- Con ricorso depositato il 14.9.2001, la signora
Daniela evocava in giudizio la S.p.a. Alfa, alle cui dipendenze lavorava sin
dal 1995, al fine di sentirla condannare ad inquadrarla nella qualifica
contrattuale C1 ovvero in subordine in
quella C2, ai sensi e per gli effetti del CCNL Industria Gomma e Plastica a far
data dal 2.9.1999 o da altra data da accertarsi in corso di giudizio; al fine
quindi di sentir condannare la convenuta a pagare in suo favore le differenze
retributive oltre rivalutazione monetaria ed interessi, e ad assegnarla a
mansioni omogenee all’inquadramento ed alla professionalità acquisiti, oltre
alla condanna al risarcimento del danno da dequalificazione professionale,
nella misura pari a tante mensilità di retribuzione, quanti erano i mesi per i
quali la dequalificazione, iniziata il 1° febbraio 2000, si era protratta,
ovvero in misura da liquidarsi secondo equità.
- Chiedeva inoltre che la convenuta venisse
condannata a risarcire in suo favore i danni tutti conseguiti a seguito del mobbing dedotto in giudizio, in somma
complessivamente pari a £ 267.215.600, o ad altra, da liquidarsi secondo
equità, oltre rivalutazione monetaria ed interessi dal sorgere dei crediti e
sino al saldo.
- Esponeva di essere stata assunta dalla convenuta in
data 2.11.1995, a seguito di avviamento obbligatorio ai sensi della L.
n.482/1960 e inquadrata nel livello F1; di essere stata licenziata in data
29.12.1995 per assunto mancato superamento della prova; di avere accertato il
giudice adito in sede cautelare la nullità del patto di prova, con conseguente
ordine di sua immediata reintegrazione nel posto di lavoro; di essersi conclusa
la successiva causa di merito con una conciliazione, con la quale la convenuta
dava atto di avere reintegrato la ricorrente a tutti gli effetti di legge nel
posto di lavoro; di essere stata addetta, sin dall’inizio del rapporto di
lavoro, al reparto logistica presso quello che in allora era l’unico
stabilimento della convenuta, sito in Avigliana, viale …; di essere costituito
all’epoca l’ufficio logistica, oltre che dalla ricorrente, dal coordinatore
signor …, e da altro impiegato, signor …; di consistere i suoi compiti nella
registrazione dei dati relativi alla ricezione dei materiali, previo controllo
dei medesimi e sottoscrizione delle bolle di accompagnamento, nell’inserimento
dei dati relativi al materiale restituito, nella predisposizione di buoni di
prelievo, ossia relativi alla merce prelevata dal magazzino per ragioni di
produzione; di avere ella collaborato anche con il collega … nella
registrazione dei quantitativi di semilavorati affidati per le lavorazioni
“conto terzi”; di avere ella incominciato a percepire il clima ostile creatosi
nell’ambiente di lavoro creatosi a causa dell’obbligo di reintegrazione imposto
giudizialmente all’azienda; di averle rivolto più volte il direttore generale
dott. …., alla presenza di tutti i dipendenti, l’invito a trovarsi un altro
lavoro perché avrebbe trovato sicuramente
un’occasione per licenziarla; di essersi attuata la volontà
discriminatoria dei vertici aziendali anche attraverso il superiore gerarchico
il quale esercitava un controllo pignolo su ogni sua attività, le negava
permessi che ad altri suoi colleghi concedeva con più facilità, la escludeva
dalla distribuzione dei doni di Natale “perchè non li meritava”; di esserle
stato concesso nel settembre / ottobre 1996 un permesso retribuito per cure
termali, venendole poi trattenuta però la retribuzione; di essere diffusa in
azienda la voce secondo la quale ella sarebbe stato un peso morto,
un’assenteista con la quale era meglio non avere relazioni; di essere
peggiorato nel periodo fra il marzo 1996 e l’aprile 1998 il suo stato di
salute, già segnato dal diabete con insulino – dipendenza, a causa
dell’atteggiamento ostile dei superiori; di incidere fortemente sulle sue
condizioni lo stress, le emozioni e le preoccupazioni, e di essere causa di
