale, il mobbing era già conosciuto e riconosciuto come fenomeno di enorme rilevanza e problematicità nel mondo del lavoro.
Sulla definizione si rimanda alle numerose pubblicazioni relative all’argomento che hanno  dato un nome ad un fenomeno sempre presente nel lavoro e solo recentemente affrontato con la necessaria serietà e con l’approfondimento che richiede. Schematicamente si può ritenere riconducibile al fenomeno in oggetto quel comportamento, reiterato nel tempo, da parte di una o più persone, colleghi o superiori della vittima, teso a respingere dal contesto lavorativo il soggetto mobbizzato che a causa di tale comportamento in un certo arco di tempo subisce delle conseguenze negative anche di ordine fisico da tale situazione. Si richiama il concetto che in etologia è conosciuto come il rifiuto del branco nei confronti di un animale della stessa specie che ne viene scacciato.
La storia professionale del Mulas può risultare paradigmatica per ritrovare tutte le caratteristiche essenziali del mobbing: dipendente modello della banca per la quale lavora   da oltre un ventennio con riconoscimento assoluto delle proprie capacità e della propria professionalità fino al momento in cui qualcosa cambia e da dipendente modello in piena ascesa professionale diventa, nel breve volgere di pochi anni, un problema da gestire per la banca. Le qualifiche professionali si abbassano ( da distinto del 1995 a buono del 1996, epoca dell’inizio dei problemi, a normale del 1997 ) si stenta a trovare per lui un ruolo professionale effettivo, viene  trasferito da Forlì, sede di suo gradimento,  a Rimini e non viene considerato per lui più nessun avanzamento in carriera. Addirittura alcune condotte, quali la privazione delle chiavi del garage e della possibilità di usufruire del posto macchina lamentate dal Mulas nel proprio ricorso come elementi di umiliazione, costituiscono situazioni paradigmatiche e scolastiche  a livello di indizi per il mobbing.
Che il conflitto, almeno vissuto come tale dal ricorrente, abbia inizio nel giugno 1996 con l’arrivo del nuovo direttore del gruppo di Forlì dottor Palumbo risulta chiaro ed incontrovertibile.
Da notare che le caratteristiche del Mulas non sono quelle del dipendente debole ed introverso che nell’immaginario si ritiene sia la classica figura della vittima predestinata da Mobbing quanto piuttosto un dipendente con una forte personalità, almeno all’inizio del conflitto che si descrive, consapevole della propria professionalità che non esita ad esporre il proprio punto di vista. Ma, come saggiamente viene fatto notare dagli autori che si sono occupati approfonditamente dell’argomento, molto spesso a divenire vittima non sono soltanto soggetti deboli ma anche i dipendenti con troppa personalità, o troppo zelo, o con un’anzianità che è divenuta troppo onerosa. Il caso in esame, poiché astrattamente configurabile come vessazione da parte di un superiore gerarchico del lavoratore vittima, scientificamente viene definito bossing. Il bossing (o mobbing verticale perché esercitato da chi è in posizione di supremazia rispetto alla vittima ) può essere utilizzato per intraprendere operazioni su più larga scala, come la riduzione di personale, il ringiovanimento o la riorganizzazione di interi uffici In questo senso depone anche il parere espresso nei confronti del Mulas nella valutazione per l’anno 1996 dove si scrive: “ pur dotato di capacità interpersonali molto buone pecca spesso di presunzione creando situazioni insostenibili”. Poiché in precedenza tale nota non era stata verificata ( almeno non risulta agli atti ) deve concludersi che la conflittualità con la dirigenza della sede di Forlì sia all’origine di tale valutazione negativa.
La consulenza tecnica disposta da questo giudice risulta utile per la verifica della situazione di mobbing ipotizzata dal ricorrente.
 Ci si è avvalsi della professionalità di quello che senza dubbio può essere considerato il più grande esperto nazionale di mobbing da un punto di vista della psicologia del lavoro, il dottor Harald Ege,  se è vero che tutti i primi testi in Italia sul mobbing provengono dallo stesso consulente. Per approfondire ulteriormente la consulenza si è sfruttata la professionalità di una neuropsichiatra che ha fornito un contributo indispensabile di approfondimento in termini medici per la qualificazione del quadro del ricorrente.
