Demansionamento quantitativo, non mobbing!

Tribunale di Torino (sezione lavoro, giudice unico di 1° grado) 18 dicembre 2002 – Giud. Rita Sanlorenzo – Daniela c. ALFA SpA

Insussistenza di mobbing – Solo demansionamento quantitativo –  Danno alla professionalità -  E' in “re ipsa”-  Risarcimento - Spettanza e quantificazione tenuto conto della presenza in azienda.

Se dunque mobbing è un processo, o forse meglio un progresso, di violenza da una parte e di sofferenza dall’altra, bisognerà saper leggere tutta la vicenda nel suo insieme, ed in essa collocare anche comportamenti formalmente legittimi, da un punto di vista oggettivo, i quali  però assumono un significato diverso perché “tappe” di una strategia prefigurata. Il mobbing può realizzarsi, come sottolinea la dottrina, anche “attraverso un provvedimento imprenditoriale formalmente giustificato, un atto di amministrazione del rapporto di lavoro conforme allo schema legislativo, un atteggiamento normalmente tollerato nelle relazioni interpersonali che potrebbero nondimeno collocati in un programma di  persecuzione e di molestia psicologica (...). La figura del danno da mobbing costituisce invece una sicura ed innovativa acquisizione in termini di tutela quando non siano accertabili atti o provvedimenti del datore di lavoro  provvisti di efficacia negoziale, che il giudice possa individuare o rimuovere.”
E un ultimo cenno sia consentito di fare al punto delle condizioni soggettive della vittima, al fine di escluderne qualsiasi rilevanza ai fini del riconoscimento del  diritto al risarcimento del danno patito.
A suoi  eventuali stati individuali di particolare fragilità e sensibilità emotiva, ed a sue precedenti sofferenze, per alterazioni fisiche o psichiche,  non potrà mai farsi riferimento al momento di valutare la responsabilità del datore di lavoro per comportamenti rivelatisi idonei a ledere l’integrità psichica, ovvero altri beni insopprimibili costituzionalmente garantiti, quali la dignità personale. Non troverà dunque applicazione la nozione di “violenza” dettata dal codice quale presupposto per l’annullamento dei contratti, previsto dagli artt. 1434 e 1435 c.c., per cui questa deve essere di natura tale da fare impressione su di una persona sensata e da farle temere di esporre sé o i suoi beni ad un male ingiusto e notevole, avuto riguardo all’età, al sesso ed alla condizione della vittima. Orbene, procedendo all’esame di quelle che sono state le risultanze istruttorie, va detto che il quadro complessivo non consente di affermare la sussistenza di una situazione di mobbing nei confronti della lavoratrice: mobbing che, nelle prospettazioni iniziali, si presenta sia nella forma verticale, sia in quella orizzontale, secondo le accezioni che si sono sopra specificate, e che avrebbe trovato origine e motivo nell’avvenuta assunzione obbligatoria della signora Daniela, e poi  della sua reintegra ad opera del giudice, a seguito del licenziamento per mancato superamento del periodo di prova, ritenuto nullo posto che il patto relativo era stato fatto sottoscrivere alla lavoratrice qualche giorno dopo l’inizio del rapporto.
Deduce la signora Daniela di avere subito a partire dal febbraio 2000, un vistoso demansionamento, essenzialmente da un punto di vista quantitativo, per esserle stata sottratta buona parte dei compiti lavorativi sin lì svolti.
Non ha dubbio questo giudice che l’art. 2103 c.c.  vieti anche la sottrazione delle mansioni da un punto di vista quantitativo (Cass., n.10405/1995); così come non ha dubbi quanto al fatto che il divieto di demansionamento operi oggettivamente, indipendentemente dalla sussistenza di un qualche animus nocendi  in capo al datore di lavoro. La convenuta deve pertanto essere condannata a reintegrare la ricorrente nelle mansioni, considerate da un punto di vista meramente quantitativo, svolte sino al febbraio 2000: d’altronde, non sono apparsi  insuperabili da un punto di vista organizzativo i problemi che comporterebbero le frequenti assenze dal lavoro per malattia della signora Daniela.
Nella liquidazione del danno, vanno però tenuti in conto alcuni elementi: se pure il danno da demansionamento  sussiste in re ipsa, perché in ogni caso, al di là di prove specifiche relative alla perdita di chances di carriera, consiste in una lesione all’immagine professionale del lavoratore, e quindi a beni immateriali quali la sua dignità e la sua personalità morale, va detto che la sua quantificazione non può andare disgiunta dalla considerazione dell’effettiva presenza sul luogo di lavoro.
Orbene, i prospetti prodotti dalla convenuta, mai contestati, evidenziano un numero di assenze dal lavoro della signora Daniela, soprattutto per il periodo successivo al febbraio 2000, assolutamente ingente: è evidente che non può lamentare danno da demansionamento chi le proprie mansioni non le sta svolgendo.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato il 14.9.2001, la signora Daniela evocava in giudizio la S.p.a. Alfa, alle cui dipendenze lavorava sin dal 1995, al fine di sentirla condannare ad inquadrarla nella qualifica contrattuale C1  ovvero in subordine in quella C2, ai sensi e per gli effetti del CCNL Industria Gomma e Plastica a far data dal 2.9.1999 o da altra data da accertarsi in corso di giudizio; al fine quindi di sentir condannare la convenuta a pagare in suo favore le differenze retributive oltre rivalutazione monetaria ed interessi, e ad assegnarla a mansioni omogenee all’inquadramento ed alla professionalità acquisiti, oltre alla condanna al risarcimento del danno da dequalificazione professionale, nella misura pari a tante mensilità di retribuzione, quanti erano i mesi per i quali la dequalificazione, iniziata il 1° febbraio 2000, si era protratta, ovvero in misura da liquidarsi secondo equità.
Chiedeva inoltre che la convenuta venisse condannata a risarcire in suo favore i danni tutti conseguiti a seguito del mobbing  dedotto in giudizio, in somma complessivamente pari a £ 267.215.600, o ad altra, da liquidarsi secondo equità, oltre rivalutazione monetaria ed interessi dal sorgere dei crediti e sino al saldo.
