PROBLEMATICHE NEL RISCONTRO DEGLI INDICI DEL MOBBING NELLA P.A.
 
Tribunale Marsala (sezione lavoro, 1° grado ) 5 novembre 2004 (n. 1006) – Giud. Russo - An. Cu. (Avv. Gi. Le.) c. Comune di Sa. (Avv. An. Fe.)
 
Rapporto di lavoro - Mobbing - Nozione – Trasferimento e successivo licenziamento, dichiarato giudizialmente ingiustificato per sproporzionalità della sanzione rispetto alla trasgressione – Non costituiscono di per se stessi indici idonei a provare il mobbing - Responsabilità dell’Amministrazione pubblica per danni non patrimoniali cagionati al lavoratore – Sussistenza solo quando venga provata una strategia persecutoria datoriale, non risultante in fattispecie.
 
E’ stato correttamente osservato che una condotta illecita "mobizzante" possa consistere anche in un solo comportamento - si pensi al caso del demansionamento realizzato di guisa da svuotare il contenuto delle mansioni del dipendente, al fine di costringerlo a rassegnare le dimissioni - o anche con atti posti in essere nel rispetto formale della legalità, quando questa si traduca in un'assillante ingerenza della parte datoriale nella sfera lavorativa del dipendente, contestandogli capillarmente ogni venale profilo di natura disciplinare al fine di rendergli di fatto impossibile rendere la prestazione, senza che lo stesso criterio formalistico sia adottato nei confronti degli altri lavoratori.
Tuttavia, ciò che preme puntualizzare, e che è stato giustamente evidenziato dalla dottrina e dalla giurisprudenza che si sono confrontate con il fenomeno, è il fatto che nella responsabilità contrattuale, se è vero che il datore di lavoro deve provare di essere esente da colpa nell'inadempimento, è altrettanto vero che il fatto illecito debba essere rigorosamente provato dall'attore.
Di conseguenza, grava sul lavoratore l'onere di dimostrare che sussista una strategia persecutoria o vessatoria della parte datoriale, fornendo gli elementi da cui desumere che episodi in cui si è stigmatizzata l'esecuzione del rapporto siano indici di un disegno orchestrato dal datore per allontanarlo dal mondo del lavoro.
In una siffatta prospettiva, giova rilevare come i contorni del mobbing sembrano di più difficile configurabilità nell'impiego pubblico, considerato che il perseguimento dell'interesse pubblico ed il raggiungimento degli obiettivi generali dell'amministrazione assumono un ruolo primario. Ciò può comportare, pertanto, il trasferimento di dipendenti in un'ottica complessiva di allocazione delle risorse, che può essere qualificata come vessatoria solo muovendo dal presupposto della inamovibilità del dipendente, non solo inesistente, ma anzi direttamente esclusa in molti settori del pubblico impiego, nei quali è invece previsto il ciclico spostamento da un Ufficio ad un altro degli impiegati.
Dalla disamina complessiva dei fatti dedotti dal ricorrente, si ricava che, lungi dall'essere dimostrata la strategia persecutoria e demolitoria dell'ente comunale nei suoi confronti, al fine di emarginarlo e di escluderlo dal mondo del lavoro, i contrasti e le tensioni nell'esecuzione del rapporto, anche per la sostanziale sporadicità degli episodi denunciati, sono restati pienamente nell'area della normalità e della continenza, e possono essere qualificati come vessatori soltanto movendo dall'ottica preconcetta dell'essere vittima di abusi, per la quale si finisce per inquadrare in questa chiave di lettura ogni comportamento altrui reputato pervasivo, invadente o prevaricatorio.
L'insussistenza dell'illecito sotto il profilo oggettivo, infine, rende superflua la necessità di accertare la sussistenza effettiva dei danni lamentati dal ricorrente, nonché il nesso causale rispetto all'illecito medesimo.
 
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato il 28 novembre 2003 il ricorrente in epigrafe ha convenuto in giudizio il Comune di Sa., in persona del sindaco pro-tempore, per domandare il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti dal mobbing posto in essere nei suoi confronti dal datore di lavoro a partire dal 1998.
A sostegno della domanda, il ricorrente ha specificato che la condotta vessatoria dell'amministrazione comunale si sarebbe concretizzata in una serie di episodi lesivi, iniziati con il suo trasferimento dall'ufficio turistico all'ufficio scolastico - avvenuto il 31 dicembre 1998, a seguito del cambiamento della Giunta e dell'elezione del nuovo Sindaco - e, successivamente, costituiti dall'ingerenza prevaricatrice della parte datoriale nell'attività di lavoro esercitata e nella contestazione pretestuosa di addebiti sfociati in un duplice illegittimo licenziamento disciplinare, irrogatogli dal datore di lavoro una prima volta il 15 novembre 2000 ed una seconda volta il 15 gennaio 2001; in occasione del primo licenziamento, il ricorrente ha, altresì, dedotto che la condotta volutamente vessatoria del Comune di Sa. era arrivata al punto di non aderire alla procedura arbitrale ed a precludergli l'accesso agli atti del procedimento disciplinare.