Per altro non si deve dimenticare che ci si muove in un terreno assolutamente nuovo, si tratta della prima consulenza affidata nella materia. Infatti nei rari precedenti giurisprudenziali sul tema il giudicante ha ritenuto di non dover svolgere consulenze sia sul punto dell’individuazione delle ipotesi di mobbing ( vedremo in seguito con quali risultati ) sia sotto il profilo delle conseguenze di tali condotte come danno procurato alla sedicente vittima del mobbing.
 Il consulente per verificare la rispondenza della situazione in astratto alla sua specifica professionalità ha sottoposto in via informale e preliminarmente ad un colloquio psicologico il Mulas, dandone per altro correttamente atto nella propria consulenza. All’esito di questa preventiva valutazione ha proceduto a svolgere la consulenza secondo le regole dettate dal codice di rito.
La difesa della BNA, oggi Banca Antoniana,  si duole di questa attività preliminare e ritiene che con la condotta appena descritta il consulente abbia calpestato il principio del contraddittorio di cui all’art. 194 c.p.c.  e chiede che venga rinnovata la consulenza cambiando la figura del consulente. Come ha già spiegato questo giudice con ordinanza del 29/6/2000 l’attività preliminare del consulente relativa al colloquio psicologico con il Mulas non rientra nella attività di consulenza ( ed infatti si parla, oltre che di informale,  di preliminare perché altrimenti si parlerebbe di iniziale ). Al colloquio non ha assistito nessun consulente di parte trattandosi di attività, come detto, preliminare. La particolarità della situazione, trattandosi della prima consulenza sul mobbing svolta affrontando il profilo psicologico dell’argomento oltre che quello delle conseguenze mediche, giustifica adeguatamente l’elasticità della condotta del consulente, che voleva prima rendersi conto astrattamente se il suo lavoro poteva essere utile, senza minimamente incidere sul principio del contraddittorio  che è stato rispettato non appena si è entrati nella vera e propria attività di consulenza, cioè quando il consulente in piena coscienza ha ritenuto di potersi interessare al Mulas  dopo una valutazione generale ed astratta della problematica, che proprio la complessità  del caso rendeva utile e meritoria. Per fare un esempio calzante e collegato con i tempi se dieci anni fa fosse stato prospettato un caso di diritto di autore nel campo dell’informatica sicuramente sarebbe stato utile sfruttare un esperto della materia che avrebbe in primo luogo dovuto analizzare il campo di intervento per verificare l’utilità della propria professionalità nel settore in cui la stessa era stata richiesta.
Oggi è così per il mobbing. Tutti parlano di questo fenomeno ma sono veramente  in pochi a conoscerne l’esatto significato e sempre  meno a capirne le caratteristiche e ancora meno, almeno allo stato, a poter indicare gli elementi distintivi del fenomeno. Prima di iniziare la sua vera e propria attività di consulenza il consulente del giudice ha voluto accertarsi che la sua professionalità fosse quella richiesta per il caso in esame e questo astrattamente senza alcun giudizio di merito in quella fase ma solo per verificare che astrattamente la casistica fosse riconducibile alle sue conoscenze.
L’esame dei due precedenti casi di mobbing conosciuti dalla giurisprudenza di merito serve a confermare in termini chiari ed univoci la difficoltà che l’interprete incontra in questa primissima fase in cui il fenomeno mobbing viene spesso nominato ma difficilmente individuato nei suoi caratteri essenziali e differenzianti da situazione di attacco alla personalità di un lavoratore non riconducibili ai canoni del mobbing.
I due precedenti richiamati in tema di mobbing, infatti, lasciano non poche perplessità in ordine al criterio di identificazione del fenomeno e confermano che siamo di fronte al vero e proprio inizio dell’elaborazione e dello studio di tale complessa questione. Sia la prima sentenza ( sent. Trib. Torino 16/11/99 ) che la seconda sentenza ( Trib. Torino, 30/12/99 ) si riferiscono a situazioni che sicuramente riguardano attacchi alla personalità morale, oltre che fisica, del lavoratore ma ritiene chi scrive che sia problematico rilevare in detti provvedimenti i caratteri tipici del mobbing e si è voluto fare questo riferimento per evitare un pericolo che si avverte nel tema oggetto della presente domanda. Oggi il rischio è di una equazione del tipo: tutto è mobbing, niente è mobbing. Per essere ancora più espliciti: si rischia di definire come mobbing situazioni che solo per alcuni caratteri possono ricondursi a tale fenomeno con il risultato che, in seguito agli approfondimenti  che verranno e che non riconosceranno, a parere di chi scrive,  tale qualificazione apparirà impossibile ritenere sussistente detto mobbing.