nuovi disturbi, quali retinopatie e nefropatie; di essersi sottoposta alle cure
del neurologo il quale le aveva prescritto psicofarmaci; di essere
contestualmente peggiorato il suo stato psicologico, essendo lei ormai
ossessionata dall’ambiente di lavoro; di avere trovato all’epoca appesi alla
parete del proprio ufficio moniti consistenti in articoli di giornale nei quali
si evocavano vicende di lavoratori inattivi colpiti dal licenziamento; di avere
ella pertanto presentato un esposto alla Procura della Repubblica di Torino,
con il quale lamentava le angherie patite sul lavoro; di avere improvvisamente
mutato atteggiamento nei suoi confronti nell’aprile del 1998 il suo superiore
gerarchico signor …., dimostrandosi improvvisamente amichevole e protettivo; di
essere sorta tra di loro una relazione sentimentale, alla quale ella decideva
di porre fine, e che pertanto diventava ulteriore causa di turbativa
nell’ambiente di lavoro, in quanto il …., non avendo accettato la sua
decisione, aveva continuato a perseguitarla, con telefonate, messaggi ed altro,
peraltro dopo avere sparso la voce in azienda che ella doveva essere isolata
perché era “pazza”; di essere diventata operativa nell’ottobre 1999 la nuova
unità operativa di via …, ove venivano trasferiti gli uffici direttivi e parte
della produzione; di essere stato conseguentemente spaccato in due l’ufficio
della logistica; di avere la ricorrente richiesto di rimanere in viale ….,
gestendo da sola l’intera parte della logistica; di avere richiesto, sulla base
delle nuove responsabilità lavorative affidatele, l’inquadramento nel superiore
livello C ai sensi del CCNL Gomma e Plastica, richiesta respinta dalla datrice
di lavoro, nonostante qualche tempo prima la sua diretta superiore gerarchica,
signora …., nel manifestarle la sua soddisfazione per la qualità del lavoro
svolto, le avesse promesso che in futuro si sarebbe tenuto conto di tale
impegno in termini di riconoscimento economico o di categoria; di avere ripreso vigore gli atteggiamenti
ostili e tracotanti nei suoi confronti, da parte dei suoi colleghi e del
direttore dr. …; di esserle state parallelamente sottratte, a partire dal mese
di febbraio 2000 in avanti, le mansioni lavorative sin lì svolte, mansioni che
in parte venivano devolute alle colleghe … e …, in parte al collega …; di
essere limitate le sue mansioni attuali al solo inserimento nel sistema
informatico dei dati di prelievo e di versamento del materiale relativo al
magazzino di viale …, compiti che richiedevano un suo impegno per non più di
un’ora al giorno, rimanendo ella inattiva per il resto della giornata; di
essere stata esclusa dalla rete informatica aziendale, per mancata
comunicazione della nuova “password”; di avere accusato un aggravamento del
proprio stato di salute a cagione della situazione di stress nella quale era
costretta ad operare.
- Si costituiva la convenuta, chiedendo il rigetto di
tutte le domande, contestando analiticamente tutte le circostanza dedotte a
proposito di un proprio atteggiamento ostile nei confronti della lavoratrice,
tale da integrare mobbing.
- Il giudice, esperito vanamente il tentativo di
conciliazione, interrogava le parti e sentiva i testimoni. Quindi, in esito
alla discussione, ritenutane la necessità, disponeva d’ufficio l’audizione dei
testi residui indicati negli atti introduttivi al giudizio, ed a cui le stesse
parti avevano rinunciato. Completata l’istruttoria, in esito alla discussione,
la causa veniva decisa con la lettura immediata del dispositivo.
- MOTIVI DELLA DECISIONE
-
- QUANTO
ALLA PRETESA VOLTA AD OTTENERE IL SUPERIORE INQUADRAMENTO.
- Agisce la ricorrente nei confronti della propria
datrice di lavoro, innanzitutto per veder affermato il suo diritto ad un
inquadramento professionale superiore a quello attribuitole, corrispondente al
livello E/1 ex CCNL Industria Gomma e Plastica.