Esponeva di essere stata assunta dalla convenuta in data 2.11.1995, a seguito di avviamento obbligatorio ai sensi della L. n.482/1960 e inquadrata nel livello F1; di essere stata licenziata in data 29.12.1995 per assunto mancato superamento della prova; di avere accertato il giudice adito in sede cautelare la nullità del patto di prova, con conseguente ordine di sua immediata reintegrazione nel posto di lavoro; di essersi conclusa la successiva causa di merito con una conciliazione, con la quale la convenuta dava atto di avere reintegrato la ricorrente a tutti gli effetti di legge nel posto di lavoro; di essere stata addetta, sin dall’inizio del rapporto di lavoro, al reparto logistica presso quello che in allora era l’unico stabilimento della convenuta, sito in Avigliana, viale …; di essere costituito all’epoca l’ufficio logistica, oltre che dalla ricorrente, dal coordinatore signor …, e da altro impiegato, signor …; di consistere i suoi compiti nella registrazione dei dati relativi alla ricezione dei materiali, previo controllo dei medesimi e sottoscrizione delle bolle di accompagnamento, nell’inserimento dei dati relativi al materiale restituito, nella predisposizione di buoni di prelievo, ossia relativi alla merce prelevata dal magazzino per ragioni di produzione; di avere ella collaborato anche con il collega … nella registrazione dei quantitativi di semilavorati affidati per le lavorazioni “conto terzi”; di avere ella incominciato a percepire il clima ostile creatosi nell’ambiente di lavoro creatosi a causa dell’obbligo di reintegrazione imposto giudizialmente all’azienda; di averle rivolto più volte il direttore generale dott. …., alla presenza di tutti i dipendenti, l’invito a trovarsi un altro lavoro perché avrebbe trovato sicuramente  un’occasione per licenziarla; di essersi attuata la volontà discriminatoria dei vertici aziendali anche attraverso il superiore gerarchico il quale esercitava un controllo pignolo su ogni sua attività, le negava permessi che ad altri suoi colleghi concedeva con più facilità, la escludeva dalla distribuzione dei doni di Natale “perchè non li meritava”; di esserle stato concesso nel settembre / ottobre 1996 un permesso retribuito per cure termali, venendole poi trattenuta però la retribuzione; di essere diffusa in azienda la voce secondo la quale ella sarebbe stato un peso morto, un’assenteista con la quale era meglio non avere relazioni; di essere peggiorato nel periodo fra il marzo 1996 e l’aprile 1998 il suo stato di salute, già segnato dal diabete con insulino – dipendenza, a causa dell’atteggiamento ostile dei superiori; di incidere fortemente sulle sue condizioni lo stress, le emozioni e le preoccupazioni, e di essere causa di nuovi disturbi, quali retinopatie e nefropatie; di essersi sottoposta alle cure del neurologo il quale le aveva prescritto psicofarmaci; di essere contestualmente peggiorato il suo stato psicologico, essendo lei ormai ossessionata dall’ambiente di lavoro; di avere trovato all’epoca appesi alla parete del proprio ufficio moniti consistenti in articoli di giornale nei quali si evocavano vicende di lavoratori inattivi colpiti dal licenziamento; di avere ella pertanto presentato un esposto alla Procura della Repubblica di Torino, con il quale lamentava le angherie patite sul lavoro; di avere improvvisamente mutato atteggiamento nei suoi confronti nell’aprile del 1998 il suo superiore gerarchico signor …., dimostrandosi improvvisamente amichevole e protettivo; di essere sorta tra di loro una relazione sentimentale, alla quale ella decideva di porre fine, e che pertanto diventava ulteriore causa di turbativa nell’ambiente di lavoro, in quanto il …., non avendo accettato la sua decisione, aveva continuato a perseguitarla, con telefonate, messaggi ed altro, peraltro dopo avere sparso la voce in azienda che ella doveva essere isolata perché era “pazza”; di essere diventata operativa nell’ottobre 1999 la nuova unità operativa di via …, ove venivano trasferiti gli uffici direttivi e parte della produzione; di essere stato conseguentemente spaccato in due l’ufficio della logistica; di avere la ricorrente richiesto di rimanere in viale …., gestendo da sola l’intera parte della logistica; di avere richiesto, sulla base delle nuove responsabilità lavorative affidatele, l’inquadramento nel superiore livello C ai sensi del CCNL Gomma e Plastica, richiesta respinta dalla datrice di lavoro, nonostante qualche tempo prima la sua diretta superiore gerarchica, signora …., nel manifestarle la sua soddisfazione per la qualità del lavoro svolto, le avesse promesso che in futuro si sarebbe tenuto conto di tale impegno in termini di riconoscimento economico o di categoria; di  avere ripreso vigore gli atteggiamenti ostili e tracotanti nei suoi confronti, da parte dei suoi colleghi e del direttore dr. …; di esserle state parallelamente sottratte, a partire dal mese di febbraio 2000 in avanti, le mansioni lavorative sin lì svolte, mansioni che in parte venivano devolute alle colleghe … e …, in parte al collega …; di essere limitate le sue mansioni attuali al solo inserimento nel sistema informatico dei dati di prelievo e di versamento del materiale relativo al magazzino di viale …, compiti che richiedevano un suo impegno per non più di un’ora al giorno, rimanendo ella inattiva per il resto della giornata; di essere stata esclusa dalla rete informatica aziendale, per mancata comunicazione della nuova “password”; di avere accusato un aggravamento del proprio stato di salute a cagione della situazione di stress nella quale era costretta ad operare.
Si costituiva la convenuta, chiedendo il rigetto di tutte le domande, contestando analiticamente tutte le circostanza dedotte a proposito di un proprio atteggiamento ostile nei confronti della lavoratrice, tale da integrare mobbing.
Il giudice, esperito vanamente il tentativo di conciliazione, interrogava le parti e sentiva i testimoni. Quindi, in esito alla discussione, ritenutane la necessità, disponeva d’ufficio l’audizione dei testi residui indicati negli atti introduttivi al giudizio, ed a cui le stesse parti avevano rinunciato. Completata l’istruttoria, in esito alla discussione, la causa veniva decisa con la lettura immediata del dispositivo.
MOTIVI DELLA DECISIONE
 
QUANTO ALLA PRETESA VOLTA AD OTTENERE IL SUPERIORE INQUADRAMENTO.
Agisce la ricorrente nei confronti della propria datrice di lavoro, innanzitutto per veder affermato il suo diritto ad un inquadramento professionale superiore a quello attribuitole, corrispondente al livello E/1 ex CCNL Industria Gomma e Plastica.
In ricorso, per vero, si riconosce l’adeguatezza di un tale inquadramento in rapporto alle mansioni svolte dalla ricorrente sino al 1999: la pretesa muove però dalla deduzione relativa all’ipotesi di svolgimento di compiti lavorativi diversi, maggiormente qualificanti, per un periodo superiore ai tre mesi, in occasione dell’avvenuto trasloco delle attività della Alfa presso il nuovo stabilimento di via ….
Sostiene infatti la signora Daniela che in quel periodo ella si sarebbe occupata della gestione della logistica di entrambi gli stabilimenti, essendosi occupata degli arrivi e delle spedizioni di merci di entrambi gli stabilimenti, avendo organizzato lo scarico e il carico di tutte le operazioni sul sistema informatico, avendo tenuto contatti con corrieri, con i fornitori e con i “terzisti”. Inoltre, sempre secondo la prospettazione attorea, la ricorrente in quel periodo avrebbe avuto il compito di tenere aggiornata l’intera contabilità del magazzino, inserendo nel sistema informatico aziendale tutti i dati relativi alle merci in entrata ed in uscita, per la fatturazione, e lavorando a stretto contatto ed in collaborazione con il signor … dell’Ufficio Acquisti, il quale si occupava più strettamente della gestione degli ordini e delle fatture, mentre l’organizzazione della logistica era interamente a lei affidata.
Di qui, deriverebbe il suo diritto a vedersi inquadrata ai sensi del livello C1, prevista per l’assistente di magazzino, ovvero in subordine di quello C2, cui si riferiscono le mansioni di caposquadra di magazzino. Il livello C, ai sensi del CCNL che regola il rapporto, lo si ricorda, spetta ai lavoratori che hanno la responsabilità di attività nell’ambito di pratiche e metodi diversi che, per variabilità ed incertezza dei risultati, comportino scelte conseguenti e/o la responsabilità del coordinamento e controllo  di altri lavoratori di livelli inferiori, con incarichi diversificati nell’ambito della propria area funzionale, ed inoltre operano in condizioni di autonomia decisionale, disimpegnando compiti secondo differenti procedure e metodologie, implicanti scelte di priorità nell’ambito delle norme e pratiche stabilite, ricevendo una verifica del risultato complessivo dell’attività.