Sulla scorta di quest'esposizione di fatto, il ricorrente ha domandato il risarcimento del danno biologico di natura psichica, di quello esistenziale e di quello professionale, nonché di quello morale, patiti per effetto del mobbing realizzato dalla parte datoriale, quantificato nella somma complessiva di € 200.000,00, nonché, dei danni patrimoniali conseguenti al licenziamento consistenti, specificamente, nel danno da indebitamento, relativo agli interessi passivi corrisposti al sistema bancario a seguito della perdita dello stipendio per effetto del licenziamento, nonché nella mancata attribuzione delle seguenti indennità:
- posizione economica orizzontale per gli anni 1999/2003;
- indennità riconosciuta agli altri dipendenti per l'orario articolato;
- indennità stabilita dall'art. 17, comma 2, lett. f) del CCNL 31 marzo 1999;
- indennità prevista dall'art. 16 della L.R. 41/96.
Su ognuno di tali importi, inoltre, il ricorrente ha chiesto la corresponsione degli accessori di legge.
Ritualmente instaurato il contraddittorio, si è costituito il Comune di Sa. convenuto, contestando il contenuto del ricorso e chiedendone in rigetto.
La causa è stata istruita con l'acquisizione dei documenti ritualmente prodotti dalle parti; indi, assegnato termine per depositare note scritte, all'udienza del 20 ottobre 2004, sulle conclusioni formulate dalle parti nei rispettivi atti difensivi, la controversia è stata decisa come da separato dispositivo.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso è fondato soltanto nei termini di cui appresso.
Occorre preliminarmente affrontare il profilo relativo alla domanda di risarcimento del danno biologico, esistenziale e morale asseritamente subito dal ricorrente per effetto del licenziamento ingiurioso subito.
La suddetta domanda, invero, deve essere reputata inammissibile, in quanto tardivamente proposta.
Il rito del lavoro, infatti, è disciplinato dal legislatore di modo da contemplare una rigida griglia di decadenze, in forza delle quali l'intero thema decidendum deve essere portato a conoscenza del giudice entro la prima udienza.
In ricorso, invero, non è stato sollevato un profilo risarcitorio di natura non patrimoniale correlato al licenziamento illegittimo, la cui natura ingiuriosa non è stata minimamente prospettata ed è stata, viceversa, dedotta per la prima volta soltanto nelle note autorizzate.
Nel contesto del ricorso, infatti, il licenziamento è stato profilato dal dipendente come l'episodio finale e culminante dell'asserita condotta persecutoria posta in essere nei suoi confronti dalla parte datoriale, la cui allegazione è stata funzionale alla dimostrazione della tesi d secondo cui egli sarebbe stato vittima di mobbing.
Ed infatti, nella descrizione dei vari profili di danno lamentati, questi vengono ascritti alla condotta complessivamente vessatoria imputata all'Ente comunale, sia sotto il profilo del danno biologico ed esistenziale, che del danno morale.
Nella disamina specifica delle varie poste di danno asseritamente patite, invero, il ricorrente ha fatto esplicitamente riferimento solo al fenomeno del mobbing riguardo al danno biologico psichico, nonché solo alla condotta del mobber, di natura plurioffensiva, per giustificare il danno esistenziale.
La proposizione di un'azione risarcitoria come conseguenza immediata e diretta del licenziamento, invero, in ricorso è stata circoscritta dal lavoratore esclusivamente ai profili patrimoniali relativi alla mancata corresponsione di specifiche indennità e non può, tardivamente, essere estesa anche a poste di danno imputate ad una differente causa petendi.
A conferma di ciò, inoltre, i riferimenti normativi indicati in ricorso, a pagina 14 e 15, posti a fondamento della tutela risarcitoria invocata, sono espressamente correlati alla qualificazione giuridica del mobbing, denotando chiaramente che il risarcimento ivi postulato aveva ad oggetto soltanto questa fattispecie di illecito.
Soltanto nelle note conclusive, invece, il ricorrente ha profilato anche una domanda risarcitoria per l'illegittimo licenziamento subito, qualificandolo, per la prima volta, come ingiurioso ed ha chiesto, in via subordinata, che la responsabilità risarcitoria della parte datoriale, qualora non ritenuta sussistente la condotta di mobbing, fosse affermata negli stessi termini come conseguenza del licenziamento, soffermandosi per la prima volta sulla nozione di tale modalità di risoluzione del rapporto e sulle possibili conseguenze in capo al datore di lavoro per i danni cagionati al lavoratore.
Questa nuova domanda rappresenta, pertanto, non una mera emendatio libelli, ma una inammissibile mutatio libelli, stante il regime rigido delle preclusioni che informa il rito del lavoro.
Ad ulteriore conferma di ciò, malgrado l'onere probatorio di provare la supposta natura ingiuriosa del licenziamento gravi certamente sul lavoratore, non sono stati articolati al riguardo specifici capitoli di prova.
Ciò dimostra, conclusivamente, che il licenziamento era stato considerato in ricorso non come un fatto lesivo in sé e titolo di responsabilità autonoma, ma come culmine di una più complessiva condotta illecita, qualificata come mobbing, imputata alla parte datoriale.
La declaratoria di inammissibilità, ovviamente, non preclude che la domanda risarcitoria da licenziamento ingiurioso possa, se del caso, essere riproposta nuovamente in via ordinaria, attesa la natura squisitamente processuale di questo capo della pronuncia.
