IL LAVORATORE CHE SI ASTIENE DALLA
PRESTAZIONE LAVORATIVA PER REAZIONE AD UNA DEQUALIFICAZIONE HA DIRITTO ALLA
RETRIBUZIONE E AL RISARCIMENTO DEL DANNO – Se si
è comportato secondo buona fede (Tribunale Civile di Palermo, Sezione Lavoro,
sentenza del 13 ottobre 2004, Giudice dott. Martino).
Il giornalista Enzo B.,
dipendente dalla S.p.A. Giornale di Sicilia Editoriale Poligrafica con
qualifica di capo servizio, dopo essere stato preposto, per cinque anni, alla
redazione di Messina, provvedendo alla realizzazione di sei pagine quotidiane
di informazione locale e coordinando il lavoro di tre redattori e circa 50
collaboratori e svolgendo anche attività di articolista, è stato trasferito a
Palermo, nella redazione centrale, dove è stato destinato alla preparazione
delle pagine della c.d. “cronaca in classe” ove venivano pubblicati temi di
studenti su argomenti di attualità. Dopo avere promosso, inutilmente, un
procedimento di urgenza davanti al Pretore di Palermo, egli ha comunicato
all’azienda che, in considerazione della portata dequalificante delle mansioni
assegnategli presso la redazione centrale, egli si sarebbe astenuto dal
lavoro, pur dichiarandosi pronto a svolgere mansioni di capo servizio e
articolista equivalenti a quelle prestate in Messina. Poiché l’editore non ha
modificato le mansioni assegnategli, il giornalista si è astenuto dal
presentarsi in redazione.
L’azienda ha reagito
sospendendo, con effetto dal marzo 1999, il pagamento della retribuzione. Il
giornalista ha promosso, davanti al Tribunale di Palermo, un giudizio
ordinario diretto ad ottenere, tra l’altro, la condanna dell’azienda ad
adibirlo alle mansioni di capo servizio e articolista, nonché a pagargli,
anche a titolo di risarcimento del danno, la retribuzione non corrisposta con
effetto dal 1 marzo 1999 e a risarcirgli anche il danno da dequalificazione.
L’azienda si è difesa sostenendo che le mansioni di addetto alle pagine della
“cronaca in classe” erano adeguate alla qualifica ed alla esperienza
professionale del ricorrente e che il giornalista, non avendo svolto attività
lavorativa, non aveva diritto a percepire la retribuzione. Dopo avere
espletato l’istruttoria con l’escussione di alcuni testi, il giudice dott.
Dante Martino ha pronunciato, il 19 maggio 2004, il seguente dispositivo: “In
parziale accoglimento del ricorso, condanna la società convenuta ad adibire il
ricorrente a mansioni di capo servizio o equivalenti alla suddetta qualifica.
Condanna, altresì, la società a corrispondere allo stesso, a titolo di
risarcimento del danno, una somma pari al 50% della retribuzione globale di
fatto maturata dal 1.3.1996 al 1.3.1999, oltre rivalutazione monetaria ed
interessi legali dalla maturazione di ogni rata di credito al pagamento.
Condanna, infine, la convenuta a corrispondere, sempre a titolo di
risarcimento del danno, una somma pari al 150% della retribuzione globale di
fatto, maturata dal 1.3.1999 fino alla data della presente decisione, oltre
rivalutazione monetaria ed interessi legali dalla maturazione di ogni rata di
credito al pagamento”.