- In ricorso, per vero, si riconosce l’adeguatezza di
un tale inquadramento in rapporto alle mansioni svolte dalla ricorrente sino al
1999: la pretesa muove però dalla deduzione relativa all’ipotesi di svolgimento
di compiti lavorativi diversi, maggiormente qualificanti, per un periodo superiore
ai tre mesi, in occasione dell’avvenuto trasloco delle attività della Alfa
presso il nuovo stabilimento di via ….
- Sostiene infatti la signora Daniela che in quel
periodo ella si sarebbe occupata della gestione della logistica di entrambi gli
stabilimenti, essendosi occupata degli arrivi e delle spedizioni di merci di
entrambi gli stabilimenti, avendo organizzato lo scarico e il carico di tutte
le operazioni sul sistema informatico, avendo tenuto contatti con corrieri, con
i fornitori e con i “terzisti”. Inoltre, sempre secondo la prospettazione
attorea, la ricorrente in quel periodo avrebbe avuto il compito di tenere
aggiornata l’intera contabilità del magazzino, inserendo nel sistema
informatico aziendale tutti i dati relativi alle merci in entrata ed in uscita,
per la fatturazione, e lavorando a stretto contatto ed in collaborazione con il
signor … dell’Ufficio Acquisti, il quale si occupava più strettamente della
gestione degli ordini e delle fatture, mentre l’organizzazione della logistica
era interamente a lei affidata.
- Di qui, deriverebbe il suo diritto a vedersi
inquadrata ai sensi del livello C1, prevista per l’assistente di magazzino,
ovvero in subordine di quello C2, cui si riferiscono le mansioni di caposquadra
di magazzino. Il livello C, ai sensi del CCNL che regola il rapporto, lo si
ricorda, spetta ai lavoratori che hanno la responsabilità di attività
nell’ambito di pratiche e metodi diversi che, per variabilità ed incertezza dei
risultati, comportino scelte conseguenti e/o la responsabilità del
coordinamento e controllo di altri
lavoratori di livelli inferiori, con incarichi diversificati nell’ambito della
propria area funzionale, ed inoltre operano in condizioni di autonomia
decisionale, disimpegnando compiti secondo differenti procedure e metodologie,
implicanti scelte di priorità nell’ambito delle norme e pratiche stabilite,
ricevendo una verifica del risultato complessivo dell’attività.
- A proposito di tale specifico capo di domanda, il
giudice deve preliminarmente osservare che la genericità della descrizione dei
nuovi compiti lavorativi che la signora Daniela avrebbe svolto a partire dal
mese di settembre del 1999, non consente di comprendere sotto quale profilo si
dovrebbero ritenere integrati i tratti caratteristici del superiore livello: in
effetti, nel corso di tale periodo, la ricorrente avrebbe continuato a svolgere
i suoi compiti di registrazione e di tenuta della contabilità, ma senza vedere
aumentare né i suoi poteri decisionali né i suoi margini discrezionali, né,
soprattutto, il suo grado di responsabilità nei confronti della gestione della
logistica.
- Oltre a queste evidenti lacune nella stessa
prospettazione dei fatti portati a sostegno della pretesa della ricorrente, è
doveroso segnalare la totale, assoluta assenza di ogni minimo elemento di
prova, a proposito di quelle stesse circostanze su cui veniva basata la
richiesta del superiore inquadramento.
- Secondo la teste …, nel periodo successivo al
settembre 1999, la ricorrente avrebbe continuato ad effettuare la registrazione
dei dati contabili relativi a materiale proveniente e destinato alla
produzione, compresa la registrazione delle bolle di accompagnamento delle merci: tali compiti peraltro le
spetterebbero ancora, almeno relativamente al magazzino di viale …, dove per sua
precisa scelta la ricorrente ha continuato e continua ad operare (quanto alla
nuova distribuzione da un punto di vista quantitativo delle mansioni, si dirà
oltre).
- Il teste … ha smentito poi la ricorrente a
proposito del fatto per cui tra loro si sarebbe instaurato un rapporto di
stretta collaborazione, proprio nel periodo in questione: i loro contatti,
alquanto sporadici, si sarebbero limitati infatti a casi di mancata
corrispondenza fra le bolle di consegna e gli ordini di acquisto
precedentemente emessi.
- Il teste … ha confermato il contenuto dei compiti
lavorativi della ricorrente, quali sopra riportati, anche durante il periodo
del trasloco.