 Deve essere sin dall’inizio dello studio e dell’elaborazione giurisprudenziale chiaro questo concetto: si avrà mobbing solo ed in quanto determinate condotte presentino i requisiti richiesti dalla psicologia del lavoro internazionale ( in particolare grazie ai lavori del professor Heinz Leyman ) e nazionale ( in particolare grazie ai lavori del professor Ege ) per poter parlare di tale fenomeno perché, in casi che presentano mera somiglianza con il mobbing, ogni episodio dovrà essere altrimenti catalogato e darà diritto a diversi profili di tutela risarcitoria a favore di chi ha subito le condotte. Si deve evitare che una moda o un atteggiamento approfondito meno del dovuto svaluti la potenzialità di un fenomeno della gravità e dell’importanza di quello in esame in questa sentenza. Questo fino a quando una legge ( ci sono diverse proposte unificate in un unico testo che la fine della legislatura non consente di licenziare ma sul tema  un impegno di tutte le forze politiche congiunte lascia ben sperare per una prospettiva a breve termine ) sicuramente auspicabile nella materia non riesca a fornire chiarimenti in merito alla definizione del mobbing ed alle sue tutele risarcitorie.
Il lavoro definitorio e di indicazione degli elementi per classificare una determinata condotta come mobbing appaiono, allo stato, sufficientemente acquisiti almeno dalla psicologia del lavoro e tale strada sarà quella seguita nella  presente decisione.
Veniamo al caso in esame ed analizziamo la storia professionale del Mulas alla luce di uno stereotipo di mobbing. Il tempo di durata di tale fenomeno appare in sintonia con il caso concreto ( si parte dal giugno 1996 anche se, per trovare i primi dati significativi sull’attività del ricorrente con riguardo al conflitto con la nuova dirigenza delle sede di Forlì, si deve attendere il gennaio 1997 per parlare di demansionamento ). La circostanza che dopo il trasferimento ( novembre 1998 ) sia proseguito il denunciato accanimento nei confronti del Mulas si spiega agevolmente se si considera come una volta instaurato un meccanismo e creata una difficoltà nel lavoratore la dirigenza, anche se non partecipe dell’iniziale condotta, verificando un calo di produttività e di presenze nel collaboratore inizierà a perdere fiducia nello stesso e, in seguito, a considerarlo un vero peso per la struttura lavorativa. Il meccanismo si perpetua: più forte è il disagio più aumenta la sfiducia, più si aggrava la malattia più si generano sospetti sulla stessa.  Il demansionamento è un atteggiamento tipico con il quale si colpisce un lavoratore, operando sui meccanismi di autostima dello stesso che vengono messi in crisi, tanto più se si considera che il Mulas è un dipendente che si è fatto dalla gavetta e che ha percorso tutta la scala per arrivare al livello alto che viene minacciato e questo sicuramente aumenta la sua sensazione di difficoltà e di panico. Dopo il trasferimento dall’atteggiamento e dall’utilizzazione del Mulas si comprende agevolmente che lo stesso oramai è considerato un peso per la banca , utilizzato per le attività più modeste. I suoi periodi di malattia si allungano sempre più incrementando la sfiducia nello stesso in quanto la sua patologia ( che pure è stata accertata da un punto di vista medico in corso di causa ) non viene ritenuta evidentemente tale da giustificare le assenze protratte nel tempo.
