Dequalificazione professionale di uno psicologo del Ministero della Giustizia: risarcimento del danno biologico e morale

 

Trib. Roma, sez. lav., 4 aprile 2006 (R.G. n. 225428/2005)- A. c. Ministero della Giustizia

 

Dequalificazione, non mobbing – Risarcibilità del danno biologico e del danno morale - Diniego, per genericità di allegazione, di quello esistenziale e di quello alla professionalità, quest'ultimo per non addotte perdite circostanziate di chances.

 

Ai fini di strutturare il mobbing si richiede una sistematica reiterazione di condotte vessatorie da parte del datore di lavoro capace di determinare, proprio per la frequenza e la durata del comportamento ostile, sofferenza mentale, disturbi psicosomatici e disagio sociale (ciò che costituisce  mobbing, secondo l’opinione oggi più diffusa): attraverso le 4 fasi  (che divengono 6 per Harald Ege) di evoluzione del mobbing, della modificazione, dell’isolamento, dell’ufficializzazione e dell’epilogo (Leyemann), la condotta datoriale finisce per distruggere la struttura psichica del lavoratore.

Il fenomeno del c.d. mobbing verticale si configura, allora, come obbligo del datore di lavoro di rispettare la personalità del suo lavoratore evitando ogni comportamento che, pur formalmente corretto, possa risolversi in una forma di pressione, di “accerchiamento”, sì che il lavoratore possa avvertire questa sorta di presenza costante, il fiato sul collo, la consapevolezza che ogni manifestazione della sua personalità non gradita al datore possa comportare conseguenze pregiudizievoli sul piano del rapporto contrattuale.

Nella fattispecie – in presenza di dequalificazione e di 3 provvedimenti disciplinari (che vanno annullati)- non si è necessariamente in presenza di mobbing ma di dequalificazione.

Allorquando da parte di un lavoratore sia allegata una dequalificazione o un demansionamento o comunque un inesatto adempimento dell’obbligo del datore di lavoro ex art. 2103 c.c. è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l’una o l’altro siano state giustificate dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari ovvero, in base al principio generale di cui all’art. 1218 cod. civ., comunque da una impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.(Cassazione Sezione Lavoro n. 4766 del 6 marzo 2006).

A fronte di una provata condotta illecita e vessatoria (non importa se integrante anche l’ipotesi del mobbing) la convenuta non ha provato di avere adottato le cautele e gli accorgimenti necessari a evitare il danno ex art. 2087 cod. civ. Anche rilevato che l’eventuale concorso di colpa del (A) non potrebbe a sua volta escludere la responsabilità dell’amministrazione. Giova ricordare inoltre, pur in assenza di specifiche contestazioni, che il danno biologico deve essere integralmente risarcito anche rispetto ad un soggetto “fisicamente predisposto alla malattia”(vedi Cass. n. 5539 del 9/4/2003).

Come è stato affermato dalla Suprema Corte (per tutte Cass. Sez. Lav. n. 14645 del 1/10/2003) la liquidazione del danno biologico è necessariamente equitativa; è tuttavia necessario tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto e, specificamente, della particolare lesione dell’organismo e del grado di menomazione dell’integrità fisio-psichica, della gravità della lesione, degli eventuali postumi permanenti, dell’età e delle condizioni sociali e familiari del danneggiato; è poi necessario analizzare il danno biologico nei distinti momenti, dell’inabilità temporanea e dell’invalidità permanente, differenziandolo dal danno patrimoniale e dal danno morale.

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 

Con ricorso depositato ex art. 414 ed ex art. 700 c.p.c. il 31.10.2005 (A) esponeva di essere dipendente del Ministero della Giustizia con inquadramento nel profilo professionale dello Psicologo Direttore, area C, posizione economica C3, 9^ qualifica funzionale, e che il convenuto, a partire dal luglio 2002, lo aveva dequalificato e sottoposto a ripetute e continue vessazioni, integranti un vero e proprio mobbing, contestandogli addebiti infondati e pretestuosi e facendolo lavorare in uno sgabuzzino di 5 mq, con grave lesione della propria dignità morale e della propria integrità psico-fisica.

Chiedeva pertanto al giudice del Lavoro di Roma la condanna del Ministero della Giustizia, previa dichiarazione di nullità/illegittimità della condotta datoriale sotto vari profili, ad adibirlo alle mansioni proprio del suo livello garantendogli una sistemazione logistica conforme alla normativa sulla sicurezza del lavoro, nonché al risarcimento del danno biologico, pari a complessivi euro 17.289,00, esistenziale e morale subito, nella misura ritenuta di giustizia, oltre accessori, vittoria di spese e onorari.

Il ricorrente chiedeva inoltre di dichiarare nulle/illegittime/inefficaci le sanzioni rispettivamente del rimprovero scritto irrogatagli con provvedimento del 18.2.2003, della sospensione dal servizio e dalla retribuzione per gg. 3 irrogatagli con provvedimento del 30.5.2003 e, infine, della sospensione dal servizio e dalla retribuzione per gg. 10 inflittagli con provvedimento del 30.10.2003, con conseguente condanna dell’amministrazione alla restituzione delle somme trattenute.

Il Ministero della Giustizia si costituiva contestando il fondamento delle domande attrici e chiedendone il rigetto.

Con ordinanza emessa all’esito della riserva di cui all’udienza del 29.11.2005 veniva respinta la domanda cautelare.

Autorizzato il deposito di note illustrative, all’odierna udienza la causa veniva discussa e decisa come da dispositivo in epigrafe.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

Il ricorrente lamenta di essere stato vittima di una consapevole e preordinata  dequalificazione professionale, e anzi di un vero e proprio mobbing, ovvero di macchinazione architettata ai suoi danni anche da colleghi, che gli avrebbe arrecato un grave danno biologico, alla dignità  personale e alla personalità morale.

Risulta dagli atti che il dott. (A), attualmente in servizio presso la Casa Circondariale di (X), è inquadrato, dal 19.7.2002, nel profilo professionale dello Psicologo, area C, posizione economica C3 (corrispondente alla qualifica di psicologo Direttore della ex 9^ qualifica funzionale).

Il ricorrente ha dedotto la lesione del diritto al lavoro e alla salute e ha dedotto di essere stato vittima di un vero e proprio mobbing (o bossing).

Il (A) ha infatti affermato in ricorso di essere ancora costretto a svolgere le mansioni indicate nell’O.D.S. n. 104 del 29/10/2001, quando ancora ricopriva il ruolo di psicologo C1, e che anzi l’amministrazione gli avrebbe assegnato una sistemazione logistica inadeguata, uno sgabuzzino di soli 5 mq, in contrasto con la normativa in materia di sicurezza sul lavoro.

Va detto subito che la domanda con la quale il (A) ha chiesto una sistemazione logistica conforme alla normativa sulla sicurezza del lavoro appare in sé assolutamente generica e indeterminata.

Se la problematica della mancanza di una adeguata sistemazione logistica dei dipendenti del Ministero della Giustizia è ben nota a chi scrive, non si comprende in base a quale parametro il giudice dovrebbe valutare la legittimità di una sistemazione.