A proposito di tale specifico capo di domanda, il giudice deve preliminarmente osservare che la genericità della descrizione dei nuovi compiti lavorativi che la signora Daniela avrebbe svolto a partire dal mese di settembre del 1999, non consente di comprendere sotto quale profilo si dovrebbero ritenere integrati i tratti caratteristici del superiore livello: in effetti, nel corso di tale periodo, la ricorrente avrebbe continuato a svolgere i suoi compiti di registrazione e di tenuta della contabilità, ma senza vedere aumentare né i suoi poteri decisionali né i suoi margini discrezionali, né, soprattutto, il suo grado di responsabilità nei confronti della gestione della logistica.
Oltre a queste evidenti lacune nella stessa prospettazione dei fatti portati a sostegno della pretesa della ricorrente, è doveroso segnalare la totale, assoluta assenza di ogni minimo elemento di prova, a proposito di quelle stesse circostanze su cui veniva basata la richiesta del superiore inquadramento.
Secondo la teste …, nel periodo successivo al settembre 1999, la ricorrente avrebbe continuato ad effettuare la registrazione dei dati contabili relativi a materiale proveniente e destinato alla produzione, compresa la registrazione delle bolle  di accompagnamento delle merci: tali compiti peraltro le spetterebbero ancora, almeno relativamente al magazzino di viale …, dove per sua precisa scelta la ricorrente ha continuato e continua ad operare (quanto alla nuova distribuzione da un punto di vista quantitativo delle mansioni, si dirà oltre).
Il teste … ha smentito poi la ricorrente a proposito del fatto per cui tra loro si sarebbe instaurato un rapporto di stretta collaborazione, proprio nel periodo in questione: i loro contatti, alquanto sporadici, si sarebbero limitati infatti a casi di mancata corrispondenza fra le bolle di consegna e gli ordini di acquisto precedentemente emessi.
Il teste … ha confermato il contenuto dei compiti lavorativi della ricorrente, quali sopra riportati, anche durante il periodo del trasloco.
Il teste …, direttore di stabilimento, ha confermato che durante il trasloco stesso, la signora Daniela aveva continuato a svolgere lo stesso tipo di lavoro, seppure con ritmi discontinui, dovuti proprio al contemporaneo svolgimento del trasferimento del materiale precedentemente immagazzinato in viale ….. Il tutto, comunque, si sarebbe svolto nell’arco di un mese e mezzo circa.
Il teste …, RSU iscritto ai Cobas, ha dichiarato, nel corso di una deposizione sicuramente non ostile alle posizioni della ricorrente, che le mansioni della signora Daniela nel corso del trasloco consistevano nel carico e scarico dei buoni di prelievo e delle bolle, e forse anche nella loro compilazione.
A tutto quanto sopra si aggiunga, se ancora questo può rivestire una qualche rilevanza, che parte attrice non ha in alcun modo provato le promesse, che sarebbero state formulate dall’azienda, ed anzi dalla signora Tren…to in persona, circa un suo avanzamento di carriera, proprio in seguito al periodo del trasloco. L’unico fatto certo, è quello per cui ad un certo punto la signora Daniela ha rivolto le proprie richieste all’azienda e, ottenutone un rifiuto, ha intrapreso una vertenza sindacale, nel corso della quale si è anche tenuto un incontro presso l’Unione Industriale, conclusosi con un verbale di mancato accordo a fronte dell’intransigenza dell’azienda.
La stessa Difesa della ricorrente, in sede di discussione finale, non ha nemmeno ripreso l’originaria domanda formulata con il ricorso, volta ad ottenere il superiore inquadramento e le differenze retributive, evidentemente conscia dell’insussistenza degli elementi a supporto di una pretesa così formulata.
Eppure, il rifiuto dell’azienda a riconoscere in suo favore quello che veniva delineato come un diritto assolutamente evidente era stato inquadrato, come tassello estremamente significativo, nel generale quadro di discriminazione posto in essere dalla Alfa nei suoi confronti da un punto di vista personale e professionale: quando invece l’istruttoria compiuta ha dimostrato la totale infondatezza delle pretese della signora Daniela, pur così fortemente e reiteratamente sostenute, anche in sede sindacale (v. teste …).
L’annotazione non è fine a se stessa, ma deve essere collocata nel generale quadro di argomenti che verranno affrontati nella presente sentenza, a sostegno di una decisione che sostanzialmente smentisce tutti i principali assunti portati avanti con l’azione intentata dalla signora Daniela nei confronti della sua datrice di lavoro.
 
QUANTO ALLA SUSSISTENZA DI CONDOTTE DI MOBBING NEI CONFRONTI DELLA RICORRENTE, ED AL SUO CONSEGUENTE DIRITTO AL RISARCIMENTO DEI DANNI PATITI.
Come si è già riportato, il fulcro centrale della domanda ha per oggetto la messa in atto da parte della convenuta di una serie reiterata e  coerente di atteggiamenti diversi, tutti orientati ad isolare ed emarginare la ricorrente all’interno dell’ambiente di lavoro: in altri termini, a realizzare nei suoi confronti una strategia complessiva, che viene fatta rientrare nella nozione generale di mobbing.
Affrontando il tema da un punto di vista dogmatico, conviene ricordare che la scoperta del fenomeno del mobbing è indubbiamente molto recente: molto recente ma accompagnata da ampia risonanza da parte dei mass media, che del termine hanno fatto un vocabolo ormai di uso comune, utilizzato per indicare fenomeni diversi, collegati comunque al disagio ed all’emarginazione del singolo all’interno dell’ambiente di lavoro.
La prima difficoltà da cui deve muovere l’interprete, in assenza di una fonte normativa che ad oggi regoli la fattispecie, è quella di dare al fenomeno una definizione alla quale poi attenersi nell’accertamento del caso concreto, e quindi nel sanzionare i comportamenti ritenuti lesivi della dignità personale, se non dell’integrità fisica e psichica, del lavoratore.
Nell’affrontare un compito così impegnativo, di certo non possono essere trascurati i contributi in materia forniti dagli studi effettuati nel campo delle dottrine psicologiche e psichiatriche, che per prime si sono dedicate alla definizione del mobbing.
Anche per queste scienze, la scoperta del fenomeno è avvenuta abbastanza di recente. Le prime ricerche e teorizzazioni, da parte di uno studioso, di origine  tedesca ma vissuto lungamente in Svezia, Hans Leymann, risalgono infatti alla metà degli anni ottanta: nel 1996 è stato pubblicato in Italia il primo libro dedicato espressamente all’argomento, libro scritto da Harald Ege, psicologo del lavoro, ricercatore tedesco residente in Italia.
Immediata  fortuna e diffusione ha trovato la definizione che Leymann per primo ha attribuito alla sua “creatura”, ossia quella di “terrore psicologico sul posto di lavoro”; il termine deriva, come è ormai risaputo, dal verbo inglese to mob, che significa “assalire, aggredire, accerchiare qualcuno”, utilizzato in etologia per descrivere i comportamenti del branco volti ad espellere un membro del gruppo.