Leggendo la esaustiva consulenza del professor Ege si trova il riferimento preciso a tutte le caratteristiche del mobbing nella storia professionale del Mulas. Il modello di mobbing italiano ( che si differenzia da quello del professor Leymann che prevede quattro fasi ) prevede uno stadio iniziale e sei fasi successive nelle quali si evolve il mobbing. Dopo la c.d. condizione zero, di conflitto fisiologico normale ed accettato, si passa alla prima fase del conflitto mirato, in cui si individua la vittima e verso di essa si dirige la conflittualità generale. Evidentemente la personalità di Mulas non si conciliava con quella dei nuovi dirigenti della sede di Forlì e la mancanza di mediatori sociali ha determinato il sorgere del conflitto. La seconda fase è il vero e proprio inizio del mobbing, nel quale la vittima prova un senso di disagio e di fastidio. Il Mulas, dopo una continua ascesa, vede che qualche cosa non funziona, le sue note personali peggiorano e il suo ruolo viene ridimensionato e questo genera in lui insicurezza e, appunto,  disagio. Da notare che in precedenza il Mulas non soffriva di alcun disturbo collegato con la sfera in esame.  La terza fase è quella nella quale il mobbizzato comincia a manifestare i primi sintomi psico-somatici, i primi problemi per la sua salute. Il primo certificato significativo in questo senso per il Mulas è in data 18/3/1998 del dottor Romagnoli :” è affetto da disturbo depressivo ansioso reattivo ed una situazione conflittuale insorta nell’ambiente di lavoro” al quale seguono una serie di altri certificati medici tutti in sintonia con il precedente. La quarta fase del mobbing è quella caratterizzata da errori ed abusi dell’amministrazione del personale che, insospettita dalle assenze del soggetto mobbizzato, erra nella valutazione negativa del caso non riuscendo, per carenza di informazione sull’origine della situazione, a capire le ragioni del disagio del dipendente. Questa fase è stata già descritta in precedenza con riferimento al caso del Mulas. La quinta fase del mobbing è quella dell’aggravamento delle condizioni di salute psico-fisica del mobbizzato che cade in piena depressione ed entra in una situazione di vera e propria prostrazione. In questo senso la diagnosi conclusiva in atti della dottoressa Astorre, la neuropsichiatra che ha collaborato con il consulente del giudice alla definizione del caso in esame, appare in sintonia con tale sviluppo: “ il Mulas ha riportato a seguito degli stress lavorativi grossi turbamenti sul piano emotivo ed affettivo che hanno avuto un ruolo determinante sulla modifica del sul carattere. Tale specifica condizione di sofferenza si è risolta in una vera e propria lesione della sfera psichica”. Da considerare che la situazione del Mulas è resa ancora più penosa dalla presenza di quella che viene definita condizione di doppio mobbing, cioè gli effetti che il disagio sul lavoro provocano sulla famiglia ( inizialmente conforto per il lavoratore ma, nel tempo, devastata dallo stesso ) in termini di conseguenze negative sia per i rapporti complessivi che per la qualità della vita dei singoli componenti.
Le osservazioni formulate dal consulente di parte della banca, il professor Ariatti, appaiono sicuramente interessanti e profonde ma non affrontano il nodo della questione. Il consulente di parte, docente di psichiatria forense ( significativa la nomina di uno psichiatra per una causa di mobbing ), arriva alla conclusione che il Mulas abbia una personalità disturbata in senso paranoideo e sul punto il disaccordo con la dottoressa Astorri potrebbe non essere insanabile ( almeno da un punto di vista giuridico se non medico )  ma quello che non convince è l’apodittica affermazione ( ma questa non del consulente di parte ) che il disturbo rilevato sia stato la causa e non l’effetto della vicenda in esame. Se è vero che il ricorrente ha una personalità disturbata di tipo paranoideo è possibile che l’avesse avuta da sempre, o comunque risalente nel tempo, o che si sia formata a seguito di fenomeni particolari ( allora convince più la diagnosi del disturbo dell’ansia e della depressione da stress lavorativo ). Se valesse la prima ipotesi, cioè disturbo risalente nel tempo,  ci si chiede come mai la banca non abbia  notato niente di particolare nel Mulas dal 1979 fino al 1996, considerandolo sempre in termini positivi, passando per quattro promozioni ed arrivando a dargli la direzione di una agenzia della banca. Nessun sintomo quantomeno sospetto il ricorrente avrebbe mai manifestato prima del nuovo dirigente della sede di Forlì che, pure, parla di presunzione ma non di personalità disturbata di tipo paranoideo. Appare difficile immaginare un errore così consistente per così lungo tempo senza alcuna avvisaglia o campanello di allarme, assolutamente mai evidenziato. In conclusione si ritiene che il sicuro disturbo del ricorrente sia da considerare molto più verosimilmente una conseguenza di qualcosa subita piuttosto che la causa di un conflitto con la banca. Questo è il motivo per il quale questo giudice ha ritenuto di non procedere a rinnovazione della consulenza o a confronto tra consulenti.
Torniamo al mobbing ed alle fasi dello stesso. Resta la sesta fase, per altro indicata solo e fortunatamente eventuale, nella quale la storia del mobbing ha un epilogo: nei caso più gravi nel suicidio del lavoratore, negli altri nelle dimissioni, o anticipazione di pensionamenti, o in licenziamenti. Al riguardo si richiama l’informazione ricordata dell’avvenuta comunicazione del licenziamento nei confronti del Mulas per evidenziare come tale elemento appaia assolutamente inserito nel contesto in esame, quasi a voler completare tale percorso ed a rendere ancora più scolastica la casistica concreta nel confronto con la fattispecie astratta.