Il (A) non ha in alcun modo specificato quali sarebbero queste specifiche normative sulla sicurezza del lavoro che sarebbero state violate e si è limitato a invocare l’art. 32 Cost. e alcuni articoli dello Statuto dei Lavoratori e del codice civile.

Come si vedrà in seguito il (A)  ha comunque diritto ad essere reintegrato nelle mansioni proprie del suo livello e il predetto diritto comprende anche quello di una sistemazione logistica dignitosa senza necessità di alcuna espressa statuizione, ove ciò sia possibile, tenendo conto cioè dei problemi del carcere (X).  

Ciò premesso, il (A) deduce che, con una serie di condotte successive, diffidandolo a non svolgere attività di studio e di ricerca in ufficio dopo il normale orario di lavoro (v. la lettera dell’1/2/2003, All. n. 14 della produzione attrice), irrogandogli sanzioni disciplinari pretestuose, e contestandogli persino di avere utilizzato la qualifica di sua spettanza di Psicologo Direttore, l’amministrazione avrebbe dimostrato la sua volontà di screditarlo ed isolarlo anche di fronte ai colleghi.

E’ nota la distinzione tra "mobbing verticale" e "mobbing orizzontale", a seconda che il comportamento mobbizzante sia posto in essere dai superiori gerarchici di grado più elevato o dallo stesso datore di lavoro, oppure che esso sia tenuto dai colleghi di lavoro del mobbizzato.

Il "mobbing verticale" poi, nella maggior parte dei casi è discendente (appunto "bossing"), ma niente che esclude che possa anche essere ascendente, ossia posto in essere dal subordinato nei confronti del superiore (si pensi alle false e reiterate accuse di mobbing o di molestie sessuali cui può essere sottoposto per invidia, vendetta o altre ragioni un soggetto gerarchicamente sovraordinato) col concorso di altri fattori.

A detto fine si richiede una sistematica reiterazione di condotte vessatorie da parte del datore di lavoro capace di determinare, proprio per la frequenza e la durata del comportamento ostile, sofferenza mentale, disturbi psicosomatici e disagio sociale (ciò che costituisce  mobbing, secondo l’opinione oggi più diffusa): attraverso le 4 fasi  (che divengono 6 per Harald Ege) di evoluzione del mobbing, della modificazione, dell’isolamento, dell’ufficializzazione e dell’epilogo (Leyemann), la condotta datoriale finisce per distruggere la struttura psichica del lavoratore. 

Ai fini del presente procedimento non rileva comunque la qualificazione giuridica dei fatti.

Si è affermato in dottrina che il mobbing appartiene alla cultura giuridica del nostro sistema lavoristico già dal 1942 e trova una conferma – a livello costituzionale – nell’art. 42 Cost. dove, come è noto, si dice che l’iniziativa economica privata “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

Il riferimento alla necessaria tutela anche della personalità morale e della dignità umana da parte del datore di lavoro consente di qualificare come illecito contrattuale (art. 2087 c.c.) ogni comportamento che cagioni ingiustificatamente al lavoratore un pregiudizio alla sua personalità umana e dunque appronta una tutela all’uomo in sé, sanzionando con il risarcimento ogni atteggiamento che travalichi il diritto ad ottenere dal lavoratore una corretta prestazione, nel presupposto, ovvio, che si tratti della parte più debole del rapporto e quindi, in astratto, disposta (o costretta) a subire pressioni od umiliazioni pur di mantenere la sua fonte di reddito.

Intesa in tal modo, la norma codicista (supportata dal disposto costituzionale) appronta un diaframma ben preciso fra gli obblighi contrattuali inerenti al sinallagma ed ogni manifestazione di supremazia datoriale che al quel sinallagma non sia funzionale e che, nell’immanente squilibrio fra le due parti, consenta a chi offre il lavoro di pretendere da chi lo presta qualcosa in più rispetto alla corretta prestazione od addirittura, una sorta di partecipazione totale al momento imprenditoriale, se non addirittura di devozione.

La regola, dunque, impedisce ogni forma di pressione rivolta al lavoratore che sia estranea all’esecuzione della prestazione e sconfini nella pretesa di fagocitare all’impresa la persona del dipendente, che tale rimane, ancorché necessariamente inserita nel contesto della sua azienda, dovendo a quest’ultima nient’altro che una prestazione lavorativa.

Il fenomeno del c.d. mobbing verticale si configura, allora, come obbligo del datore di lavoro di rispettare la personalità del suo lavoratore evitando ogni comportamento che, pur formalmente corretto, possa risolversi in una forma di pressione, di “accerchiamento”, sì che il lavoratore possa avvertire questa sorta di presenza costante, il fiato sul collo, la consapevolezza che ogni manifestazione della sua personalità non gradita al datore possa comportare conseguenze pregiudizievoli sul piano del rapporto contrattuale.

In definitiva si può affermare che nel rapporto lavorativo è vietato ogni comportamento datoriale che realizzi una compromissione della personalità del lavoratore, posto che quest’ultima deve rimanere estranea alla prestazione e non è versata, in tutte le sue componenti nel sinallagma, ma mantiene la sua destinazione al patrimonio individuale, lontanissima del potere di sovraordinazione ed eterodirezione datoriale.

La norma codicistica, poi, impone al datore di lavoro un comportamento attivo: egli deve approntare le misure di sicurezza finalizzate a tutelare l’integrità fisica del lavoratore e deve porre in essere tutti gli accorgimenti necessari a tutelarne la personalità morale.

In tale contesto il datore di lavoro è tenuto a porre in essere, secondo il tradizionale criterio della “massima sicurezza fattibile” (che appartiene, come è noto, allo schema dell’art. 2087 c.c.), quanto necessario per impedire ogni attentato alla personalità morale.

E’ stato però anche affermato che: il mobbing è quel fenomeno di violenza morale posto in essere in modo reiterato per un apprezzabile lasso di tempo, da uno o più soggetti interni al contesto aziendale, superiori o colleghi del mobbizzato, con la finalità ultima di addivenire alla sua espulsione reale o estromissione virtuale dal contesto lavorativo, risultato perseguito mediante una serie di soprusi e di condotte tese a depauperare il suo valore professionale, ad umiliarlo e ad emarginarlo, inducendo nella vittima processi di autocolpevolizzazione e svalutazione delle proprie capacità e provocando un deterioramento delle sue condizioni lavorative e pertanto deve essere escluso nel caso in cui non sussistano fatti esorbitanti da una fisiologica conflittualità nei normali rapporti di ufficio.

In altre parole l’esistenza di una situazione di conflitto in azienda e la semplice violazione da parte del datore di lavoro di diritti individuali e collettivi (ad es. in tema di orario di lavoro) non integra di per sé questa figura tipica della nostra epoca.

La giurisprudenza ha pertanto escluso l’ipotesi del mobbing, in presenza di comportamenti illegittimi episodici pur se gravi, non caratterizzati da sistematicità e comunque di scarsa entità qualitativa e quantitativa (Tribunale di Milano 20/5/2000 in Lav. nella Giur. 2001, 4,  pag.  367 ) .