Nella motivazione della
sentenza, depositata il 13 ottobre 2004, il Giudice ha rilevato tra l’altro
che la complessa e meticolosa attività di coordinamento espletata dal
ricorrente a Messina non era per nulla avvicinabile all’attività, svolta a
Palermo, di collaborazione e correzione degli elaborati predisposti dagli
alunni delle scuole locali; queste ultime mansioni – ha osservato il giudice –
devono ritenersi dequalificanti anche perché non comportano lo svolgimento
dell’attività di articolista in precedenza prestate da Enzo B. In ordine al
risarcimento del danno il Giudice ha motivato la sua decisione come segue: “La
condanna alla reintegrazione nelle mansioni precedenti, peraltro, non esclude,
anche alla luce della giurisprudenza di legittimità sopra richiamata il
diritto del lavoratore al risarcimento dei danni patiti a causa del
demansionamento. Al riguardo, pur non volendo approfondire la complessa
problematica teorica relativa alla tipologia dei danni derivanti dalla
dequalificazione, è, a parere di questo decidente, possibile distinguere una
duplice tipologia di danni. Da un lato è evidenziabile un danno di natura
patrimoniale, consistente nella lesione della sfera professionale del
lavoratore, ovvero nel depauperamento del bagaglio di acquisizioni teoriche e
capacità pratiche acquisite dallo stesso nel corso del tempo ed aventi un
valore economico nel mercato del lavoro. Dall’altro, v’è invece, quella più
vasta (ed indefinita) categoria di danni, incidente sulla sfera personale del
lavoratore, comprendente tutti quei beni quali la dignità, libertà,
personalità, salute del lavoratore, riconducibili ai diritti fondamentali del
cittadino-lavoratore riconosciuti dalla carta costituzionale e non aventi, in
senso proprio, un “valore economico”.
“Tale duplice
tipologia di lesioni è riconosciuta dalla recente giurisprudenza di
legittimità secondo la quale: «Il demansionamento professionale di un
lavoratore dà luogo ad una pluralità di pregiudizi solo in parte incidenti
sulla potenzialità economica del lavoratore; esso, infatti, non solo viola lo
specifico divieto di cui all’art. 2103 cod. civ., ma costituisce lesione del
diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore
nel luogo di lavoro, con la conseguenza che al pregiudizio correlato a tale
lesione – che incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato
– va riconosciuta una indubbia dimensione patrimoniale che lo rende
suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa, pure
nell’ipotesi in cui sia mancata la dimostrazione di un effettivo pregiudizio
patrimoniale» (Cfr. Cassazione civile, sez. lav. 6 novembre 2000, n. 14443).
A fronte di un'unica
condotta illecita, quindi, sorgono due tipologie di danno, suscettibili
entrambe di risarcimento per equivalente. In ordine alla prova dei suddetti
danni può essere condiviso quel consistente filone giurisprudenziale (cfr.
tra le altre Cass. sez. lav. sent. n. 15868 del 12/11/2002 e Cass. sez. lav.
sent. n. 7967 del 1/6/2002) secondo cui: «Dalla illegittima attribuzione ad un
lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle assegnategli al momento
dell’assunzione può derivare non solo la violazione dell’art. 2103 cod. civ.,
ma anche la violazione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera
esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 2
e 3 della Costituzione, da cui deriva il diritto dell’interessato al
risarcimento del danno patrimoniale conseguente al pregiudizio risentito nella
vita professionale e di relazione, e la cui quantificazione può avvenire in
via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 cod. civ. anche in mancanza di uno
specifico elemento di prova da parte del danneggiato, in quanto la
liquidazione può essere operata in base all’apprezzamento degli elementi
presuntivi acquisiti al giudizio e relativi alla natura, all’entità e alla
durata del demansionamento, nonché alle altre circostanze del caso concreto»
(così da ultimo Cass. sez. lav. sent. n. 12553 del 27/08/2003). Nel caso di
specie, la durata (oltre due anni) del demansionamento patito, la peculiarità
delle mansioni giornalistiche, caratterizzate, come già evidenziato, da una
costante esigenza di esercizio ed affinamento, l’età lavorativamente avanzata
del ricorrente, portano a ritenere, seppure presuntivamente, provata
l’esistenza di entrambi i profili di danno, patrimoniale e personale, sopra
evidenziati. Il mancato espletamento delle mansioni di capo servizio e di
articolista determina, infatti, sia una riduzione della notorietà del
giornalista sia, per i motivi già evidenziati, un depauperamento delle sue
capacità tecnico espressive, sì da incidere sul valore “di mercato” della sua
professionalità”.