Il profilo sicuramente più complesso da un punto di vista giuridico è quello relativo all’individuazione della natura del danno ipoteticamente subito di una eventuale responsabilità datoriale in merito all’asserito danno subito dal Mulas derivante dal comportamento della società datrice di lavoro.
La tripartizione danno biologico- danno patrimoniale- danno morale oramai appare riduttiva per l’interprete in quanto lascia troppi spazi privi di adeguata tutela. Un danno subito da un lavoratore, ad esempio, senza conseguenze patrimoniali dirette ( pensiamo ad un demansionamento con mantenimento dello stesso trattamento retributivo ) e privo di rilevanza patrimoniale dal quale scaturisca una sofferenza non qualificabile classicamente come malattia non troverebbe, ad esempio, nessuna tutela.
Partendo dalla fondamentale sentenza della Corte Costituzionale n.184/86 fino ad arrivare alle ultime pronunce di legittimità ( vedi Corte di Cassazione, n.2569/2001 ) e di  merito ( vedi Tribunale Milano, n.9417/99 ) si arriva  a definire una nuova ripartizione della materia.
Sul punto oramai è acquisito, seppure recentemente, il concetto di danno esistenziale, o danno alla vita di relazione, che si realizza ogni qual volta il lavoratore viene aggredito nella sfera della dignità senza che tale aggressione offra sbocchi per altra qualificazione risarcitoria.
Viene introdotto il concetto di personalità morale del lavoratore ed al limite posto dall’art. 41 Costituzione all’esercizio dell’iniziativa economica privata. È stato molto efficacemente detto recentemente che  la nuova categoria del danno esistenziale può aiutare a superare le incertezze evocate dall’uso  dell’aggettivo morale collocando più propriamente la previsione in un’ottica di immediata tutela dei valori della personalità che sono direttamente coinvolti dallo svolgimento dell’attività lavorativa.
Attraverso questo percorso, impegnativo perché nuovo ma niente affatto tortuoso e illuminato nella via dalla luce dei richiami alla Costituzione ed alla più recente giurisprudenza della Cassazione e dalla migliore dottrina, torniamo al mobbing ed al caso specifico in esame. Non a caso il mobbing è stato definito violenza morale e non a caso il danno esistenziale appare particolarmente congeniale a tale situazione. È la qualità della vita del lavoratore mobbizzato a risentirne principalmente, con tutte le conseguenze anche nell’ambito familiare ( si pensi al doppio mobbing  del quale si è parlato in precedenza).
Una volta qualificato come danno esistenziale quello che può risultare da una condotta mobbizzante vediamo di precisarne i contorni negli aspetti salienti con riferimento al profilo della definizione della natura del risarcimento richiesto.
Posto che all’origine della responsabilità datoriale si può cercare la strada della responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. o quella del danno aquiliano, ex art. 2043 c.c., ci si deve chiedere astrattamente in quale delle due caselle collocare le conseguenze risarcitorie della nuova figura del danno esistenziale, ovviamente questo nel caso in cui il danneggiato sia un lavoratore. Differenza di non poco conto tenendo presente il diverso regime di onere della prova ed il diverso termine prescrizionale, solo per indicare le due differenze più eclatanti.
 Una ammirevole e recente giurisprudenza della Corte di Cassazione ( n.5491/2000 ) ha chiarito che il contenuto dell’obbligo ex art. 2087 :” non può ritenersi limitato al rispetto della legislazione tipica prevenzione, riguardando altresì il divieto , per il datore di lavoro, di porre in essere, nell’ambito aziendale, comportamenti che siano lesivi del diritto all’integrità psicofisica del lavoratore”. Si concorda appieno con tale impostazione in sintonia con una lettura complessiva di tutela del lavoratore prevista dal nostro ordinamento già nella  sua norma fondamentale. Per altro non deve dimenticarsi che sempre la Corte di Cassazione, nella già ricordata sentenza n.2569/2001, ha riconosciuto la tutela sia contrattuale che extracontrattuale in caso di diritti attinenti all’integrità psico-fisica del lavoratore e più in generale agli interessi esistenziali.