La Suprema Corte ha invece affermato che è configurabile alla stregua di illecito risarcibile il comportamento del datore di lavoro che si traduca in disposizioni gerarchiche rivolte al dipendente al fine di indurlo ad atti contrari alla legge, potendo integrare tale comportamento una violazione del dovere di tutelare la personalità morale del prestatore di lavoro, imposta al datore di lavoro dall'art. 2087 del codice civile. Tale profilo, è appunto riconducibile al fenomeno del mobbing” (Cass. Sez. lav., 08/11/2002, n.15749).

Di mobbing si parla in alcune recenti pronunzie della Corte di Cassazione con riferimento a quelle fattispecie in cui il giudice abbia accertato non solo il demansionamento, ma anche un “globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro”, consistito in una serie di comportamenti ed episodi, verificatisi nell’ambito lavorativo, denunziati, non contestati o comunque confermati dagli accertamenti istruttori (vedi Cass. n. 6326 del 23.3.2005).

E’ il caso poi di rilevare come il fenomeno sia ufficialmente “entrato nella giurisprudenza costituzionale” con la sentenza n. 113 del 2004.

Con questa pronuncia la Corte ha stabilito che è incostituzionale l'art. 2751-bis, n. 1, c.c., nella parte in cui non munisce del privilegio generale sui mobili il credito del lavoratore subordinato per danni da demansionamento subiti a causa dell'illegittimo comportamento del datore di lavoro”.

Nella sentenza si legge in particolare che “nell'elaborazione dei giudici ordinari è incontroverso che dalla violazione da parte del datore dell'obbligo di adibire il lavoratore alle mansioni cui ha diritto possono derivare a quest'ultimo danni di vario genere: danni a quel complesso di capacità e di attitudini che viene definito con il termine professionalità, con conseguente compromissione delle aspettative di miglioramenti all'interno o all'esterno dell'azienda; danni alla persona ed alla sua dignità, particolarmente gravi nell'ipotesi, non di scuola, in cui la mancata adibizione del lavoratore alle mansioni cui ha diritto si concretizza nella mancanza di qualsiasi prestazione, sicché egli riceve la retribuzione senza fornire alcun corrispettivo; danni alla salute psichica e fisica.

Il datore risponde di mobbing ad opera sua o dei suoi dipendenti per effetto della clausola generale di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c. che tutelando la salute del prestatore d’opera comprende anche le lesioni derivanti dal mobbing: il mobbing determina quindi  responsabilità contrattuale e solo in caso di danno prodotto dai colleghi di lavoro è ravvisabile la responsabilità ex art. 1229 c.c., ovvero per fatto degli ausiliari (cui è speculare, in via extracontrattuale l’art. 2049 c.c.)”.

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Se questi sono i principi ciò che rileva è solo il fatto che il (A) ha subito una grave dequalificazione professionale e 3 sanzioni disciplinari, che appaiono illegittime ma non anche necessariamente preordinate a colpire la personalità morale del ricorrente.

Come si è visto non rileva invece la qualificazione giuridica dei fatti che la difesa del (A) vuole far rientrare nella fattispecie del mobbing.

Se i fatti dedotti in ricorso, non contestati, dimostrano certamente che l’amministrazione non ha voluto tenere conto della professionalità del ricorrente, sostanzialmente isolandolo ed emarginandolo, non si comprende come le controversie tra il dott. (A) e suoi colleghi potrebbero far rientrare la fattispecie nella generale figura del mobbing.

La stessa descrizione dei fatti per i quali il (A) è stato ingiustamente sanzionato fa comprendere che in realtà si è in presenza solo di fatti che denotano la superficialità e il pressappochismo degli accertamenti che il Ministero avrebbe dovuto garantire in questi casi.

Non per questo la vicenda può essere considerata meno grave.

Il ricorrente ha impugnato tre sanzioni disciplinari contestando i fatti che gli sono stati addebitati.

Il Ministero non ha chiesto tempestivamente di provare i fatti addebitati come era suo onere e non ha contestato nella comparsa di costituzione quanto affermato dal (A).

Alla materia si applicano principi generali: il datore di lavoro deve dimostrare l’inosservanza delle disposizioni inerenti l’esecuzione della prestazione lavorativa (e cioè il fatto nella sua “materialità” e il nesso di causalità), mentre il lavoratore deve dimostrare che l’inadempimento non è a lui imputabile (Cass. n. 6352 del 26/6/98, Cass. n. 16530 del 21/8/2004 e numerose altre).

Se questi sono i principi le sanzioni devono essere dichiarate illegittime e annullate.

Con il provvedimento del 18/2/2003, in riferimento a fatti per i quali è stata dal (A) presentata denuncia penale per ingiuria aggravata, il ricorrente è stato accusato di avere posto in essere in data 16/12/2002, condotte scorrette nei confronti di altra dipendente del Ministero, sig.ra (B).

Già rispetto a questa prima sanzione emerge l’assenza di istanze istruttorie da parte dell’amministrazione idonee a dimostrare la responsabilità del (A) il quale ha affermato, senza contestazione alcuna da parte del convenuto, di avere soltanto risposto alle espressioni volgari della (B).

Con la seconda contestazione del 27.2.2003 che ha condotto alla sanzione del 30.5.2003 è stato di fatto rimproverato al dott. (A) di avere tenuto una condotta poco professionale, non conforme ai principi di correttezza nei confronti di un superiore gerarchico, di essersi portato dietro le chiavi dell’ufficio durante le ferie e di avere al ritorno apposto alla porta dell’ufficio, dopo che era stata cambiata la serratura, un lucchetto senza autorizzazione.

Ove si consideri che l’amministrazione non ha contestato la circostanza che la chiave era depositata presso la portineria, considerando che nello stesso periodo il ricorrente stava conducendo una attività di studio e preparazione quale membro, nominato dall’Amministrazione, della Commissione per i concorsi nella Polizia Penitenziaria (con le conseguenti esigenze di riservatezza), appare addirittura paradossale l’accusa al (A) di essersi impropriamente attribuito il titolo di “Psicologo Direttore”, corrispondente alla sua qualifica di inquadramento.

Peraltro l’amministrazione non ha provato i fatti e non ha specificato quali frasi irriguardose e ingiuriose sarebbero state pronunciate nei confronti del direttore dell’istituto; né l’amministrazione ha contestato la circostanza che l’ufficio del (A) fosse indebitamente usato dai funzionari del ruolo educatori.

Analoghe considerazioni devono essere fatte per la terza contestazione del 31.8.2003 che ha condotto all’ultima sanzione del 30.10.2003, non avendo il Ministero provato che il (A) abbia offeso, allontanandolo dall’aula, un funzionario del C.N.R. scoperto in realtà a fornire suggerimenti, senza avere alcun titolo per presenziare alle prove (altra circostanza non contestata dall’amministrazione), ai candidati nel corso delle prove psico-attidudinali per l’assunzione degli agenti ausiliari della Polizia Penitenziaria.

Anche in questo caso l’amministrazione non ha provato i fatti addebitati al (A) e non si comprende per quale ragione dovrebbe essere sanzionato il fatto che il (A) si sia rivolto agli Ispettori di Polizia Penitenziaria.

Se le sanzioni devono essere annullate, e se queste non appaiono di per sé sintomatiche di un intento di mobbing, non per questo la vicenda appare meno grave, considerando che il dott. (A) ha comunque diritto a svolgere le mansioni proprie della sua qualifica.