Allo stesso modo, l’adibizione a mansioni inadeguate al ruolo posseduto
intacca quel complesso di diritti della persona strumentali alla esplicazione
della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, riconosciuti dalla Carta
Costituzionale (artt. 2 e 41) e ritenuti meritevoli di tutela dall’ordinamento.In
ordine alla quantificazione concreta del risarcimento è opportuno ricordare
come in assenza di parametri normativi, di origine legale o contrattuale, la
prevalente giurisprudenza di merito abbia condivisibilmente posto a criterio
base per la quantificazione del risarcimento l’intera retribuzione percepita
dal lavoratore (Tribunale Roma 19.10.1993, Pretura Milano 7.6.1993, Pretura
Milano 8.4.1992) o una parte di essa (Pretura Milano 28.10.1994, Pretura
Milano 18.7.1995, Pretura Napoli 10.10.1992).
Orbene, a parere di
questo decidente, appare conforme ad equità, in considerazione della parziale
(e non totale) riduzione delle mansioni assegnate al ricorrente, equiparare la
somma dovuta a titolo di risarcimento alla metà della retribuzione globale di
fatto percepita dal ricorrente per il periodo dal 1.3.1996 (data in cui è
stato assegnato alla redazione di “cronaca in classe”) al 1.3.1999 (data in
cui è cessata l’erogazione della retribuzione). La società va, quindi,
condannata a corrispondere in favore del ricorrente, a titolo di risarcimento
del danno per il demansionamento subito, una somma pari al 50% della
retribuzione globale di fatto corrisposta allo stesso dal 1.3.1996 al
1.3.1999, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali.
Per quanto riguarda il
periodo successivo al 19.2.1999, data in cui il lavoratore ha comunicato alla
società la propria volontà di volersi astenere “con effetto immediato dalla
prestazione lavorativa da Voi richiestami,” considerandosi però “a Vostra
disposizione per svolgere le mansioni di capo servizio della cronaca di
Messina o altre equivalenti, può essere riconosciuto il diritto dello stesso
alla corresponsione di una somma pari al 150% della retribuzione di cui il 50%
quale risarcimento del persistente danno da dequalificazione.
Al riguardo, va
riportato il recente orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo
cui: «L’illegittimo comportamento del datore di lavoro consistente
nell’assegnazione del dipendente a mansioni inferiori a quelle corrispondenti
alla sua qualifica può giustificare il rifiuto della prestazione lavorativa,
in forza dell’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 cod. civ.,
purché la reazione risulti proporzionata e conforme a buona fede». (cfr.
Cassazione civile, sez. lav., 26 giugno 1999 n. 6663).
Appare, dunque,
legittima, in forza del generale strumento di autotutela disciplinato
dall’art. 1460 cod. civ., la condotta del lavoratore, parte del contratto di
lavoro a prestazioni corrispettive, che opponga all’inadempimento datoriale,
consistente nell’illecito esercizio del c.d. “ius variandi”, il rifiuto della
propria prestazione, sempre che tale rifiuto appaia proporzionato e conforme a
buona fede. A quest’ultimo riguardo la Suprema Corte ha chiarito che il
rifiuto “può considerarsi in buona fede solo se si traduca in un comportamento
che, oltre a non contrastare con i principi generali della correttezza e della
lealtà, risulti oggettivamente ragionevole e logico, nel senso di trovare
concreta giustificazione nel raffronto tra prestazioni ineseguite e
prestazioni rifiutate" (cfr. Cassazione civile, sez. lav., 2 novembre 1995 n.
12121).
Nel caso di specie, il
rifiuto del B., dopo ben tre anni dalla data di assegnazione alle
dequalificanti mansioni sopra descritte e dopo l’infruttuoso ricorso alla
tutela giurisdizionale in via d’urgenza, appare, specie di fronte alla
persistente volontà datoriale (manifestata anche nel corso del procedimento
cautelare) di non modificare la suddetta assegnazione, pienamente conforme a
correttezza e buona fede. La società va, quindi, condannata a corrispondere in
favore del ricorrente, anche a titolo di risarcimento del danno, una somma
pari al 150% della retribuzione globale di fatto, maturata a partire dal
1.3.1999, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalla maturazione
di ogni rata di credito al pagamento”.
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