Ciò posto, è opportuno affrontare preliminarmente le pretese risarcitorie patrimoniali tempestivamente introdotte in giudizio come conseguenze immediate e dirette del licenziamento.
Quanto alla corresponsione della progressione economica orizzontale, la documentazione prodotta dal Comune di Sa. convenuto (cfr. all. 13 della produzione di parte) dimostra che nel 1997 il ricorrente era stato sottoposto a sanzione disciplinare con nota protocollare n. (...) del 18 settembre 1997, non impugnata dal medesimo.
Orbene, l'art. 15 del CCDI stabilisce l'esclusione dalla corresponsione della progressione economica per il biennio 1999/2000 per i dipendenti sottoposti a sanzione disciplinare nel biennio precedente all'attribuzione.
Legittimamente, pertanto, la suddetta PEO non è stata corrisposta al ricorrente.
Nessuna rilevanza, al riguardo, assume la circostanza che, secondo quanto sostenuto dal ricorrente, essa sarebbe invece stata assegnata ad altro dipendente che si trovava nella sua medesima situazione, dal momento che l'eventuale illegittima corresponsione, ad un altro pubblico dipendente di un'indennità non legittima, per ciò solo, chi versi nella medesima situazione di illegittimità a conseguire la provvidenza economica, non dovuta per legge o per contratto, pur in mancanza delle condizioni di ammissibilità.
Invero, l'eventuale illegittima attribuzione di un'indennità economica potrebbe determinare un profilo di responsabilità in capo al dirigente autore del provvedimento illegittimo, ma non potrebbe giustificare il correlativo diritto del ricorrente a godere di un trattamento economico non dovuto.
Peraltro, giova rilevare che nella nota protocollare n. (...) del 10 ottobre 2002 l 'amministrazione ha spiegato che la disparità di trattamento tra i due dipendenti era motivata dal fatto che, mentre la sanzione irrogata al ricorrente, non impugnata, era divenuta definitiva, quella irrogata al collega di lavoro era stata impugnata e, quindi, decaduta per decorrenza dei termini (cfr. all. 26 della produzione di parte convenuta).
Per quanto riguarda, poi, la corresponsione dell'indennità in questione per i successivi anni, nessuna prova è stata fornita dal ricorrente di averne diritto, non essendo questa una conseguenza automatica dell'attività di lavoro prestata.
Per quanto riguarda le altre indennità postulate, da un lato non può convenirsi con la convenuta che i suddetti crediti sarebbero stati oggetto di transazione con il ricorrente, il quale, in base alla documentazione in atti, ha rinunciato esclusivamente alla corresponsione degli interessi legali sulle somme erogate a titolo di risarcimento per l'illegittimo licenziamento.
Tale rinuncia, infatti, nei termini in cui e stata formulata, di per sé non è idonea a coprire anche ulteriori poste di credito oltre a quelle cui espressamente si è riferita.
Tuttavia, nessuna prova è stata fornita in ordine alla maturazione del diritto da parte del ricorrente alla corresponsione delle suddette indennità, ad eccezione di quella prevista dall'art. 16 della L.R. 41/1996 e con riferimento al solo anno 2000.
Per quanto riguarda questa specifica indennità, invero, posto che la norma fa riferimento ad un incentivo corrisposto in ragione dei risultati conseguiti e che, pertanto, in difetto dell'effettivo espletamento dell'attività essa non può essere riconosciuta, per quanto riguarda l'anno 2000, nel quale il An. Cu. era stato effettivamente in servizio, l'amministrazione comunale, con delibera n. 38 del 3 marzo 2001 (cfr. all. 63 della produzione di parte attrice), aveva incluso il ricorrente nel novero dei dipendenti a cui attribuire l'incentivo economico, stabilendo però di sospendere l'attribuzione dell'indennità in ragione dei procedimenti disciplinari in corso a suo carico.
Posto che gli addebiti disciplinari a carico del ricorrente in quel momento pendenti, e poi sfociati nel licenziamento, sono stati posti nel nulla dalla declaratoria di illegittimità del licenziamento medesimo e che, successivamente, l'amministrazione non ha disposto altre sanzioni di tipo conservativo, ne consegue che siano venute meno le ragioni addotte dal Comune di Sa. per sospendere per l'anno 2000 l 'attribuzione dell'incentivo economico per il risultato raggiunto dal lavoratore, nella misura di £ 874.848 (pari ad € 451,82), secondo la quantificazione effettuata dall'amministrazione comunale nell'allegato A della delibera n. 38/2001.
L'Ente comunale, pertanto, è tenuto a corrispondere al ricorrente, a titolo di indennità ex art. 16 L .R. 41/1996, in relazione all'anno 2000, la somma complessiva di € 451,82, oltre interessi legali, come per legge.
Sotto questo profilo, è indubbio che i crediti di lavoro dei pubblici dipendenti siano assistiti, soltanto dagli interessi legali e non anche dalla rivalutazione monetaria, dal momento che l'art. 22, comma 36, della L. 724/1994, che stabiliva il divieto di cumulo tra rivalutazione ed interessi, è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Cost., con sentenza n. 459/2000, con esclusivo riferimento ai dipendenti privati, con la conseguenza che il divieto permane tuttora nel settore dell'impiego pubblico.