La materia impone alcune considerazioni preliminari di carattere generale.

E' noto, infatti, che il dipendente è titolare di un diritto allo svolgimento effettivo delle mansioni proprie della qualifica di appartenenza, cioè ha un vero e proprio diritto soggettivo al lavoro, che costituisce non solo fonte di guadagno, ma soprattutto il mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino (Cass. 3.6.95, n. 6265; Cass. 13.8.91, n. 8835; Cass. 12.11.2002  n. 15868; Cass. 14.11.2001 n. 14199; Cass. n 10157/2004 ecc).

Secondo un orientamento assolutamente consolidato della Suprema Corte il datore di lavoro non può, neanche in caso di colpa del lavoratore o per ragioni di carattere oggettivo ed organizzativo, assegnare a quest'ultimo mansioni inferiori alla qualifica di appartenenza (Cass. n. 6856/2001, Cass. n. 1295/95, Cass. n. 10/2002, Cass. n. 7967/2002, Cass. n. 8018/2003, Cass. n. 16792/2003; Cass. n. 2354/2004; Cass. n. 11045/2004; Cass. n. 10157/2004; Cass. n. 7980/2004 ecc.).

Ciò significa che il pregiudizio del c.d. diritto alla "professionalità" gode di una tutela autonoma tanto che l'interessato può anche rifiutare le suddette mansioni "degradanti", nei limiti del rispetto del principio di buona fede contrattuale (Cass. n. 8939 del 12/10/96; Cass. n. 8096 del 4/6/2002).

La stessa Corte ha chiarito che si ha dequalificazione o “svuotamento di mansioni” in tutti i casi di “sottoutilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal lavoratore con riferimento alla qualità intrinseca delle attività, al grado di autonomia e discrezionalità del loro esercizio e alla posizione nell’organizzazione aziendale” (Cass. n. 7789 del 14/7/93; Cass. n. 5651 del 20/3/2004).

Se nel caso del (A) la dequalificazione risulta di lunga durata e persiste ancor oggi va detto però che anche la brevità del demansionamento non giustifica alcuna deroga all’art. 2103 codice civile (Cass. n. 3772 del 25/2/2004).

La Suprema Corte ha più volte affermato che il c.d. “demansionamento” non viola solo l’art. 2103 cod. civ. ma anche, più in generale, il diritto alla libera esplicazione della personalità del lavoratore: si tratta quindi di un pregiudizio di natura patrimoniale e, secondo l’orientamento prevalente prima dell’intervento delle Sezioni Unite (la sentenza n. 6572/2006 su cui si tornerà in seguito), detto pregiudizio era suscettibile nel giudizio di merito di risarcimento anche equitativo pur in difetto della prova di un preciso ammontare (v. tra le altre Cass. n. 11724 del 18/10/99, Cass. n. 14443 del 6/11/2000 e Cass. n.16792 del 8/11/2003).

Giova inoltre ricordare che il diritto disciplinato dall’art. 2103 cod. civ. è indisponibile con conseguente invalidità di una eventuale rinuncia (ad es. Cass. n. 420 del 13/1/2001): lo svolgimento di mansioni inferiori, pur lungamente protratto, non può integrare quindi alcuna accettazione.

Anche il dipendente della pubblica amministrazione è tutelato contro la dequalificazione (v. Cass.  16 febbraio 2006, n. 3389).

Infatti il decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165 (che detta norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) prevede al primo comma dell’art. 52 (in tema di disciplina delle mansioni) che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi, ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto dello sviluppo professionale o di procedure concorsuali o selettive; formulazione questa che ripete nella sostanza l’analoga prescrizione contenuta nella prima parte dell’art. 2103 cod. civ. secondo cui “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione”(Cassazione Sezione Lavoro n. 3389 del 16 febbraio 2006).

Per ciò che concerne l’onere della prova anche in materia di dequalificazione deve affermarsi la applicabilità del principio secondo cui: “in tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, ed uguale criterio di riparto dell’onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 cod. civ. (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, perché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l’altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell’obbligazione). Anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento”.

Pertanto, allorquando da parte di un lavoratore sia allegata una dequalificazione o un demansionamento o comunque un inesatto adempimento dell’obbligo del datore di lavoro ex art. 2103 c.c. è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l’una o l’altro siano state giustificate dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari ovvero, in base al principio generale di cui all’art. 1218 cod. civ., comunque da una impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.(Cassazione Sezione Lavoro n. 4766 del 6 marzo 2006).

Se questi sono i principi generali, non può non rilevarsi che il Ministero della Giustizia ha di fatto genericamente affermato (v. comparsa di costituzione) di avere assegnato al dott. (A) le mansioni di livello C3 già con l’O.D.S. n. 104 del 29.10.2001, con il quale il ricorrente veniva investito di compiti di organizzazione e coordinamento dell’area degli psicologi, tanto che al ricorrente sarebbe stato chiesto, con invito formale del 23.9.2003, di relazionare in merito a rilevanti tematiche concernenti gli psicologi del Servizio Osservazione e Trattamento (All. n. 3 della produzione resistente) e, in data 9.12.2003, in merito alla redazione del piano delle attività psicologiche da coordinare con la programmazione generale delle attività educative (All. n. 4).

Quindi il convenuto ha sostanzialmente ammesso di avere continuato a far svolgere al dott. (A), anche dopo il 19.7.2002, le stesse mansioni che svolgeva in precedenza quando era un C1.

Mancano cioè istanze istruttorie da parte del Ministero idonee a dimostrare che il (A) abbia effettivamente svolto, dopo il 19.7.2002, le mansioni proprie di un livello C3 che implicano la preposizione alla direzione di servizi con elevato grado di responsabilità e l’espletamento di una effettiva attività di coordinamento in collaborazione con il dirigente preposto al servizio, con il potere tra l’altro di sostituirlo in caso di assenza.

A tale proposito il convenuto non può limitarsi ad eccepire la mancanza di collaborazione da parte del dott. (A), che avrebbe dovuto oltretutto provare.

Si è quindi in presenza di una contestazione generica che equivale ad una confessione e quando si tratta di specificare quali mansioni sarebbero state allora affidate al (A), l’amministrazione finisce per ammettere, con allegazioni del tutto generiche, che si trattava delle stesse che svolgeva come C1.

Né è stato specificato quali sarebbero questi poteri inerenti l’organizzazione ed il coordinamento dell’intero settore degli psicologi che il (A) in concreto svolto.

Oltretutto l’amministrazione ha anche revocato la disposizione 23.1.2002 (all. n. 6 della produzione attrice) e il Ministero si è ben guardato dallo specificare che cosa in concreto il ricorrente, dopo detta data, abbia fatto.

Giova allora ricordare che, a norma dell’art. 416 cpc, 3° comma, il convenuto ha l’onere di prendere posizione in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda.

Quindi la contestazione generica equivale all’omessa contestazione e le posizioni originariamente assunte nella memoria di costituzione sono “immodificabili” salvo che per le difese in diritto (cfr  Cass. n. 1562 del 3/2/2003).