Riconosciuta, quindi, sia  la natura contrattuale che extracontrattuale del diritto al risarcimento di tale danno, derivante direttamente dall’obbligo per il datore di lavoro ex art. 2087 di tutelare non solo sotto il profilo antinfortunistico il lavoratore ma in un’ottica complessiva di tutela psicofisica  oltre che dal combinato disposto degli articoli 32 Costituzione e 2043 codice civile, ne consegue che in termini di ripartizione dell’onere probatorio potrà applicarsi il criterio più favorevole al ricorrente, che sicuramente è quello che deriva dalla responsabilità contrattuale.
Spetterà, dunque,  al datore di lavoro, se vuole evitare profili di responsabilità ogni volta che il lavoratore abbia subito un danno esistenziale, dimostrare di aver posto in essere tutte le misure necessarie per tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore mentre spetterà al lavoratore, al contrario, come proprio onere probatorio dimostrare la sussistenza del nesso causale tra l’evento lesivo e il comportamento del datore di lavoro ( così espressamente la sentenza della Corte di Cassazione richiamata n.5491/2000 che proprio per tale secondo profilo probatorio non ha accolto il ricorso nel caso esaminato ).
La Banca Nazionale dell’Agricoltura, oggi Banca Antoniana  Popolare Veneta, non ha fornito alcun elemento utile rivolto a dimostrare di aver posto in essere attività tese a tutelare il lavoratore da comportamenti discriminatori dei diretti superiori dello stesso senza ricercare le ragioni. La banca non si è posta il problema di esaminare perché un dipendente in continua ascesa ad un certo punto si blocchi, del perché le note caratteristiche sempre positive diventino mediocri, del perché non ci sia progressione in carriera, sempre avvenuta in passato, e di chi sia la responsabilità. La banca si è limitata a sostenere il proprio diritto allo jus variandi senza il dovere di giustificare tale comportamento. In questo atteggiamento riduttivo della fattispecie e del proprio profilo di responsabilità il giudice vede il mancato assolvimento del proprio onere probatorio quale datore di lavoro. Per inciso sia detto che una maggiore sensibilità datoriale a problemi del genere consentirebbe un indiscutibile vantaggio per tutti, compreso il datore di lavoro che eviterebbe cali di produttività della propria forza lavoro particolarmente sensibili per lunghi periodi determinati da situazioni di mobbing. In una relazione ad un disegno di legge sul tema del mobbing si legge sulla questione che  le forme depressive dovute al mobbing recano un danno socio-economico rilevante, quindi intervenire su questo problema non è solo necessario per ragioni etiche, di giustizia e di correttezza nei rapporti umani e per la tutela dei valori della  convivenza civile, ma anche di opportunità economica, sia per il buon funzionamento dell’azienda, sia per minimizzare i costi sociali e sanitari e si concorda pienamente con tale valutazione.
Relativamente al profilo dell’onere probatorio del lavoratore i richiami precisi e puntuali offerti nella consulenza d’ufficio, corroborati dall’attività della neuropsichiatra, hanno rilevato indiscutibilmente un collegamento tra le sofferenze patite e le conseguenze patologiche delle stesse con il contesto lavorativo del Mulas e da questo punto di vista si può dire che il nesso causale tra danno e lavoro è incontrovertibile nella sua dinamica e nelle sue conseguenze negative sul ricorrente.
In conclusione sull’aspetto dell’onere probatorio si può dire che il ricorrente ha dimostrato pienamente il nesso causale che aveva l’onere di dimostrare mentre, al contrario, la banca non ha provato in alcun modo di aver posto in essere le dovute cautele per evitare la realizzazione del processo di mobbizzazione nei confronti del Mulas. Le regole del giudizio non possono che essere conseguenziali al risultato dell’onere probatorio e, quindi, il ricorso deve essere accolto.
Si tratta,  adesso, di quantificare il danno subito per indicare il risarcimento dovuto alla parte ricorrente, aspetto troppo spesso non considerato nella sua complessità e delicatezza.
Sul punto specifico questo giudice ritiene che le valutazioni dei consulenti non siano condivisibili perché non ancorate a criteri oggettivi o, nel caso dell’asserita invalidità, perché riferiti a situazioni che possono risultare non definitive, in quanto tendenzialmente con l’eliminazione delle cause del mobbing si eliminano o si riducono sensibilmente le conseguenze negative in termini di patologie derivate.
Pure i richiami generici a perdita di chances lavorative o per demansionamento appaiono difficilmente applicabili al caso concreto proprio per la sua riconducibilità ad un altro, più complesso fenomeno, che può sostanzialmente ricomprendere tutte le voci indicate.