Parimenti da rigettare, infine, è la domanda di risarcimento del danno da indebitamento nei confronti del Banco di Si., per la maturazione di interessi passivi sul proprio conto.
Ed infatti, nessuna prova è stata fornita dal ricorrente che tale esposizione debitoria sia direttamente collegabile alla mancata percezione dello stipendio da parte del ricorrente, tanto più che la cessazione del rapporto è avvenuta, di fatto, parecchi mesi dopo l'intimazione del licenziamento.
Con la conseguenza che, anche qualora fosse provato il nesso causale del danno lamentato con il licenziamento, esso non sarebbe comunque ristorabile in ragione della previsione generale di cui all'art. 1227, comma 2, c. c.; in effetti, il suddetto danno si sarebbe eventualmente realizzato a causa del comportamento colpevole del danneggiato, che avrebbe potuto evitarlo usando l'ordinaria diligenza.
Passando, ora, alla domanda principale azionata in ricorso, la pretesa risarcitoria del danno subito per effetto del mobbing asseritamente subito dal lavoratore non è fondata e va rigettata.
Giova premettere qualche considerazione generale sul fenomeno del mobbing, nei suoi contorni giuridicamente rilevanti, per come viene comunemente ricostruito in dottrina ed in giurisprudenza, avvalendosi dell'apporto fornito dalle scienze sociali.
Anzitutto, nella dinamica dei rapporti di lavoro per mobbing si intende quella serie reiterata di comportamenti vessatori e prevaricatori posti in essere (mobbing verticale) o, comunque, tollerati (mobbing orizzontale), dal datore di lavoro, aventi come fine l'emarginazione del lavoratore, pubblico o privato, e, in ultima analisi, la sua estromissione dalla struttura organizzativa dell'impresa.
Una tale accezione della fattispecie, tiene conto del fatto che i comportamenti vessatori attribuiti alla parte datoriale sono comunque inerenti ad una dinamica di rapporto caratterizzato da un'intrinseca tensione, determinata dagli interessi contrapposti delle parti.
Da un lato, infatti, il datore di lavoro, che assume su di sé il rischio imprenditoriale, ha interesse a ricevere la prestazione contrattualmente pattuita secondo modalità tali da consentire il raggiungimento dei fini, economici dell'impresa; dall'altro il lavoratore ha diritto di prestare la propria attività non soltanto con modalità tali che sia rispettata la propria dignità, ma anche da consentirgli di estrinsecare, mediante lo svolgimento di essa, il diritto al lavoro, costituzionalmente garantito quale espressione della personalità dell'individuo.
Se, dunque, il mondo del lavoro è contrassegnato da un'intrinseca conflittualità, è evidente che un comportamento illecito ascrivibile all'area del mobbing debba necessariamente tradursi in un indebito travalicamento del fisiologico punto di equilibrio che, nel rispetto dei principi generali di correttezza e buona fede, informa l'esecuzione dei contratti e, quindi, lo svolgimento del rapporto.
In assenza di una tipizzazione legislativa dell'istituto, l'illecito del mobbing non può che essere affrontato alla stregua delle categorie dommatiche generali.
Così, la responsabilità - contrattuale - che grava sul datore di lavoro per i danni, di natura non patrimoniale, cagionati al dipendente per affetto dei comportamenti vessatori praticati, è generalmente ricondotta al paradigma normativo dell'art. 2087 c. c., che impone al datore di lavoro - rectius, all'imprenditore - l'adozione di tutte le cautele idonee a prevenire un pregiudizio per l'integrità psico-fisica del lavoratore.
Ma, accanto a ciò, la responsabilità del datore di lavoro nel mobbing cosiddetto verticale o discendente - quello, cioè, direttamente praticato dall'imprenditore - deriva, più in generale, dall'obbligo di eseguire il contratto secondo buona fede, comportando l'inadempimento di tale obbligazione primaria l'insorgenza di quella di risarcire il danno cagionato al lavoratore.
Danno, che, all'esito di un lungo travaglio interpretativo, la giurisprudenza della Suprema Corte ha ricondotto nell'alveo della non patrimonialità, valorizzando un'interpretazione costituzionalmente orientata del sistema della responsabilità civile e concludendo che la categoria del danno non patrimoniale comprenda non soltanto il danno morale in senso stretto, ma anche tutta una serie di lesioni arrecate alla sfera dei diritti fondamentali dell'individuo tutelati dalla Costituzione medesima, in primo luogo il danno biologico - che tradizionalmente veniva inquadrato nell'area della patrimonialità - ed il danno esistenziale.
Venendo alla struttura concreta della fattispecie illecita, da un lato, è stato correttamente osservato che una condotta illecita "mobizzante" possa consistere anche in un solo comportamento - si pensi al caso del demansionamento realizzato di guisa da svuotare il contenuto delle mansioni del dipendente, al fine di costringerlo a rassegnare le dimissioni - o anche con atti posti in essere nel rispetto formale della legalità, quando questa si traduca in un'assillante ingerenza della parte datoriale nella sfera lavorativa del dipendente, contestandogli capillarmente ogni venale profilo di natura disciplinare al fine di rendergli di fatto impossibile rendere la prestazione, senza che lo stesso criterio formalistico sia adottato nei confronti degli altri lavoratori.