Al di là della descrizione astratta del contenuto professionale che spettava al ricorrente alla luce della complessa disciplina che regola la classificazione del personale il convenuto non ha articolato alcuna istanza istruttoria idonea a dimostrare, come era suo onere (Cass. n. 4766/2006) l’equivalenza delle mansioni assegnate al (A)  dopo il luglio 2002 rispetto a quelle proprie della sua qualifica di appartenenza.

In sostanza il Ministero ha eccepito, senza fornire nessuna prova, che al ricorrente sarebbero stati affidati compiti “omogenei” rispetto a quelli precedentemente esercitati e rientranti tra quelli propri della categoria di appartenenza e da lui esigibili.

Se il ricorrente non può pretendere di sindacare le scelte discrezionali del datore di lavoro era comunque suo diritto svolgere mansioni corrispondenti alla posizione che gli spettava contrattualmente.

Non ha quindi molta importanza sapere se questa dequalificazione sia stata decisa “dall’alto”o sia stata il frutto di scelte di personale intermedio e neanche in realtà se si tratti di un vero e proprio mobbing.

In questo quadro si devono aggiungere alcune considerazioni circa la natura della responsabilità del Ministero in quanto datore di lavoro.

La Suprema Corte ha recentemente ribadito (vedi Cass. n. 6326 del 23.3.2005 che richiama Corte Costituzionale n. 359 del 19.12.2003), proprio a proposito della dequalificazione professionale, che la responsabilità del datore di lavoro non può essere esclusa per il fatto che le condotte siano state poste in essere da dipendenti o collaboratori, e non dai responsabili aziendali, richiamando l’art. 2087 c.c., che obbliga l’imprenditore ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, sia in base ai principi di cui agli artt. 117, comma secondo, 2 e 3, comma primo, Cost., con particolare riguardo alla salvaguardia sul luogo di lavoro della dignità e dei diritti fondamentali del lavoratore.

Va detto a questo punto che, nonostante il tentativo della difesa del ricorrente di modificare  surrettiziamente le conclusioni nelle note autorizzate, senza chiedere l’autorizzazione al giudice, e senza neanche dedurre l’esistenza dei “gravi motivi” di cui all’art. 420, 1° comma, c.p.c., nel ricorso depositato anche ex art. 414 c.p.c., il (A) non ha chiesto il risarcimento del danno alla professionalità (anche se nel corpo dell’atto la questione viene trattata).

Nelle conclusioni del ricorso non è contenuta la richiesta della somma di € 200.000,00 a titolo di danno alla professionalità che compare invece nelle conclusioni “aggiunte” delle note autorizzate.

In ogni caso detta domanda non avrebbe potuto essere accolta.

Si è detto che l’orientamento giurisprudenziale prevalente riteneva che il lavoratore non dovesse fornire una rigorosa prova del danno alla professionalità subito; la prova poteva infatti essere fornita anche a mezzo di presunzioni relative alla natura, all'entità, alla durata del demansionamento e alle circostanze del caso concreto" (Cass. 13.5.04, n. 9129).

Si era affermato così che dalla illegittima attribuzione ad un lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle assegnategli al momento dell'assunzione può derivare non solo la violazione dell'art. 2103 c.c., ma anche la violazione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli art. 2 e 3 Cost., da cui deriva il diritto dell'interessato al risarcimento del danno patrimoniale conseguente al pregiudizio risentito nella vita professionale e di relazione, e la cui quantificazione può avvenire in via equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c.c., anche in mancanza di uno specifico elemento di prova da parte del danneggiato, in quanto la liquidazione può essere operata in base all'apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi alla natura, all'entità e alla durata del demansionamento, nonché alle altre circostanze del caso concreto (Cass. 27.8.03, n. 12553; Cass. n. 16792  del  8/11/2003; Cass. n 10157/2004).

In altre parole il danno alla professionalità e alla personalità morale poteva essere accertato anche con presunzioni semplici, non essendo richiesti particolari accertamenti se non l’uso di nozioni di comune esperienza (Cass. n. 20240 del 13 ottobre 2004).

Questo orientamento è stato superato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte che con la sentenza n. 6572 del 24.3.2006 hanno affermato che il danno alla professionalità può essere riconosciuto solo in presenza di una effettiva prova del concreto danno subito dal  lavoratore.

Secondo la Corte :”il danno professionale, che ha contenuto patrimoniale, può verificarsi in diversa guisa, potendo consistere sia nel pregiudizio derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, ovvero nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno. Ma questo pregiudizio non può essere riconosciuto, in concreto, se non in presenza di adeguata allegazione, ad esempio deducendo l’esercizio di una attività (di qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all’esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo. Nella stessa logica anche della perdita di chance, ovvero delle ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno, va data prova in concreto, indicando, nella specifica fattispecie, quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività. In mancanza di detti elementi, da allegare necessariamente ad opera dell’interessato, sarebbe difficile individuare un danno alla professionalità, perché – fermo l’inadempimento – l’interesse del lavoratore può ben esaurirsi, senza effetti pregiudizievoli, nella corresponsione del trattamento retributivo quale controprestazione dell’impegno assunto di svolgere l’attività che gli viene richiesta dal datore…”.

In altre parole il lavoratore deve fornire la rigorosa prova del danno, allegando ad esempio di avere perduto specifiche chances lavorative e questa prova manca del tutto nel caso di specie.

Il solo fatto dell’inadempimento datoriale, anche grave, e la lesione della personalità morale del lavoratore non consentono quindi di procedere alla liquidazione in via equitativa del danno alla professionalità, considerando oltretutto che non si è in presenza di una inattività totale, ma di uno svuotamento di mansioni (il ricorrente svolge di fatto le stesse attività che svolgeva prima di conseguire il livello C3).

Occorre aggiungere che in questa sede possono essere presi in considerazione i soli fatti anteriori al deposito del ricorso (e quindi al 31.10.2005).

In conclusione la domanda di risarcimento del danno alla professionalità, non proposta tempestivamente in ricorso, è inammissibile.

Per le ragioni già esposte detta domanda non avrebbe comunque potuto essere accolta.

Il lavoratore non rimane privo di tutela, avendo diritto al risarcimento del danno morale e potendo dimostrare che la condotta datoriale gli ha cagionato anche un danno biologico alla salute, nonché l’eventuale danno esistenziale.  

 

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Perciò che concerne il danno alla salute il lavoratore deve provare in modo specifico il danno subito e il nesso causale con la condotta datoriale (Cass. Sez. Un. n. 6572 del 24.3.2006).

In altre parole la responsabilità richiede, oltre all'elemento della colpa (cfr. Cass. 8 luglio 1992, n. 8325),  ossia la violazione di una disposizione di legge o di contratto, la prova, di cui è onerato il lavoratore stesso, della compromissione dell'integrità psicofisica.

La Suprema Corte (v. Cass. 18 aprile 1996, n. 3686) ha infatti più volte affermato  che  -  ove,  in  relazione ad un comportamento illegittimo del datore di lavoro, il prestatore di lavoro ne chieda la condanna al risarcimento del danno biologico - è necessario che lo stesso fornisca la prova della sussistenza in concreto di tale danno, inteso quale menomazione dell'integrità psicofisica  della persona.