Occorrerà cercare altra strada per valutare l’aspetto del risarcimento dovuto per il già definito sofferto danno esistenziale.
Pacifica la circostanza che ci muoviamo nell’ambito della valutazione equitativa, come ricavato da risalente ma ancora significativa giurisprudenza specifica sul punto ( Corte di Cassazione, n.6135/84 ). Siamo nell’ambito del combinato disposto degli articoli 2056 e 1226 codice civile.
Acquisito tale dato di partenza non può però confondersi discrezionalità con arbitrio valutativo. Il giudice di merito deve, cioè, trovare dei parametri a cui ancorare la valutazione che siano rispondenti ad una logica argomentativa. In questo senso di estremo interesse risulta una recente sentenza della Pretura di Milano ( 26/6/99, edita ) che in un caso di demansionamento, rilevato un danno che colpiva la professionalità del lavoratore, oltre ai riflessi negativi nell’equilibrio psicofisico dello stesso, indicava il doppio parametro del tempo in cui tale situazione si è protratta e di una percentuale della retribuzione percepita dallo stesso come base per la determinazione del danno. In effetti appare logico ritenere che la durata della situazione di inadempienza costituisca un riferimento ma tale riferimento costituisce solo un parametro al quale deve aggiungersi un’altra grandezza, questa volta  di natura economica, per determinare il quantum. Logico e ineccepibile che utilizzando la retribuzione come base il parametro sia rappresentato da una percentuale di tale retribuzione, da calcolare a seconda del danno inferto o della sofferenza subita. Elementi di valutazione che si potranno, quindi, modulare alle varie situazioni che dovranno considerare.
Una volta individuati i parametri astratti vediamo di renderli concreti esaminando il caso del ricorso e partendo da quello temporale.
 Il ricorrente parla dell’inizio della sua vicenda negativa retrodatandola al gennaio 1996 perché in quella data, dopo aver assunto la titolarità dell’agenzia 1 di Forlì , torna alla sede centrale quale capo ufficio sviluppo asserendo di non essere più il titolare dell’ufficio, affidato ad altro coadiutore. Ma ritiene questo giudice che fino a quella data non ci siano elementi per individuare una qualsiasi condotta con intenti di demansionamento  nei suoi confronti: il capo ufficio sviluppo della sede centrale potrebbe ben aver un’attività e delle prospettive più significative di un titolare di una modesta agenzia cittadina. Le cose, al contrario, cambiano radicalmente nei rapporti con la dirigenza quando a dirigere la sede di Forlì viene chiamato il dottor Palumbo e vice direttore è il dottor Consogni. La figura di Palumbo nella ricostruzione operata dal consulente del giudice corrisponde a quella di chi inizia a sottoporre a mobbing il Mulas evidenziandone la centralità di tutto il processo successivo del quale il ricorrente è stato vittima. È dal gennaio 1997 che effettivamente si assiste ad un vero e proprio demansionamento come conseguenza della difficoltà dei rapporti del Mulas con la nuova dirigenza della sede di Forlì. Infatti da tale data il ricorrente ha affermato di essere stato adibito alle funzioni di consegna a domicilio di assegni circolari Inps alla clientela, sicuramente funzioni non paragonabili con la sua precedente attività, essendogli state sottratte le mansioni di sviluppo alle imprese, di specialista dei prodotti bancari e di acclaramento della clientela.
Queste circostanze sono state smentite genericamente dalla banca che ricollega al part-time concesso al Mulas nell’agosto 1997 l’esigenza di spostarlo dall’area sviluppo (dove serviva un maggior impegno di tempo ). Ma il ricorrente ha affermato che dal gennaio 1997 la funzione di consegna degli assegni circolari Inps ai clienti era la sua unica attività ed era stata sottratta ogni mansione di sviluppo ed altro già indicato. Questo dato non risulta contestato se non con un riferimento ad una nota del gennaio 1997 con la quale il nome del Mulas viene fatto dalla banca essendogli stata conferita la facoltà di seconda firma in caso di sostituzione dei titolari di agenzia della filiale, che niente ha a che vedere con le mansioni svolte. Ma ancora più significativo, in termini di mancata contestazione delle affermazioni del ricorrente, appare la missiva del sindacato 16/12/97 nella quale si contesta apertamente il demansionamento operato nei confronti del Mulas dal settembre con il passaggio all’ufficio titoli senza alcuna mansione specifica. L’unica risposta in atti è il trasferimento del novembre 1998 alla filiale di Rimini. Queste precisazioni servono per confutare eventuali dubbi nella ricostruzione dei fatti operata sia dal consulente di ufficio che nella sentenza. Quindi il dato temporale deve partire dal gennaio 1997. Ma una significativa cesura in questo senso sarà quella del novembre 1998, data nella quale al Mulas viene imposto il trasferimento a Rimini, determinando una ulteriore appesantimento della sua situazione perché detto trasferimento viene vissuto come momento aggiuntivo di diffidenza nei suoi confronti. Il termine finale sarà quello della presente sentenza, febbraio 2001. Due periodi, quindi, il primo dal gennaio 1997 all’ottobre 1998 per 22 mesi ed il secondo dal novembre 1998 al febbraio 2001 per 28 mesi.