Tuttavia, ciò che preme puntualizzare, e che è stato giustamente evidenziato dalla dottrina e dalla giurisprudenza che si sono confrontate con il fenomeno, è il fatto che nella responsabilità contrattuale, se è vero che il datore di lavoro deve provare di essere esente da colpa nell'inadempimento, è altrettanto vero che il fatto illecito debba essere rigorosamente provato dall'attore.
Di conseguenza, grava sul lavoratore l'onere di dimostrare che sussista una strategia persecutoria o vessatoria della parte datoriale, fornendo gli elementi da cui desumere che episodi in qui si è stigmatizzata l'esecuzione del rapporto siano indici di un disegno orchestrato dal datore per allontanarlo dal mondo del lavoro.
In una siffatta prospettiva, giova rilevare come i contorni del mobbing sembrano di più difficile configurabilità nell'impiego pubblico, considerato che il perseguimento dell'interesse pubblico ed il raggiungimento degli obiettivi generali dell'amministrazione assumono un ruolo primario.
Ciò può comportare, pertanto, il trasferimento di dipendenti in un'ottica complessiva, di allocazione delle risorse, che può essere qualificata come vessatoria solo muovendo dal presupposto della inamovibilità del dipendente, non solo inesistente, ma anzi direttamente esclusa in molti settori del pubblico impiego, nei, quali è invece previsto il ciclico spostamento da un Ufficio ad un altro degli impiegati.
Inoltre, posto che il rispetto della legalità informa la pubblica amministrazione e la violazione di essa determina l'insorgenza di una specifica responsabilità del dirigente, se del caso anche di natura contabile, è del tutto naturale che sussista un controllo ed un coordinamento da parte del dirigente responsabile in ordine all'attività dei dipendenti gerarchicamente subordinati, che rimane legittima finché contenuta nei limiti della normalità in ragione dello specifico contesto lavorativo.
Infine, a prescindere dalla legittimità o meno dei comportamenti tenuti dal datore di lavoro, ciò che rileva in maniera decisiva sulla configurabilità in concreto del mobbing è la sussistenza di una condotta volutamente prevaricatoria da parte del datore di lavoro volta ad esautorare il dipendente.
Tale condotta non sussiste, a parere di questo Giudice, nel caso di specie, non potendosi ravvisare, nei fatti dedotti ed allegati dal ricorrente, né una serie reiterata di comportamenti illeciti, né una minuziosa e capillare ingerenza del datore di lavoro nell'attività lavorativa, tali da potere ragionevolmente desumere un effettivo atteggiamento vessatorio nei suoi confronti.
Occorre prendere, al riguardo, le mosse dal trasferimento del ricorrente, disposto il 31 dicembre 1998, dall'Ufficio turistico a quello scolastico.
Posto che il trasferimento non è stato impugnato dal ricorrente, il quale ha prestato sostanziale acquiescenza all'esercizio del potere di ius variandi dell'Amministrazione datrice di lavoro, non pare potersi ravvisare nell'episodio alcun indizio di una pretesa volontà prevaricatoria, che a dire di parte attrice avrebbe avuto inizio con l'insediamento della nuova Giunta comunale e del nuovo Sindaco.
Anzitutto, appare del tutto ragionevole che la nuova amministrazione, una volta insediatasi in carica, abbia effettuato degli spostamenti di personale da un Ufficio ad un altro al fine di potenziare alcuni settori dell'apparato pubblico, in precedenza sacrificati, e perseguire così l'interesse generale al buon andamento della P.A..
Poi, il trasferimento del ricorrente non è stato disposto con modalità tali da dimostrare un intento persecutorio o discriminatorio nei suoi confronti, dal momento che ha riguardato ben tre dei quattro componenti dell'Ufficio turistico e risulta, di conseguenza, giustificato da ragioni organizzative di carattere generale.
Esso va letto, pertanto, in una prospettiva di differente valutazione, rispetto alle precedenti amministrazioni comunali, delle priorità nella cura dell'interesse pubblico e nelle modalità - discrezionali - con cui realizzarlo, e può assumere una qualificazione in termini di vessatorietà soltanto partendo da un inammissibile presupposto di inamovibilità del dipendente pubblico.
A ciò si aggiunga che non risulta affatto che il trasferimento all'Ufficio scolastico abbia comportato un demansionamento del ricorrente; in effetti, la circostanza che questi fosse inquadrato al VII° livello ed abbia preso il posto di un dipendente inquadrato al VI° livello è del tutto asettica, in assenza di prova che le mansioni richieste al prestatore di lavoro fossero inferiori a quelle pattuite in conformità del livello di inquadramento raggiunto.
A parte che tale profilo non è stato minimamente dedotto, né il ricorrente ha impugnato il trasferimento lamentando l'assegnazione di mansioni inferiori, giova osservare che la circostanza che un Ufficio di significativo spessore quale quello scolastico fosse stato affidato in passato ad un dipendente inquadrato nel VI° livello dimostra come sussistessero oggettive esigenze di provvedere ad una riassegnazione dei dipendenti nei vari Uffici, affidando quello scolastico ad un impiegato di comprovata esperienza, che aveva svolto, per espressa ammissione della parte datoriale, con estrema competenza i suoi compiti nel settore turistico.