In Italia, pari notorietà è stata ormai raggiunta dalla elaborazione che rispetto alla medesima nozione è stata fornita da Ege, la cui espressione più recente è pervenuta a descrivere  “il mobbing (come)  una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in constante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono portare anche a invalidità psicofisiche permanenti di vario genere e percentualizzazione”.
In altre sue opere, Ege è arrivato a definire il mobbing come una vera e propria “guerra sul lavoro, in cui, tramite violenza psicologica, fisica e/o morale, una o più vittime vengono costrette ad esaudire la volontà di uno o più aggressori. Questa violenza si esprime attraverso attacchi frequenti e duraturi che hanno lo scopo di danneggiare la salute, i canali di comunicazione, il flusso di informazioni, la reputazione e/o la professionalità delle vittime”. Nello stesso testo, Ege fornisce un altro, preziosissimo contributo, nell’individuare addirittura le categorie in cui suddividere gli attacchi mobbizzanti, in numero di cinque, e relative a:
1.attacchi ai contatti umani (limitazioni alle possibilità di esprimersi, continue interruzioni del discorso, critiche e rimproveri costanti, sguardi e gesti con significato negativo, ecc.);
2.isolamento sistematico (trasferimento della vittima a un luogo di lavoro isolato, comportamenti tendenti ad ignorarla, divieti di parlare o intrattenere rapporti con questa persona, etc.);
3.cambiamenti delle mansioni (revoca di ogni mansione da svolgere, assegnazione di lavori senza senso, nocivi o al di sotto delle capacità della vittima, cambiamenti comuni degli incarichi, etc.);
4.attacchi contro la reputazione (calunnie, pettegolezzi, ridicolizzazione dei difetti o delle caratteristiche della vittima, turpiloquio, valutazione sbagliata o umiliante delle sue prestazioni, ecc.);
5.violenza o minacce di violenza (minacce o atti di violenza fisica o a sfondo sessuale, etc.).
Più attenti al versante rappresentato dalle sofferenze della vittima, e forse meno a quello rappresentato dall’ambiente e dalle dinamiche in cui il fenomeno si sviluppa, in un’ottica più schiettamente terapeutica, altri autori, con formazione peraltro più strettamente medica, individuano il mobbing in quella “situazione di aggressione, di esclusione e di emarginazione di un lavoratore da parte dei suoi colleghi o dei suoi superiori”, in altri termini in una “malattia sociale trasversale”, che si caratterizza per “la continuità delle aggressioni nel tempo, lo stillicidio di eventi persecutori, l’intensificazione progressiva di attacchi che portano la vittima all’isolamento, all’emarginazione, al disagio ed alla malattia”. In particolare, ci si riferisce qui agli studi del Prof. Renato Gilioli, specialista di neurologia e psichiatria presso la Clinica del Lavoro Devoto di Milano, che ha esaminato personalmente la ricorrente e che nei suoi confronti ha emesso un parere medico – legale, prodotto sub doc. n.26 del fascicolo della ricorrente, ampiamente richiamato comunque nel corpo del ricorso, e sul quale occorrerà ritornare.
Generale condivisione, salvo alcune varianti terminologiche che non intaccano la sostanza del fenomeno, trova poi la suddivisione tra il mobbing cd. “verticale”,  quando esso viene attuato da un capo verso i sottoposti, e quando è l’intera azienda che mette in atto una strategia diretta o indiretta per rendere impossibile la vita a un dipendente sgradito in modo da costringerlo a licenziarlo (il fenomeno in questione viene anche denominato, da certi studiosi, come bossing), opposto al mobbing cd. “orizzontale”, che si verifica quando un certo numero di colleghi emarginano qualcuno che, per qualche motivo, il gruppo non vuole. Talvolta, secondo questi studi, questa molestia collettiva orizzontale può essere una dinamica psicologica di branco quasi inconsapevole, diretta a scaricare su un capro espiatorio le tensioni, l’aggressività, le gelosie del lavoro.  
Per sintetizzare, i tratti comuni che vengono identificati relativamente al fenomeno in questione sono la ripetitività nel tempo delle condotte, e la loro riconducibilità ad un identico disegno, quello che ha per oggetto appunto l’esclusione, l’emarginazione del lavoratore (non necessariamente la sua estromissione dall’ambiente di lavoro, che piuttosto caratterizza, come si è detto, il genus più ristretto costituito dal bossing). Soprattutto questo ultimo, pare agli interpreti costituire l’elemento qualificante del fenomeno in questione: quello capace di consentire una ricostruzione unitaria di una serie eterogenea di condotte, sulla base della quale poter approntare una risposta più efficace, a tutela della vittima di tale strategia complessiva.
Se questi sono, in sintesi, gli esiti degli studi svolti nel campo della psicologia e della neuropsichiatria, dal punto di vista della legislazione, va detto che, se numerosi ormai sono i progetti di legge depositati nel corso della precedente e della presente legislatura, al momento essi giacciono senza serie ed immediate prospettive di approvazione.
Posti sin qui i risultati degli studi psico – sociologici, si impone la necessità di andare ad esaminare lo stato contemporaneo dell’elaborazione giurisprudenziale, ovviamente seguita dal costante, e critico, interesse della dottrina.
Come si è già detto, alla improvvisa esplosione di notorietà del fenomeno sui mass – media, non ha certo corrisposto un analogo successo nelle aule giudiziarie.
Alle parti sono ben note le prime due decisioni pubblicate sull’argomento, entrambe emesse nel 1999 dal Tribunale di Torino, (16.11.1999, e 11.12.1999, per entrambe estensore Ciocchetti) che hanno avuto vasta risonanza sulle riviste giuridiche (e non solo).
In entrambe le occasioni, il giudice aveva superato ogni problema definitorio attraverso il ricorso alla nozione di “fatto notorio”, inteso come fatto “acquisito alle conoscenze della collettività in modo da non esigere dimostrazione alcuna in giudizio”, nell’ambito della quale inquadrare il fenomeno del mobbing, e, ritenuta la superfluità di ogni accertamento tecnico di natura medico – psichiatrica per valutare l’esistenza e la sussistenza del danno, era pervenuto a liquidare una somma a titolo di risarcimento del danno, a titolo sia di danno biologico, seppure non con effetti permanenti, sia di quello da demansionamento.
In una decisione, pronunciata in grado di appello, il Tribunale di Milano (sent. 20.5.2000) ha affermato che non è configurabile un danno psichico del lavoratore, del quale il datore di lavoro sia obbligato al risarcimento, conseguente ad una allegata serie di vicende persecutorie lamentate dal lavoratore stesso (c.d. “mobbing”), qualora l’assenza di sistematicità, la scarsità di episodi, il loro oggettivo rapportarsi alla vita di tutti i giorni all’interno di una organizzazione produttiva, che è anche luogo di aggregazione e di contatto (e di scontro) umano, escludano che i comportamenti lamentati possano essere considerati dolosi”.
Altra sentenza del Tribunale di Milano (16.11.2000) richiama gli oneri probatori su cui si regge il processo del lavoro, e esclude la sussistenza del mobbing “qualora non venga offerta rigorosa prova del danno e della relazione causale fra il medesimo ed i pretesi comportamenti persecutori, che tali non possono dirsi qualora siano riferibili alla normale condotta imprenditoriale funzionale all’organizzazione produttiva”.