Infatti, dopo le sentenze della Corte Costituzionale nn. 87, 356 e 485 del 1991, la tematica  del c.d.  “danno biologico" ha subito un notevole sviluppo: in particolare si è rilevato che il danno alla complessiva integrità psico-fisica ha natura contrattuale con la conseguenza che è il datore di lavoro a dovere dimostrare, ex art 2087 c.c., di avere adottato tutti gli accorgimenti necessari ad evitare l'evento lesivo.

Ne consegue che il lavoratore deve solo dimostrare il danno e il rapporto di causalità rispetto all'attività di lavoro espletata non rilevando la mancata specifica indicazione in ricorso dei criteri di liquidazione del pregiudizio in una materia in cui è lecito il ricorso a criteri equitativi (Cass. 5380/94).

Nel presente  giudizio la  pretesa è stata estesa appunto al  risarcimento del c.d. "danno biologico", avendo il ricorrente dedotto la violazione dello specifico obbligo di protezione dell'integrità psico-fisica dei dipendenti sancito dall'art. 2087 c.c., fonte di responsabilità contrattuale (Cass., 21.12.1998, n. 12763; Cass., 5.2.2000, n. 1307).

La natura della responsabilità datoriale invocata non comporta certo che essa si esaurisca, in senso oggettivo, sul mero riscontro del  danno biologico quale evento legato con nesso di causalità all'espletamento della prestazione lavorativa, presupponendo essa pur sempre l'elemento della colpa ossia la violazione di una disposizione di  legge o di contratto o di una regola di esperienza.

La necessità della colpa - che accomuna la responsabilità contrattuale a quella aquiliana  -  va poi coordinata con il particolare regime  probatorio della  responsabilità contrattuale che è quello previsto  dall'art. 1218  cod. civ. (diverso da quello di cui all'art. 2043  cod.  civ.) sicché, mentre grava sul datore di lavoro l'onere di provare di aver ottemperato  all'obbligo  di  protezione  in  argomento,  spetta  al lavoratore  l'onere - logicamente anteriore  -  di  provare sia la lesione all'integrità psico-fisica, sia il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l'espletamento della prestazione lavorativa.

Quindi non è possibile addossare all'imprenditore rischi imprevedibili e indeterminabili, del  tutto indipendenti dalle esigenze della prestazione di lavoro e delle attività ad essa  connesse, e addirittura quelli che lo stesso lavoratore ha accettato di correre con scelte personali. 

In altri termini, danno risarcibile da parte del datore di lavoro è ogni lesione psico-fisica subita dal lavoratore sempreché verificatosi in una situazione di rischio in cui il lavoratore si trova in esecuzione degli obblighi a suo carico derivanti dal contratto di lavoro. Ne resta escluso ogni evento dannoso verificatosi in danno del lavoratore per cause estranee all'attività lavorativa, e non riferibili all'area dei c.d."rischio di impresa" in cui lo stesso lavoratore abbia intrapreso, senza alcuna disposizione da  parte del datore di lavoro, una iniziativa non giustificata dalla necessità di eseguire le proprie mansioni, né  da  esigenze  di soccorso o di salvataggio nei confronti di persone o di impianti aziendali,  affrontando,  per  di  più,  una  ben  percepibile, e certamente evitabile, situazione di pericolo.

La Suprema Corte (v. Cass. n. 4231 del 28/4/99) ha più volte ribadito che il danno biologico è contenuto necessariamente nella lesione dell’integrità psico-fisica e non richiede quindi alcuna prova ulteriore.

La Corte ha anche affermato (Cass. n. 1307/2000) che “in ottemperanza al precetto costituzionale di cui all’art. 41 secondo comma Costituzione, il datore di lavoro non può esimersi dall’adottare tutte le misure necessarie, compreso l’adeguamento dell’organico,volte ad assicurare livelli compensativi di produttività senza tuttavia compromettere l’integrità psicofisica dei lavoratori soggetti al suo potere organizzativo di dimensionamento delle strutture aziendali …”.

Anche lo stress da lavoro può essere considerato malattia professionale e la dipendenza da altri fattori non esclude il nesso causale (Cass. n. 1205 del 29/1/2001).

Se questi sono i principi, e se è stata provata la condotta illecita e quantomeno colposa della convenuta, si deve rilevare che la domanda di risarcimento del danno biologico non è stata nemmeno contestata dal Ministero; dagli atti risulta comunque la prova del danno biologico, e del c.d. “nesso causale”.

Il (A) ha prodotto una copiosa documentazione medica, non solo numerosi certificati, ma anche una relazione medica psichiatrica del dott. (…) (doc. 20), che attesta un danno biologico del 12% per grave depressione reattiva e ipertensione arteriosa,  nemmeno contestata e semplicemente ignorata dal convenuto che provano non solo l’esistenza dello stato di malattia ma anche il fatto che si tratta di patologie che devono essere ricollegate causalmente alla dequalificazione subita sul lavoro dal (A).

Le esposte considerazioni, e l’assenza di una specifica contestazione relativamente al contenuto della documentazione medica prodotta, rendono superflua la richiesta di disporre una ctu medica relativamente ad un disturbo depressivo maggiore di chiara origine professionale (in tutto o in parte).

Si è già detto che a fronte di una provata condotta illecita e vessatoria (non importa se integrante anche l’ipotesi del mobbing) la convenuta non ha provato di avere adottato le cautele e gli accorgimenti necessari a evitare il danno ex art. 2087 cod. civ.

Si è anche rilevato che l’eventuale concorso di colpa del (A) non potrebbe a sua volta escludere la responsabilità dell’amministrazione.

Dalla documentazione in atti emerge senza ombra di dubbio che la sindrome di depressione reattiva da cui il ricorrente è affetto è riconducibile all’attività lavorativa svolta dallo stesso ricorrente alle dipendenze del Ministero ed in particolare alla grave dequalificazione professionale di cui lo stesso è stato vittima e che prosegue da quasi 4 anni.

Giova ricordare inoltre, pur in assenza di specifiche contestazioni, che il danno biologico deve essere integralmente risarcito anche rispetto ad un soggetto “fisicamente predisposto alla malattia”(vedi Cass. n. 5539 del 9/4/2003).

Quindi è di per sé irrilevante, ed è comunque smentito dalla documentazione medica prodotta, la circostanza che il ricorrente già in precedenza potesse avere manifestato sintomi della stessa malattia.

Per ciò che concerne la liquidazione del danno, secondo un principio ormai consolidato nella giurisprudenza della Suprema Corte, il giudice deve procedere a due distinte liquidazioni per il danno biologico e quello patrimoniale (Cass. n. 4231/99), con la possibilità di scegliere il criterio di liquidazione ritenuto più idoneo alla luce delle circostanze, compreso quello  equitativo, escluso ogni astratto “automatismo”(Cass. n. 11892/98) .

Peraltro, mentre il danno biologico è contenuto necessariamente nella lesione dell’integrità psico fisica, il danno patrimoniale deve essere provato e questa prova si ha soltanto nell’ipotesi in cui sia dimostrato che il danneggiato, per effetto della lesione all’integrità psico-fisica “subirà una perdita della sua capacità futura di guadagno” (Cass. n. 4231/99; Cass. n. 15622 del 20/10/2003 e numerose altre).