Ritiene questo giudice di poter valutare come dato medio mensile di reddito derivante dal proprio lavoro per il Mulas quello di cinque milioni, rendendo per altro attuali i risultati  che non necessiteranno di ulteriori calcoli di rivalutazione o interessi. La valutazione è confermata dai dati relativi al reddito dichiarato in atti che, calcolato in dodici mesi, porta ad un risultato non distante da quello utilizzato.
Per il primo periodo il giudice stima equa una valutazione di danno rapportata al 20% della retribuzione mensile, cioè un milione , che moltiplicato per i mesi di tale prima fase portano ad una somma di ventidue milioni.
Per la seconda fase la percentuale deve aumentare per l’ulteriore elemento ingiustificato del trasferimento e sale al 30%, arrivando cosi ad un milione e mezzo che moltiplicato per i mesi porta ad una somma di quarantadue milioni.
Complessivamente si arriva ad una somma di sessantaquattro milioni che questo giudice ritiene una cifra equa per risarcire il ricorrente per il danno esistenziale subito nell’ultima parte del suo rapporto di lavoro con la banca convenuta.
Sulla somma così complessivamente determinata andranno aggiunti gli interessi legali dalla data della sentenza a quella del saldo effettivo.
La soccombenza nel giudizio comporta la condanna della Banca Antoniana Popolare Veneta, già Banca Nazionale dell’Agricoltura, al pagamento delle spese di consulenza tecnica ed alle spese di giudizio a favore della parte ricorrente, liquidate come da dispositivo.  
 
(pubblicata anche in D&L,Riv. crit. dir. lav. 2001,2, p. 411, con nota di Greco)

(1) Nota di Mario Meucci

La decisione è in palese contraddizione con le affermazioni operate dal giudice al suo interno. Infatti egli sostiene che alla nuova figura dottrinale del "danno esistenziale"è riconducibile - residualmente, a nostro avviso - ogni forma di danno o lesione alla dignità e personalità del lavoratore non altrimenti tutelabile con la riconduzione in altre fattispecie di danno risarcibile. Se così è - e così deve essere anche a nostro avviso - non si comprende come nella fattispecie (caratterizzata da comprovato danno biologico, cioè lesione dell'integrità dello stato di salute, da danno per perdita di chance o opportunità di carriera, da danno per dequalificazione professionale per violazione dell'art.2103 c.c., e simili) il magistrato abbia evitato di procedere al risarcimento distinto (con ben più sostanziosi effetti di indennizzo per sommatoria  nei confronti del vessato) di tali tipologie consolidate di pregiudizio e privilegiato la soluzione "onnicomprensiva" e "riduttiva" (anche dal lato economico per il lavoratore) del c.d. "danno esistenziale". La motivazione della sentenza denuncia pertanto un errore "interno" alle argomentazioni di cui si sostanzia,  errore, secondo noi, favorito dalla propensione - tutta dottrinale ed intellettualistica - del magistrato di effettuare una "operazione innovativa", non legittimata in presenza certa di tipologie di danno tradizionali e consolidate, peraltro debitamente acclarate  in fattispecie (quali il danno biologico, il danno da perdita di chance, il danno alla professionalità per dequalificazione e simili), quando invece il "danno esistenziale"- per ristoro di danno alla vita di relazione, alla serenità familiare, alla normalità pregiudicata del vivere quotidiano in ragione di un indebito trasferimento - avrebbe semmai dovuto addizionarsi alle precedenti voci risarcitorie, debitamente ed equitativamente quantificate.  

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