Molto citata, e variamente commentata, risulta poi la sentenza del Tribunale di Como (22.5.2001), la quale,  richiamati i precedenti sul tema, ed in particolare la prima sentenza del Tribunale di Torino, è pervenuta ad elaborare e ad esplicitare una propria definizione del fenomeno, nei seguenti termini: “Il mobbing aziendale, invece (in contrapposizione alle molestie, ndr.), è l’insieme di atti, ciascuno dei quali è apparentemente inoffensivo. L’elemento psicologico consiste nell’ "animus nocendi" , che mira a ledere la psiche del mobbizzato e ad espellerlo da una comunità. Il mobbing è collettivo, così come la genesi etologica sembra indicare”.
Grande importanza deve poi essere attribuita alla sentenza del Tribunale di Forlì, est. Sorgi, 15 marzo 2001: sentenza che si assume appieno il compito di formulare una definizione del fenomeno, e soprattutto, di identificare le forme di risarcimento del danno più idonee a fronte della fattispecie.
Il Tribunale di Forlì innanzitutto, partendo dalla pacifica constatazione circa l’assenza nel nostro ordinamento di una normativa specifica che fornisca una definizione di mobbing ed appronti gli strumenti repressivi, esprime il convincimento per cui tale fenomeno potrà ricorrere  “solo ed in quanto determinate condotte presentino i requisiti richiesti dalla psicologia del lavoro internazionale (Leymann) e nazionale (Ege)”: in tutti gli  altri casi in cui invece si registra una mera somiglianza, ogni episodio dovrà essere diversamente catalogato e darà diritto a diversi profili di tutela risarcitoria.
Il pericolo, in effetti, è quello che si affermi l’equazione per cui “tutto è mobbing, niente è mobbing”: compito primo della giurisprudenza è dunque quello di evitare dannose generalizzazioni, e di affrontare consapevolmente e responsabilmente quel lavoro definitorio che sin qui il legislatore ha trascurato.
Il Tribunale di Forlì parte appunto dalla condivisione dei caratteri distintivi del mobbing, quali individuati dalla psicologia del lavoro: e fornisce una nozione, in base alla quale per mobbing si deve intendere “quel comportamento, reiterato nel tempo, da parte di una o più persone, colleghi o superiori della vittima, teso a respingere dal contesto lavorativo il soggetto mobbizzato che a causa di tale comportamento in un certo arco di tempo subisce delle conseguenze negative anche in ordine fisico da tale situazione”.
Ma il Giudice non condivide solo la nozione che dalla psicologia del lavoro, dalla più classica in argomento, è stata elaborata: condivide anche quel “modello italiano” di mobbing elaborato da Ege, che arriva a individuare sei fasi diverse in cui si realizza la sua escalation (a fronte delle quattro individuate da Leymann):  “Dopo la cd. condizione zero di conflitto fisiologico normale ed accettato, si passa alla prima fase del conflitto mirato, in cui si individua la vittima e verso di essa si dirige la conflittualità generale ... La seconda fase è il vero e proprio inizio  del mobbing nel quale la vittima prova un senso di disagio e di fastidio ... La terza fase è quella nella quale il mobbizzato comincia a manifestare i primi sintomi psicosomatici, i primi problemi per la sua salute... La quarta fase del mobbing è quella caratterizzata da errori ed abusi dell’amministrazione del personale che, insospettita dalle assenze del soggetto mobbizzato, erra nella valutazione negativa del caso non riuscendo, per carenza di informazione sull’origine della situazione, a capire le ragioni del disagio del dipendente... La quinta fase del mobbing è quella dell’aggravamento delle condizioni di salute psicofisica del mobbizzato che cade in piena depressione ed entra in una situazione di vera e propria prostrazione... Resta la sesta fase, per altro indicata solo e fortunatamente eventuale, nella quale la storia del mobbing ha un epilogo: nei casi più gravi nel suicidio del lavoratore, negli altri nelle dimissioni, o anticipazione di pensionamenti, o in licenziamenti.”
Per individuare i punti salienti della decisione, è evidente innanzitutto che il Tribunale di Forlì condivide appieno i risultati che ci derivano dagli studi degli specialisti psicologi: condivide il tratto della ripetitività e della sistematicità delle condotte, le quali peraltro non sono e non devono essere tipizzate (nel caso di specie, si erano realizzati un trasferimento del lavoratore, un demansionamento, e, accanto a queste evidenti violazioni di specifiche norme a tutela del lavoratore, comportamenti materiali quali la privazione delle chiavi del garage e della possibilità di usufruire del posto macchina).
Condivide poi il Giudice di Forlì un altro carattere importante, ossia la durata del mobbing: la vicenda concreta peraltro si era dipanata per più anni, in cui via via si erano venute a realizzare le varie condotte, unificate, per così dire, dall’esistenza dell’identità dello scopo,  quindi non si poneva nemmeno il problema di un termine minimo, sul quale invece, come si è visto, gli psicologi del lavoro si sono espressi.
Così riassunto il panorama della giurisprudenza sin qui espressasi sul fenomeno, tocca al decidente esprimersi sulla vicenda concreta portata alla sua attenzione: vicenda molto articolata e complessa, almeno nelle deduzioni iniziali, riguardante un lungo arco di tempo (il requisito della durata risulterebbe senz’altro integrato, ove fosse ritenuta raggiunta la prova sulla oggettività dei singoli episodi).
Prima di procedere all’esame degli esiti dell’istruttoria, è bene comunque fissare i caratteri identificativi del fenomeno, quali concordemente individuati nei vari ambiti in cui ci si è occupati del fenomeno: mobbing è una serie ripetuta e coerente di atti e comportamenti materiali che trovano una ratio unificatrice nell’intento di isolare, di emarginare, e fors’anche di espellere, la vittima dall’ambiente di lavoro.
A tale tipo di strategia, occorre approntare una forma di risposta che tenga conto della stratificazione, della evoluzione, della amplificazione delle sofferenze in ragione del tempo passato, del numero e della diversificazione degli attacchi subiti. Sarà più efficace un tipo di risposta che veda l’insieme dei singoli comportamenti discriminatori come un’escalation di violenza, legati da un’unica strategia ben finalizzata e non lasciata agli umori del momento.
Compito dell’interprete sarà quello di ricostruire la vicenda lavorativa ed umana nel suo insieme, e di collocare in essa i vari passaggi, sia che gli stessi si concretizzino in atti di rilevanza negoziale, sia invece che gli stessi rappresentino meri comportamenti materiali, non autonomamente sanzionabili, o non tali da comportare di per sé soli la  reazione dell’ordinamento.
Se dunque mobbing è un processo, o forse meglio un progresso, di violenza da una parte e di sofferenza dall’altra, bisognerà saper leggere tutta la vicenda nel suo insieme, ed in essa collocare anche comportamenti formalmente legittimi, da un punto di vista oggettivo, i quali  però assumono un significato diverso perché “tappe” di una strategia prefigurata. Il mobbing può realizzarsi, come sottolinea la dottrina, anche “attraverso un provvedimento imprenditoriale formalmente giustificato, un atto di amministrazione del rapporto di lavoro conforme allo schema legislativo, un atteggiamento normalmente tollerato nelle relazioni interpersonali che potrebbero nondimeno collocati in un programma di  persecuzione e di molestia psicologica (...). La figura del danno da mobbing costituisce invece una sicura ed innovativa acquisizione in termini di tutela quando non siano accertabili atti o provvedimenti del datore di lavoro  provvisti di efficacia negoziale, che il giudice possa individuare o rimuovere.”