Di nessun rilievo, pertanto, è l'osservazione che l'amministrazione avrebbe con il suo comportamento sguarnito l'Ufficio turistico, posto che il suddetto profilo è del tutto estraneo alla sfera giuridica del ricorrente, il quale ha esclusivamente diritto a svolgere mansioni corrispondenti a quelle per le quali è stato assunto e non ha la potestà di indirizzare l'attività amministrativa verso un settore piuttosto che verso un altro, ovvero indicare al datore di lavoro le modalità di organizzazione del suo apparato.
Ed infatti, l'entusiasmo che il dipendente An Cu. poteva avere in precedenza manifestato nello svolgimento di mansioni relative ad un settore dell'amministrazione non comporta che questi abbia diritto a non essere in seguito spostato in altro settore nel quale ci sia necessità di apporto di nuovo personale, dovendosi in definitiva considerare il disagio in cui questi sia potuto eventualmente incorrere come fisiologicamente insito nella dinamica del rapporto.
Sempre che, come sopra spiegato, ciò non nasconda una specifico fine persecutorio, la cui prova non è stata minimamente fornita nel caso di specie.
Tanto più che il trasferimento all'Ufficio scolastico non ha costituito un mascherato svuotamento della professionalità del dipendente, ma l'assegnazione ad un settore carico di incombenze e responsabilità.
Non sono emerse, infine, né peraltro dedotte, ragioni per le quali l'amministrazione neo entrata in carica, e specificamente il Sindaco, avrebbe dovuto operare un trasferimento di personale al mero fine di vessare il ricorrente.
Procedendo, poi, nell'analisi delle condotte denunciate quali espressione di un disegno complessivo etichettato come "demolitorio", secondo la prospettazione del ricorrente gli sarebbe stato sottratto progressivamente il lavoro, sarebbe stato oggetto di continue pressioni, tali da richiedergli "di porre in essere un comportamento assolutamente impeccabile, rispettoso della legge e delle mansioni affidategli", e sarebbe, infine, stato oggetto di due successivi illegittimi licenziamenti di natura disciplinare.
Ora, premesso che, com'è ovvio, il rispetto della legalità non soltanto è auspicabile da parte del lavoratore, pubblico o privato che sia, ma è addirittura doveroso, nella misura in cui si traduce nell'osservanza delle norme, di legge e contrattuali, che disciplinano l'esecuzione della prestazione, il parametro del rispetto della legge assume un significato maggiormente pregnante nel pubblico impiego, nel quale a carico del dirigente si affianca all'ordinaria responsabilità per i danni eventualmente cagionati al lavoratori - analoga a quella dell'imprenditore privato - anche quella nei confronti, dell'amministrazione, soprattutto di tipo disciplinare e contabile, che può comportare la mancata riconferma dell'incarico, senza considerare la responsabilità politica dei vertici elettivi.
In sostanza, l'intromissione del datore di lavoro nello svolgimento della prestazione lavorativa, al fine di organizzare, dirigere e coordinare l'attività dei prestatori di lavoro, è, di per sé, un atto del tutto legittimo e, anzi, congenito nell'esecuzione del rapporto, contrassegnandosi di illegittimità, nel senso di espressione della volontà di vessare il lavoratore e rendergli di fatto impossibile un sereno svolgimento della prestazione, soltanto nella misura in cui si traduca in un controllo eccessivo e ingiustificato, che superi il limite della ragionevolezza in considerazione della tipologia di prestazione richiesta e delle altre situazioni contingenti che, caso per caso, possono assumere specifica rilevanza.
Non sembra tuttavia che tale ingerenza, per come dedotta dal ricorrente, sia ingiustificata, irragionevole e motivata da un intento vessatorio.
Invero, le circostanze di fatto in cui si sarebbe stigmatizzato il comportamento asseritamente illegittimo sarebbero consistite in episodi del tutto ordinari, nei quali è dato ravvisare, al più, una tensione tra lavoratore e datore di lavoro, o magari dei toni polemici o accesi, ma sicuramente non la finalità persecutoria indicata in ricorso.
Prima di passare all'esame specifico delle singole condotte incriminate quale indici di mobbing, va precisato che questi episodi si sono articolati in un arco temporale di circa due anni, cioè dall'insediamento del sindaco Cr., avvenuto verso la fine del 1998 alla seconda contestazione disciplinare del 21 novembre 2000.
Così delimitato il periodo di riferimento, ciò che emerge è che successivamente al trasferimento del 31 dicembre 1998 - sul quale v. supra - non è stato dedotto alcun episodio di presunta prevaricazione da parte del datore di lavoro fino al 6 novembre 1999, quando è stata contestata un'assenza dal lavoro al ricorrente, accertata in data 3 novembre 1999 in base al riscontro di una divergenza tra l'orario di uscita pomeridiano risultante dal cartellino timbrato dal ricorrente e la chiusura in quel pomeriggio dei locali dell'Ufficio scolastico cui questi era adibito.