In caso di illecito lesivo dell’integrità psicofisica della persona, la riduzione della capacità lavorativa generica, quale potenziale attitudine all’attività lavorativa da parte di un soggetto che non svolge attività produttive di reddito, né è in procinto presumibilmente di svolgerla, è risarcibile quale danno biologico, che ricomprende tutti gli effetti negativi del fatto lesivo che incidono sul bene della salute in sé considerato. Qualora, invece, a detta riduzione della capacità lavorativa generica si associ una riduzione della capacità lavorativa specifica che, a sua volta, dia luogo ad una riduzione della capacità di guadagno, detta diminuzione della produzione di reddito integra un danno patrimoniale. Ne consegue che non può farsi discendere in modo automatico dall’invalidità permanente la presunzione del danno da lucro cessante, derivando esso solo da quella invalidità che abbia prodotto una riduzione della capacità lavorativa specifica. Tale danno patrimoniale deve essere accertato in concreto attraverso la dimostrazione che il soggetto leso svolgesse – o presumibilmente in futuro avrebbe svolto – un’attività lavorativa produttiva di reddito, ed inoltre attraverso la prova della mancanza di persistenza, dopo l’infortunio, di una capacità di attendere ad altri lavori, confacenti alle attitudini e condizioni personali ed ambientali dell’infortunato, ed altrimenti idonei alla produzione di altre fonti di reddito, in luogo di quelle perse o ridotte. La prova del danno grava sul soggetto che chiede il risarcimento, e può essere anche presuntiva, purché sia certa la riduzione della capacità lavorativa (Cassazione Sezione Terza Civile  n. 20321 del 20 ottobre 2005).

Per la quantificazione del risarcimento del danno biologico subito dal lavoratore per mancato rispetto, da parte dell’impresa, degli obblighi di tutela previsti dall’art. 2087 cod. civ. non è obbligatorio fare ricorso alle tabelle in uso presso alcuni uffici giudiziari.

Come è stato affermato dalla Suprema Corte (per tutte Cass. Sez. Lav. n. 14645 del 1/10/2003) la liquidazione del danno biologico è necessariamente equitativa; è tuttavia necessario tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto e, specificamente, della particolare lesione dell’organismo e del grado di menomazione dell’integrità fisio-psichica, della gravità della lesione, degli eventuali postumi permanenti, dell’età e delle condizioni sociali e familiari del danneggiato; è poi necessario analizzare il danno biologico nei distinti momenti, dell’inabilità temporanea e dell’invalidità permanente, differenziandolo dal danno patrimoniale e dal danno morale. In questa valutazione, il giudice di merito può anche ispirarsi a criteri predeterminati e standardizzati, come le tabelle elaborate da alcuni uffici giudiziari, che assumono a parametro il valore medio del punto di invalidità, calcolato sulla media dei precedenti giudiziari; poiché le tabelle non rientrano nelle nozioni di fatto di comune esperienza di cui all’art. 115 cod. proc. civ., né sono canonizzate in norme di diritto, il giudice deve tuttavia dare congrua motivazione in ordine all’adeguamento del valore medio alla peculiarità del caso concreto. E pertanto queste tabelle, che forniscono solo il valore medio riconosciuto nei precedenti giudiziari, non solo non sono un parametro obbligatorio, bensì, avendo natura astratta e predeterminata, esigono effettivamente un supplemento di motivazione, sull’adeguamento del valore al caso concreto.

Inoltre il danno biologico temporaneo può essere liquidato insieme a quello permanente, non esistendo alcuna norma che imponga di differenziare le relative voci (Cassazione Sezione Lavoro n. 6586 del 29 marzo 2005).

Anche a prescindere dall’omessa specifica contestazione delle risultanze della documentazione medica prodotta dal (A) (Cass. S.U. n.761/2002; Cass. n. 1562/2003; Cass. n. 8202/2005) proprio il fatto che non è obbligatorio ricorrere al criterio di liquidazione tabellare esclude la necessità di una ctu al solo fine di quantificare i postumi di una patologia di chiara origine professionale.

Se la percentuale di invalidità permanente è stata valutata dal dott. (…) senza contestazione alcuna da parte del convenuto nella misura del 12 % del danno biologico appare comunque corretto il calcolo effettuato dal difensore del (A) che, in relazione alla fascia di età (58 anni) e alle tabelle di liquidazione del danno biologico ha determinato l’ammontare del danno nella somma di € 17.289,00.

Non risultano invece, e non sono state dedotte, conseguenze sulla capacità lavorativa specifica del (A).

Detta somma deve ritenersi comprensiva anche della inabilità temporanea assoluta (Cass. n. 6586/2005).

 

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Merita accoglimento poi la domanda relativa al danno morale alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 233/2003, secondo la quale il danno morale è risarcibile anche in assenza di reato, in presenza della lesione di interessi costituzionalmente garantiti, qualora la colpa dell’autore derivi, come nel caso di specie, da una presunzione di legge.

Per ciò che concerne la quantificazione del danno, da effettuarsi necessariamente in via equitativa, si ritiene di determinare l’ammontare, tenendo conto dell’entità delle sofferenze, del dolore patito e della lesione della dignità della persona (Cass. n. 10995/03) in una percentuale pari a circa la metà del danno biologico (euro  8.500,00).

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Un discorso a parte merita la domanda inerente il “danno esistenziale”.

Inizialmente la sezione lavoro della Suprema Corte, facendo applicazione di principi già affermati in materia di diritto di famiglia (vedi in particolare Cass. n. 7713/2000 in tema di mancanza dei mezzi di sussistenza che ha riconosciuto il diritto del figlio naturale al risarcimento danni nei confronti del proprio genitore) aveva affermato che anche le inadempienze del datore di lavoro possono produrre, oltre ad un danno non patrimoniale alla salute, anche un pregiudizio alla “dimensione esistenziale”.

Peraltro detto pregiudizio, non essendo automatico, doveva essere comunque provato dal lavoratore anche con presunzioni (così Cass. n. 9009 del 3/7/2001).

La Corte si riferiva in particolare a quelle inadempienze (ad es. quella retributiva) idonee a pregiudicare le attività realizzatrici della persona umana e cioè agli impedimenti alla serenità familiare, al godimento di una situazione salubre e di una situazione di benessere, al sereno svolgimento della propria attività lavorativa ecc…

Si tratta di beni che godono anch’essi di una specifica tutela costituzionale (in particolare gli artt. 2 e 29) e che concernono il libero dispiegarsi della persona umana nell’ambito della famiglia o di altre comunità.

Il relativo pregiudizio doveva essere liquidato in via equitativa tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto (compreso il comportamento dello stesso lavoratore).

Peraltro, come si è visto, il danno doveva secondo la Corte essere provato nei suoi caratteri naturalistici (e quindi era necessario dedurre e provare la concreta incidenza su di una consueta attività, pur non reddituale, ma non era sufficiente l’esistenza di un patema d’animo interiore).

Modificando in parte il proprio precedente orientamento la Corte ha invece successivamente affermato che il danno da dequalificazione lede il diritto all’identità personale e alla dignità tutelato dall’art. 2 Costituzione e produce un danno non patrimoniale che deve comunque essere liquidato dal giudice in via equitativa (Cass. n. 7980 del 27/4/2004).