E un ultimo cenno sia consentito di fare al punto delle condizioni soggettive della vittima, al fine di escluderne qualsiasi rilevanza ai fini del riconoscimento del  diritto al risarcimento del danno patito.
A suoi  eventuali stati individuali di particolare fragilità e sensibilità emotiva, ed a sue precedenti sofferenze, per alterazioni fisiche o psichiche,  non potrà mai farsi riferimento al momento di valutare la responsabilità del datore di lavoro per comportamenti rivelatisi idonei a ledere l’integrità psichica, ovvero altri beni insopprimibili costituzionalmente garantiti, quali la dignità personale. Non troverà dunque applicazione la nozione di “violenza” dettata dal codice quale presupposto per l’annullamento dei contratti, previsto dagli artt. 1434 e 1435 c.c., per cui questa deve essere di natura tale da fare impressione su di una persona sensata e da farle temere di esporre sé o i suoi beni ad un male ingiusto e notevole, avuto riguardo all’età, al sesso ed alla condizione della vittima.
Nel caso della persecuzione psicologica sul posto di lavoro, non è in discussione la libertà negoziale del soggetto che ne è stato fatto vittima, quanto la voluta aggressione alla sfera personale del lavoratore, bene questo tutelato dalla Carta Costituzionale e dalla norma ordinaria dell’art. 2087 c.c. Tutto ciò che attiene alle peculiarità soggettive del prestatore di lavoro, sue precedenti alterazioni psicologiche, ovvero suscettibilità o sensibilità individuali, potrà essere eventualmente essere preso in considerazione al momento dell’accertamento medico – legale degli effetti patologici della condotta e della lesione effettiva al suo bene – salute, ma non al momento precedente e pregiudiziale della ricostruzione della fattispecie illecita.
Questa lunga premessa è parsa utile, prima di affrontare la decisione relativa al caso della signora Daniela, almeno per due ordini di ragioni: innanzitutto, perché si tratta della prima occasione in cui questo giudice  è chiamato a decidere una fattispecie concreta qualificata come mobbing, un fenomeno ancora in parte inesplorato dalla giurisprudenza, tuttora ignorato dal legislatore, come già si è detto, fenomeno che però mette in risalto esigenze nuove, più avanzate di tutela da parte dei lavoratori  nei confronti  dell’ordinamento.
La seconda ragione consiste nel fatto per cui la vicenda concreta, quale ricostruita a seguito di una lunga istruttoria, che è stata completata con l’iniziativa d’ufficio da parte del giudice, ha comunque evidenziato una indiscutibile situazione di sofferenza personale in capo alla lavoratrice, a cui non può negarsi il dovuto livello di attenzione e di scrupolo ricostruttivo. 
Orbene, procedendo all’esame di quelle che sono state le risultanze istruttorie, va detto che il quadro complessivo non consente di affermare la sussistenza di una situazione di mobbing nei confronti della lavoratrice: mobbing che, nelle prospettazioni iniziali, si presenta sia nella forma verticale, sia in quella orizzontale, secondo le accezioni che si sono sopra specificate, e che avrebbe trovato origine e motivo nell’avvenuta assunzione obbligatoria della signora Daniela, e poi  della sua reintegra ad opera del giudice, a seguito del licenziamento per mancato superamento del periodo di prova, ritenuto nullo posto che il patto relativo era stato fatto sottoscrivere alla lavoratrice qualche giorno dopo l’inizio del rapporto.
Quanto a questo specifico presupposto, è bene subito precisare che, dopo l’emissione di un provvedimento in via d’urgenza che, ritenuta la tardività della sottoscrizione del patto di prova, aveva ordinato la riammissione al lavoro della signora, provvedimento cui era stata data peraltro spontanea esecuzione, la S.p.a. Alfa aveva dato fine ad ogni forma di prosecuzione del contenzioso, accettando dunque il contenuto della decisione del giudice. Un comportamento, questo, che non pare certo in linea con il quadro delineato in ricorso, caratterizzato da un atteggiamento originariamente e pervicacemente ostile nei confronti della ricorrente: la decisione del giudice è stata in allora sostanzialmente accettata, senza dar seguito ad alcun braccio di ferro giudiziario, che sì, sarebbe stato in grado di mettere in gravi difficoltà la lavoratrice.
Anche le deduzioni a proposito del successivo, sistematico atteggiamento dell’azienda nei confronti della signora, “rea” di avere imposto la sua presenza dopo aver richiesto l’intervento del giudice, sono rimaste sostanzialmente prive di alcun serio riscontro, se non apertamente smentite.
Si parta dalla considerazione dei fatti oggettivi (almeno fino al febbraio 2000, perché per il periodo successivo deve essere fatta una trattazione a parte): dopo il verbale di conciliazione giudiziaria, sottoscritto nel giugno 1996, la signora ha avuto la sua collocazione lavorativa, assolutamente consona al suo livello di inquadramento; le sono state assegnate normali mansioni, rispetto allo svolgimento delle quali non  sono mai stati mossi, a livello formale, rimproveri o contestazioni; non ha mai ricevuto sanzioni disciplinari, né è stata fatta oggetto di spostamenti lavorativi.  Questo risulta  il quadro, per così dire, storico, in cui si è ambientata la vicenda portata all’attenzione del giudicante: e se è pur vero, come si è già rimarcato nella parte generale della trattazione, che mobbing può consistere non solo in atti aventi rilevanza negoziale, ma anche in meri comportamenti materiali, va detto però senza nessun apriorismo che davvero questi elementi oggettivi assumono un significato non trascurabile, soprattutto se messi a confronto con la ricostruzione della vicenda operata dalla ricorrente, tutta contrassegnata da episodi che in parte si sono dimostrati non reali, in parte, è emerso, sono frutto di una sua visione parziale e prevenuta nei confronti  dell’ambiente di lavoro.
Per quel che riguarda i comportamenti del dott. …, direttore dello stabilimento, oggi sottoposto a procedimento penale a seguito delle querele avanzate dalla signora Daniela nei suoi confronti, gli stessi sono stati descritti al capo 6 del ricorso (inviti rivoltile alla presenza di tutti i colleghi a trovarsi un nuovo lavoro, in quanto avrebbe trovato sicuramente un’occasione per licenziarla), al capo 11 (atteggiamento costantemente ostile e derisorio, continue minacce di licenziamento), al capo 20 (maggiore ostilità nei suoi confronti dopo l’ispezione dei luoghi di lavoro da parte dell’ASL, a seguito di sua denuncia alla Procura della Repubblica): rileva innanzitutto il giudice un tratto caratteristico di tale descrizione, ossia l’indeterminatezza rispetto alla materialità delle condotte, a fronte dell’estremo risalto dato alla percezione soggettiva che di questi comportamenti  aveva la ricorrente.