Ora, è del tutto ragionevole che il datore di lavoro abbia contestato al lavoratore la suddetta circostanza, non potendosi ravvisare nell'episodio descritto alcun contenuto lesivo, tanto più che, accogliendo le giustificazioni del dipendente, che ha rappresentato la temporanea inagibilità dei locali e lo spostamento del personale in altro Ufficio, nessun provvedimento disciplinare gli è stato successivamente inflitto.
Assolutamente priva di specifica rilevanza per la dimostrazione dell'assunto attoreo, poi, è la richiesta fatta dall'amministrazione comunale al ricorrente per conoscere le pregresse partecipazioni ai corsi gestiti dalla Eu., cui questi aveva partecipato durante le precedenti amministrazioni comunali.
Peraltro, questo episodio si è, verificato il 7 aprile 2000, quasi contestualmente ad un'indagine amministrativa condotta, tra gli altri, anche nell'Ufficio del ricorrente, in data 5 aprile, in occasione dell'inserimento di un link a sfondo sessuale nel sito internet del Comune di Sa..
In questa circostanza, il ricorrente ha lamentato la diretta partecipazione del Sindaco ai controlli effettuati negli Uffici e la richiesta di quest'ultimo di controllare anche i file di lavoro contenuti in un computer diverso da quello collegato in rete.
Invero, non sembra a questo Giudice che la diretta partecipazione del Sindaco ai controlli dei computer nei singoli Uffici del Comune di Sa. abbia nascosto un intento persecutorio o vessatorio nei confronti del ricorrente, non solo per la gravità e l'eccezionalità in sé della situazione, che ha creato scalpore nella comunità locale, testimoniato dall'articolo del Giornale di Si. del (...) - di cui all'allegato n. 14 della produzione del ricorrente -, ma anche, perché l'indagine amministrativa che ne è nata è stata svolta a tappeto, con le medesime modalità ed in tutti gli Uffici, non potendosi ritenere che l'intervento personale del Sindaco sia stato motivato da specifico intento vessatorio nei confronti del ricorrente.
Anzi, pur senza volere entrare in una valutazione di merito sulla legittimità dell'operato del Sindaco nella suddetta circostanza, è comunque ben comprensibile che la massima autorità comunale abbia voluto in prima persona provvedere agli accertamenti in loco al fine di conoscere le ragioni che avevano determinato l'incresciosa situazione.
Da questo episodio, tuttavia, non è lecito inferire alcun intento vessatorio, non essendo l'indagine - a prescindere cioè dal fatto che fosse stato o meno formalmente corretto il comportamento tenuto -, l'intervento personale del Sindaco e le richieste di controllo del materiale del dipendente, volta specificamente a prevaricarlo.
Di conseguenza, del tutto irrilevante è la successiva polemica intercorsa tra il sindaco ed il An. Cu., apparsa sui quotidiani nella cronaca locale (cfr. all. 14).
Non solo perché il comportamento tenuto dall'Ente comunale non ha avuto una specifica attitudine vessatoria, ma anche perché non si è tradotto in nessuna specifica contestazione a carico del ricorrente.
L'ultimo episodio denunciato, infine, riguarda la vicenda dei tesserini di abbonamento all'autobus scolastico.
Sotto questo profilo, il ricorrente ha lamentato che indice del mobbing subito sarebbe una ingiustificata sottrazione di mansioni.
L'assunto non può essere condiviso.
A parte che l'unica mansione effettivamente sottratta al ricorrente, con provvedimento del 29 settembre 2000, subito prima della prima contestazione disciplinare sfociata, nel licenziamento, ha riguardato l'attività di consegna dei tesserini di abbonamento AST agli alunni o ai loro genitori, affidata al dipendente Ca. sotto la diretta vigilanza del Capo Settore, non può dirsi che tale provvedimento sia stato assistito da specifico intento vessatorio.
Non solo perché la sottrazione di una tra le numerose mansioni di un dipendente non comporta certamente uno svuotamento della prestazione lavorativa, ma anche perché essa è risultata motivata da specifiche ragioni.
Anzitutto, con efficacia di, giudicato, la pronuncia del Giudice del lavoro di Marsala n. 282/2002 - in atti - ha accertato che in due episodi il ricorrente si era rifiutato di consegnare il tesserino ai genitori degli alunni, circostanza poi oggetto di contestazione disciplinare e posta, tra le altre, a fondamento del licenziamento; in particolare, è stata accertata non solo la realizzazione della condotta, ma anche la sua rilevanza disciplinare, sia pur escludendo che essa potesse giustificare il licenziamento.
Inoltre, proprio i problemi lamentati da alcuni genitori hanno giustificato l'affidamento della consegna dei tesserini ad altro dipendente, non potendosi ravvisare, neanche in questa circostanza, la pretesa vessatorietà della condotta.
Per quanto riguarda, infine, gli addebiti disciplinari contestati al ricorrente alla fine del 2000 e culminati in un duplice, successivo, licenziamento, occorre premettere due considerazioni generali.
Anzitutto, i provvedimenti datoriali di recesso sono da considerare illegittimi, secondo quanto stabilito dal Giudice del lavoro di Marsala nella pronuncia n. 228 del 9 aprile 2002.