Nella sentenza si legge quanto segue: “Sul piano generale, deve rilevarsi che danno patrimoniale e danno non patrimoniale furono disciplinati dal legislatore del 1942 rispettivamente agli artt. 2043 e 2059 c.c., norma, quest’ultima, che limitò il risarcimento ai soli “casi determinati dalla legge”: lettera della legge che ha indotto la Corte territoriale a negare nella specie il chiesto risarcimento. Il quadro normativo è, però, successivamente e profondamente mutato: l’art. 2 della Costituzione, di ispirazione democratica e liberale, riconosce e garantisce infatti i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, mentre diverse norme ordinarie (ad esempio l’art. 2 legge n. 89 del 2001 sul mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo) assicurano il risarcimento del danno non patrimoniale oltre la previsione degli artt. 185 c.p. e 89 c.p.c., il cui il citato art. 2059 si riferisce. Sono queste – unitamente agli interventi della Corte costituzionale, ad esempio in materia di danno biologico – le ragioni per le quali di recente (sentenza n. 8828 del 2003) questa stessa Corte ha affermato, interpretando l’art. 2059 c.c. in senso conforme alle norme costituzionali, ad esso sovraordinate, che il danno non patrimoniale, che detta disposizione contempla, comprende, oltre al danno morale soggettivo, anche ogni ipotesi in cui si verifichi un’ingiusta lesione di un valore inerente alla persona, costituzionalmente garantito, dalla quale derivino effetti dannosi insuscettibili di valutazione economica, senza che sia necessario che tale lesione configuri reato. Tali affermazioni devono essere condivise. Come questa C.S. ebbe a rilevare (sent. n. 3563 del 1996), peraltro in tema di danno biologico, esso è immanente al fatto illecito lesivo dell’integrità biopsichica del danneggiato, a differenza delle conseguenze patrimoniali derivanti dalla stessa lesione, trascendenti lo stesso fatto. Tali rilievi devono essere estesi dalla tutela del diritto alla salute alla lesione di ogni altro valore inerente alla persona, costituzionalmente garantito, e comportano pertanto il risarcimento del danno relativo, indipendentemente dai riflessi patrimoniali della stessa lesione,  che costituiscono una voce di danno eventuale, autonoma e aggiuntiva”….

E’ altrettanto noto che le Sezioni Unite della Suprema Corte con la recentissima e già ricordata sentenza n. 6572 del 24.3.2003, risolvendo il contrasto di giurisprudenza, hanno affermato che il danno esistenziale deve essere provato e più precisamente che “il danno esistenziale può invece essere verificato mediante la prova testimoniale, documentale o presuntiva, che dimostri nel processo “i concreti” cambiamenti che l’illecito ha apportato, in senso peggiorativo, nella qualità di vita del danneggiato. Ed infatti – se è vero che la stessa categoria del “danno esistenziale” si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, del pregiudizio esistenziale: non meri dolori e sofferenze, ma scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso – all’onere probatorio può assolversi attraverso tutti i mezzi che l’ordinamento processuale pone a disposizione: dal deposito di documentazione alla prova testimoniale su tali circostanze di congiunti e colleghi di lavoro”.

Va allora detto che il (A) non ha fornito la prova dell’esistenza in concreto di questo pregiudizio.

Infatti il ricorso si limita ad affermare in modo apodittico che vi sarebbero stati cambiamenti in senso peggiorativo della qualità di vita del (A), consistiti in veri e propri sconvolgimenti che non vengono però in alcun modo specificati, al di là della generica allegazione inerente la rarefazione della frequentazione di non meglio precisati amici e parenti.

Il (A) non ha neanche realmente dedotto, e tantomeno provato, che la vicenda ha effettivamente cambiato in senso peggiorativo la sua vita, costringendolo a fare delle scelte diverse da quelle che, in assenza delle vessazioni subite, avrebbe potuto fare.

 

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In conclusione il ricorso merita in questi limiti accoglimento.

Il convenuto deve essere condannato ad adibire il (A) alle mansioni proprie del suo livello di inquadramento e al risarcimento danni nella misura già determinata, con gli interessi di legge.

Inoltre le sanzioni disciplinari devono essere annullate e l’amministrazione deve essere condannata a restituire al (A) le somme illegittimamente trattenute in relazione alla seconda  e alla terza contestazione.

Per ciò che concerne la “reintegrazione” si deve ribadire che il giudice ordinario può e deve, in caso di dequalificazione e di accertata destinazione a mansioni inferiori, ordinare al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore in mansioni corrispondenti al suo livello di inquadramento e al bagaglio di professionalità acquisito, ciò che costituisce una vera e propria condanna ad un “facere” (così tra le altre Cass. n. 11727/99 e  n. 11479/99).

La Cassazione, con la recente sentenza n. 425/2006, ha ritenuto corretta anche l’utilizzazione in questo caso da parte del giudice del termine “reintegrazione”.

La Suprema Corte ha rilevato che in passato la sua giurisprudenza aveva dubitato circa la legittimità, in caso di dequalificazione del lavoratore dipendente, di una sentenza di condanna del datore di lavoro ad adibire il lavoratore alle mansioni in precedenza assegnate, soprattutto in considerazione del carattere eccezionale del provvedimento di reintegrazione, consentito nei soli casi previsti dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970. Le pronunce emanate in epoca successiva – ha peraltro ricordato la Corte – hanno osservato che, anche a voler ritenere che il c.d. ordine di reintegrazione nelle specifiche mansioni esercitate prima della illegittima destinazione ad altro incarico non sia suscettibile di esecuzione forzata, è tuttavia consentita l’emanazione dell’ordine in questione da parte del giudice, restando inteso che il datore di lavoro può ottemperarvi anche assegnando il dipendente a mansioni diverse e caratterizzate soltanto dal requisito della equivalenza alle precedenti con la conseguenza che la condotta del datore è sanzionabile, oltre che mediante la condanna del medesimo al risarcimento del danno, anche con l’ordine di reintegrazione del lavoratore nel precedente incarico o in altro avente identico contenuto.

Se si riconosce che la violazione della norma imperativa di cui all’art. 2103 cit. implica la nullità del provvedimento datoriale – ha osservato la Corte – si deve parimenti ammettere la possibilità che al lavoratore sia accordata una tutela piena, mediante l’automatico ripristino della precedente situazione, fatto salvo, ovviamente, il c.d. jus variandi del datore di lavoro; tale situazione non ha nulla a che vedere con quella prevista dall’art. 18 della L. 300/70, il cui richiamo costituisce un falso problema. L’ordinamento vigente – ha affermato la Corte – privilegia la tutela satisfattoria dell’interesse leso; alla sua realizzazione è preordinata la pronuncia di condanna del datore all’adempimento in forma specifica (nella specie, la riassegnazione delle mansioni precedentemente svolte o di quelle equivalenti); tutela che è anch’essa “reale”, al pari di quella prevista dall’art. 18 cit., in quanto comporta la persistenza del rapporto illegittimamente modificato del datore, ma appartiene alla sfera del “diritto comune”, non essendo assimilabile al regime “speciale” previsto per il licenziamento ritenuto illegittimo.

Le spese, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

 

Roma 4.4.2006 (data di redazione, non di deposito)

Il GIUDICE

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