Né d’altronde in esito all’istruttoria può dirsi che a tali atteggiamenti si sia dato un qualche riscontro: nessuno dei testi escussi ha dichiarato di aver sentito il dr. … dire in pubblico che intendeva licenziare la ricorrente (v. in partic. …, …; non parlano di affermazioni di tal genere nemmeno i testi … e …). L’unico che ha confermato questa deduzione, è il teste …, sulla cui attendibilità peraltro occorrerà tornare in seguito.
Nessun teste ha poi saputo indicare fatti specifici in grado di poter integrare quegli “atteggiamenti ostili” da parte della direzione nei confronti della lavoratrice: anzi, la teste …, indubbiamente non avversa alla signora Daniela, ha affermato che la ricorrente le aveva detto che i suoi superiori le avevano mostrato la loro soddisfazione. Illuminanti appaiono le parole di questa teste, quando descrive l’influenza che ha avuto sulla condizione psicologica della ricorrente, la fine della sua storia sentimentale con il suo superiore gerarchico, signor ….
Anche su questo particolare episodio, per quanto di natura privatissima, occorre ritornare, posto che è stato indicato come uno dei passaggi nodali della vicenda umana e lavorativa della ricorrente.
La teste …, testualmente, ha dichiarato al giudice: “Con la fine della storia con il signor … è cambiato anche l’umore generale della ricorrente. Forse lei era rimasta delusa dalle promesse sul piano personale oltre che su quello lavorativo. La sua reazione fu quella di nervosismo e di abbattimento anche nei confronti degli altri colleghi. Vi erano dei frequenti battibecchi all’interno dell’ufficio, anche perché lei per una serie di vicende era più nervosa e più reattiva”.
E qui, davvero, sta l’essenza dei rapporti della signora Daniela con il suo ambiente di lavoro. La ricorrente, si badi, ha sempre affrontato ogni situazione fisiologicamente conflittuale che le si presentava, non certo assumendo l’atteggiamento tipico della vittima del mobbing : ha denunciato l’azienda alla Procura della Repubblica, dopo avere espressamente minacciato di farlo (test. …), ha coinvolto i rappresentanti sindacali nelle sue rivendicazioni e nella difesa delle sue decisioni (testi …, …), ha respinto le proposte dell’azienda di spostamento ad altra mansione e ad altra collocazione quando le ha ritenute non confacenti (test. …).
Ha, soprattutto, mostrato un grado di reattività anche elevato, nei confronti dei colleghi, quando le  è sembrato di essere vittima di atteggiamenti ingiusti: si veda la deposizione del teste …, a proposito di come si è effettivamente svolta la lite con il collega …, lite suscitata da un rimprovero non fondato della ricorrente e dalla sua minaccia di rivolgersi ai suoi superiori; oppure le affermazioni del teste … a proposito dell’effettivo oggetto del contendere con il collega … quanto all’uso della stufetta.
Nonostante l’ampia istruttoria che è stata compiuta, lo si ribadisce, anche a seguito dell’ammissione di ufficio di testimonianze cui le parti avevano rinunciato, sempre avendo in mente lo scopo primo cui deve tendere il processo, ossia l’accertamento della verità materiale, non hanno trovato alcun riscontro, ovvero sono stati apertamente smentiti, episodi che erano stati direttamente collegati a quel preteso stato di emarginazione e di isolamento posto alla base del ricorso.
Non è vero che la ricorrente non partecipava alla distribuzione dei regali di Natale (test. …); non è vero che le è stato negato il diritto a fruire di un periodo di cure termali, ma semplicemente questo non le è stato retribuito perché non ve ne erano i presupposti; non è vero che è stata esclusa volutamente dal nuovo sistema informatico di registrazione contabile (teste …); non è vero che le era stata negata la password per l’accesso allo stesso (teste …).
Se poi si vuole accedere alla prospettiva offerta dalla difesa della ricorrente nel corso della discussione finale, tutta incentrata sull’esistenza, in azienda, di un “caso Daniela”, come definito dal teste …, va detto che questa definizione deve essere riempita di contenuti: e quelli che sono emersi dall’istruttoria delineano una situazione non certo di atteggiamento ostile unilateralmente diretto dai colleghi nei confronti della vittima prescelta, ma una situazione di conflittualità, reciprocamente alimentata, che indubbiamente rendeva difficile la vita in quell’ambiente di lavoro, ma che non può e non deve essere interpretata in senso unidirezionale. Come si è già detto, la signora Daniela non aveva certo gli atteggiamenti della vittima: la sua amica, signora …, ha anche spiegato le ragioni dei suoi nervosismi e dei suoi scatti verso gli altri colleghi.
Allora davvero si spiega il fatto che almeno da parte di alcuni vi sia stata una reazione di rifiuto, se non di aperta ostilità nei suoi confronti: reazione che però non può e non deve essere scambiata per mobbing, perché mobbing non rappresenta il contraltare al diritto del lavoratore a fruire di un ambiente professionale comunque favorevole e cordiale. Mobbing significa una strategia messa in atto volutamente contro una determinata persona, al fine di isolarla e di emarginarla: ma appunto di strategia si deve trattare, di un processo, anzi di un’escalation di azioni mirate in senso univoco verso un obbiettivo predeterminato. Nel caso della signora Daniela, davvero, questi tratti significativi non si trovano:se pure, come dice il teste …, vi era in azienda un “caso Daniela”, questo nasceva dalle difficoltà di molti suoi colleghi a lavorare a suo fianco, evidentemente perché la signora mostrava tassi di aggressività e di reattività tali da rendere ardua la convivenza (e l’episodio della lite con …, lo si ribadisce, appare illuminante).
Che poi l’ambiente di lavoro all’interno della Alfa presenti caratteri  quali la conflittualità tra colleghi, da un lato (teste …) ovvero, se si vuole, quello della generale sudditanza nei confronti dei superiori e della condivisione aprioristica delle loro posizioni (teste …), davvero non pare poter differenziare questa dalla quasi totalità delle aziende:ma davvero, questi fattori non devono confondersi con l’esistenza di un coerente piano di terrorismo psicologico nei confronti di una lavoratrice, che finisce schiacciata da una strategia cosciente e volontaria diretta consapevolmente contro di lei.
Può esser anche dato per vero quanto riferito da alcuni testimoni, a proposito del fatto che la ricorrente sia stata definita in un’occasione, nel corso di un incontro sindacale, dai responsabili aziendali una “rompiballe”  (teste …), o che gli stessi fossero soliti affermare che gli avviati obbligatori dovessero essere mantenuti dallo Stato (teste …, …).
Se anche si volesse trarne l’impressione di un’insofferenza dei superiori nei confronti della lavoratrice (ma, lo si ripete, tale insofferenza avrebbe potuto trovare ben altri e più concreti modi di estrinsecazione), questa non basta per trovare una specifica tutela in sede giudiziaria, ai sensi dell’art. 2087 c.c.: la personalità morale e l’integrità fisica  del lavoratore vanno preservati da ben altre forme di attacco e di aggressione.
Soprattutto, la sede giudiziaria non può prestarsi a fornire comunque una possibilità di riscatto e di rivincita a chi ha contribuito, con propri atteggiamenti coscienti e volontari, ad alimentare una condizione di conflittualità della quale, alla fine, finisce per patire: e proprio questo risulta, nel complesso, il caso della signora Daniela, la cui sofferenza individuale non è certo messa in dubbio da questo giudice, ma che forse cerca oggi in Tribunale, e non solo con il presente processo, un rimedio  ed un riscatto a proprie difficoltà esistenziali, che non possono essere imputate però a responsabilità altrui.