Poi, il licenziamento, di per sé, non integra un'ipotesi di mobbing atteso che consiste in un atto direttamente espulsivo e non in uno dei tanti segmenti della condotta datoriale volta all'emarginazione del dipendente.
Può, tuttavia, rilevare in quanto indice di una condotta vessatoria precedente, della quale ha rappresentato il culmine.
Ora, posto che in difetto di prova in ordine all'attitudine prevaricatoria della condotta precedente del datore di lavoro - come da ritenere, per le suesposte ragioni, nel caso di specie - la sottoposizione del dipendente ad un licenziamento disciplinare, per quanto illegittimo, costituisce comportamento del tutto neutro, nella vicenda concreta occorre rilevare che, dall'esame del fatto operato nella predetta sentenza n. 228/2002, che ha reputato illegittimo il recesso datoriale, emerge che il lavoratore aveva effettivamente commesso dei fatti carichi di disvalore, tanto da potere rilevare sul piano disciplinare ed essere passibili della massima sanzione conservativa.
Ciò, soprattutto, con riferimento al primo licenziamento, rispetto al quale il. Giudice del lavoro, pur nel ritenere eccessiva l'intimazione del licenziamento, ha reputato sussistente l'illecito contrattuale - di natura disciplinare - del ricorrente, consistente nella diffusione di un volantino infamante nei confronti del sindaco e nella mancata consegna dei tesserini a due utenti.
Invero, ciò dimostra come la reazione del datore di lavoro sia stata certamente eccessiva rispetto al fatto, ma essa non può reputarsi talmente sproporzionata da dimostrare una pretestuosità nell'adozione della sanzione disciplinare, né, tanto meno, colorare in termini di specifica intenzione vessatoria la precedente condotta dell'Ente comunale suoi confronti.
A ciò va aggiunto che l'esame effettuato - con efficacia di giudicato - nella sentenza n. 228/2002, ha accertato che, da un lato, come corollario della privatizzazione dei rapporto di impiego, che ha comportato la trasformazione dell'intimazione del licenziamento da provvedimento amministrativo dotato di autoritarietà in atto privatistico soggetto alle forme previste dalle norme che disciplinano l'impiego privato, il ricorrente, alla pari degli altri pubblici dipendenti, non aveva diritto di accesso agli atti del procedimento disciplinare; dall'altro, che la mancata adesione del Comune di Sa. alla procedura arbitrale era del tutto legittima (cfr. pag. 7 e 8 della sentenza).
Sotto entrambi questi profili, pertanto, non può ravvisarsi un'attitudine vessatoria nel comportamento tenuto, del tutto legittimamente, dall'Ente comunale.
Conclusivamente, dalla disamina complessiva dei fatti dedotti dal ricorrente, si ricava che, lungi dall'essere dimostrata la strategia persecutoria e demolitoria dell'ente comunale nei suoi confronti, al fine di emarginarlo e di escluderlo dal mondo del lavoro, i contrasti e le tensioni nell'esecuzione del rapporto, anche per la sostanziale sporadicità degli episodi denunciati, sono restati pienamente nell'area della normalità e della continenza, e possono essere qualificati come vessatori soltanto movendo dall'ottica preconcetta dell'essere vittima di abusi, per la quale si finisce per inquadrare in questa chiave di lettura ogni comportamento altrui reputato pervasivo, invadente o prevaricatorio.
L'insussistenza dell'illecito sotto il profilo oggettivo, infine, rende superflua la necessità di accertare la sussistenza effettiva dei danni lamentati dal ricorrente, nonché il nesso causale rispetto all'illecito medesimo.
Questo Giudice, pertanto, ha reputato irrilevanti i mezzi istruttori articolati dal ricorrente in ordine alla prova del danno e non ha ritenuto di disporre consulenza tecnica.
Né, poi, è stata ammessa la produzione documentale chiesta dal ricorrente alla prima udienza.
Ed infatti, posto che la circostanze di fatto descritte in ricorso e rilevanti per la decisione erano già sufficientemente istruite, la successiva produzione, oltre che tardiva e lesiva del diritto di difesa della convenuta, sarebbe parimenti risultata irrilevante, salvo che non si reputasse ammissibile l'assunzione di mezzi di prova in ordine ad ulteriori circostanze di fatto non allegate in ricorso.
Questo Giudice non ritiene di aderire ad un siffatto orientamento e, a prescindere dall'ammissibilità in giudizio di prove, ancorché documentali, non dedotte, tempestivamente, nel caso di specie i suddetti documenti sono, in definitiva, inammissibili, in quanto la loro produzione violerebbe il principio della domanda e della correlativa allegazione dei fatti su cui essa si fonda.
La complessità e la delicatezza della vicenda oggetto di controversia giustifica l'integrale compensazione delle spese di lite.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale per effetto del licenziamento illegittimo intimato al ricorrente.
Condanna il Comune di Sa., in persona del legale rappresentante pro-tempore, a corrispondere al ricorrente, a titolo di indennità ex art. 16 L .R. 41/1996, in relazione all'anno 2000, la somma complessiva di € 451,82, oltre interessi legali, come per legge.
Rigetta, per il resto, il ricorso e, dichiara interamente compensate le spese di lite.
Il Giudice
Dr. Cesare RUSSO
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