Né pare al giudice che tali valutazioni possano essere in qualche modo influenzate dalla testimonianza di Massimo …., RSU all’interno della Alfa, unico ad avere riferito di reiterate battute del dr. … nei confronti della signora Daniela a proposito dell’opportunità che costei si trovasse un nuovo lavoro.
Si noti che, nell’ambito di una testimonianza decisamente non breve, questa è l’unica dichiarazione che possa avere un qualche risalto oggettivo, a sostegno delle tesi attoree, consistendo tutto il resto delle dichiarazioni in vicende per lo più ininfluenti, o aventi risalto esclusivamente per quel che riguarda la storia personale del teste. Va detto però che la considerazione del complesso della testimonianza del signor …, induce il giudice a ritenerlo del tutto inattendibile: è evidente l’intento che lo guida, che consiste in nient’altro che nella volontà di gettare una luce sinistra e contraria al dr. …, in particolare, e comunque alla dirigenza della Alfa (utilizzando anche argomenti per nulla significativi ai fini di causa, ma solamente volti, in modo trasparente, a ottenere la solidarietà del giudice, quali per esempio il riferimento dell’avversione del dr. … alle “toghe rosse”).
E’ evidente la sua volontà di  rendere l’impressione di essere, in prima persona, la vittima dei vertici aziendali, ai quali riferisce condotte anche molto gravi (si vedano i riferiti “tentativi di corruzione” da parte del dott. … nei suoi confronti dopo il suo passaggio ai Cobas, per ottenerne il ritorno alla CGIL).
Non tocca a questo giudice esprimere valutazioni a proposito dell’efficacia (e soprattutto dell’onestà) di una attività sindacale svolta utilizzando tali sistemi: certo, però, che non si può esimere dall’esprimere la propria valutazione a proposito della attendibilità complessiva del teste. E tale attendibilità deve essere recisamente esclusa.
Un ultimo punto: nessun rilievo probatorio può assumere, per quanto sin qui detto, la diagnosi formulata dal dott. … nei confronti della ricorrente. La stessa, tra l’altro, si fonda su presupposti che derivano esclusivamente (e questo pare particolarmente grave) dalle dichiarazioni della paziente, la quale ha riferito appunto di una penalizzazione sul lavoro grave e continuativa dall’inizio del 1996, che è stata ritenuta capace di costituire uno “stressor” idoneo a provocare l’insorgenza di disturbi psichici e psicosomatici, i quali nel caso di specie avrebbero carattere di “compatibilità” con la patologia derivata da “conflittualità sul lavoro comportante grave penalizzazione professionale”.
Il giudizio che si deve esprimere nei confronti di valutazioni mediche espresse in tali termini non può che essere molto severo: perché davvero, esse si fondano esclusivamente su di una fonte, le affermazioni della parte coinvolta, che innanzitutto non avrà nessuna capacità probatoria in sede processuale; e soprattutto, che necessiterebbe di un vaglio critico attrezzato di un ben diverso grado di oggettività e di terzietà, rispetto al coinvolgimento personale del paziente.
Questo giudizio, e soprattutto l’esito finale che inevitabilmente ha registrato, non possono che avere aggravato il livello di sofferenza personale della signora Daniela, oltre che il suo disagio all’interno dell’ambiente di lavoro, nei cui confronti evidentemente ella cercava rivincite che qui non ha potuto trovare: e tutto questo dovrebbe indurre ad una riflessione generale, a proposito della delicatezza, ed anche della rischiosità, ben al di là dell’esito processuale, di iniziative giudiziarie  di tal genere.
 
QUANTO AI DANNI DA DEMANSIONAMENTO.
Deduce la signora Daniela di avere subito a partire dal febbraio 2000, un vistoso demansionamento, essenzialmente da un punto di vista quantitativo, per esserle stata sottratta buona parte dei compiti lavorativi sin lì svolti.
I testi hanno confermato l’avvenuta riduzione del lavoro affidato alla ricorrente a partire dal febbraio 2000, dopo, cioè, l’avvenuto sdoppiamento del magazzino tra la vecchia sede di Viale dei …. e quella nuova di Viale ….
La teste …, responsabile della logistica, ha ammesso di avere esonerato la signora Daniela dalla registrazione delle bolle di accompagnamento, compito che è stato trasferito ad altre impiegate del nuovo magazzino: questo perché le frequenti assenze dal lavoro della ricorrente impediscono la necessaria tempestività degli adempimenti.
Il teste … ha poi quantificato l’impegno quotidiano della signora Daniela in un’ora circa al giorno.
Non ha dubbio questo giudice che l’art. 2103 c.c.  vieti anche la sottrazione delle mansioni da un punto di vista quantitativo (Cass., n.10405/1995); così come non ha dubbi quanto al fatto che il divieto di demansionamento operi oggettivamente, indipendentemente dalla sussistenza di un qualche animus nocendi  in capo al datore di lavoro.
La convenuta deve pertanto essere condannata a reintegrare la ricorrente nelle mansioni, considerate da un punto di vista meramente quantitativo, svolte sino al febbraio 2000: d’altronde, non sono apparsi  insuperabili da un punto di vista organizzativo i problemi che comporterebbero le frequenti assenze dal lavoro per malattia della signora Daniela.
Nella liquidazione del danno, vanno però tenuti in conto alcuni elementi: se pure il danno da demansionamento  sussiste in re ipsa, perché in ogni caso, al di là di prove specifiche relative alla perdita di chances di carriera, consiste in una lesione all’immagine professionale del lavoratore, e quindi a beni immateriali quali la sua dignità e la sua personalità morale, va detto che la sua quantificazione non può andare disgiunta dalla considerazione dell’effettiva presenza sul luogo di lavoro.
Orbene, i prospetti prodotti dalla convenuta, mai contestati, evidenziano un numero di assenze dal lavoro della signora Daniela, soprattutto per il periodo successivo al febbraio 2000, assolutamente ingente: è evidente che non può lamentare danno da demansionamento chi le proprie mansioni non le sta svolgendo.
Pertanto, pur considerata la durata del periodo, si ritiene comunque equo un risarcimento del danno dall’ammontare limitato, che può indicarsi in complessivi € 850,00. Tale importo dovrà essere comunque maggiorato di rivalutazione monetaria ed interessi, dalla data della presente sentenza, e sino al saldo.
Non resta che liquidare le spese di lite: valutato il complessivo andamento della controversia, pare equo disporne nel senso dell’integrale compensazione fra le parti.
PQM
Visto l’art. 429 c.p.c.;
Respinta ogni altra domanda;
Accerta e dichiara l’illegittimità del demansionamento – da un punto di vista meramente quantitativo – inflitto alla ricorrente a partire da febbraio 2000, e conseguentemente condanna la convenuta a riadibirla allo stesso carico di lavoro precedentemente affidatole, ed a risarcire il danno da lei patito, danno che si liquida in € 850,00  oltre rivalutazione monetaria ed interessi dalla data odierna e sino al saldo;
Compensa integralmente le spese di lite fra le parti.
Torino, 18.12.2002
IL GIUDICE
Dott.ssa Rita SANLORENZO
 (Torna alla sezione Mobbing)