- Il teste …, direttore di stabilimento, ha
confermato che durante il trasloco stesso, la signora Daniela aveva continuato
a svolgere lo stesso tipo di lavoro, seppure con ritmi discontinui, dovuti
proprio al contemporaneo svolgimento del trasferimento del materiale
precedentemente immagazzinato in viale ….. Il tutto, comunque, si sarebbe
svolto nell’arco di un mese e mezzo circa.
- Il teste …, RSU iscritto ai Cobas, ha dichiarato,
nel corso di una deposizione sicuramente non ostile alle posizioni della
ricorrente, che le mansioni della signora Daniela nel corso del trasloco
consistevano nel carico e scarico dei buoni di prelievo e delle bolle, e forse
anche nella loro compilazione.
- A tutto quanto sopra si aggiunga, se ancora questo
può rivestire una qualche rilevanza, che parte attrice non ha in alcun modo
provato le promesse, che sarebbero state formulate dall’azienda, ed anzi dalla
signora Tren…to in persona, circa un suo avanzamento di carriera, proprio in
seguito al periodo del trasloco. L’unico fatto certo, è quello per cui ad un
certo punto la signora Daniela ha rivolto le proprie richieste all’azienda e,
ottenutone un rifiuto, ha intrapreso una vertenza sindacale, nel corso della
quale si è anche tenuto un incontro presso l’Unione Industriale, conclusosi con
un verbale di mancato accordo a fronte dell’intransigenza dell’azienda.
- La stessa Difesa della ricorrente, in sede di
discussione finale, non ha nemmeno ripreso l’originaria domanda formulata con
il ricorso, volta ad ottenere il superiore inquadramento e le differenze
retributive, evidentemente conscia dell’insussistenza degli elementi a supporto
di una pretesa così formulata.
- Eppure, il rifiuto dell’azienda a riconoscere in
suo favore quello che veniva delineato come un diritto assolutamente evidente
era stato inquadrato, come tassello estremamente significativo, nel generale
quadro di discriminazione posto in essere dalla Alfa nei suoi confronti da un
punto di vista personale e professionale: quando invece l’istruttoria compiuta
ha dimostrato la totale infondatezza delle pretese della signora Daniela, pur
così fortemente e reiteratamente sostenute, anche in sede sindacale (v. teste
…).
- L’annotazione non è fine a se stessa, ma deve
essere collocata nel generale quadro di argomenti che verranno affrontati nella
presente sentenza, a sostegno di una decisione che sostanzialmente smentisce
tutti i principali assunti portati avanti con l’azione intentata dalla signora
Daniela nei confronti della sua datrice di lavoro.
-
- QUANTO ALLA SUSSISTENZA DI CONDOTTE DI MOBBING
NEI CONFRONTI DELLA RICORRENTE, ED AL SUO CONSEGUENTE DIRITTO AL RISARCIMENTO
DEI DANNI PATITI.
- Come
si è già riportato, il fulcro centrale della domanda ha per oggetto la messa in
atto da parte della convenuta di una serie reiterata e coerente di atteggiamenti diversi, tutti
orientati ad isolare ed emarginare la ricorrente all’interno dell’ambiente di
lavoro: in altri termini, a realizzare nei suoi confronti una strategia
complessiva, che viene fatta rientrare nella nozione generale di mobbing.
- Affrontando il tema da un punto di vista dogmatico,
conviene ricordare che la scoperta del fenomeno del mobbing è
indubbiamente molto recente: molto recente ma accompagnata da ampia risonanza
da parte dei mass media, che del termine hanno fatto un vocabolo ormai
di uso comune, utilizzato per indicare fenomeni diversi, collegati comunque al
disagio ed all’emarginazione del singolo all’interno dell’ambiente di lavoro.
- La prima difficoltà da cui deve muovere
l’interprete, in assenza di una fonte normativa che ad oggi regoli la
fattispecie, è quella di dare al fenomeno una definizione alla quale poi
attenersi nell’accertamento del caso concreto, e quindi nel sanzionare i
comportamenti ritenuti lesivi della dignità personale, se non dell’integrità
fisica e psichica, del lavoratore.
- Nell’affrontare un compito così impegnativo, di
certo non possono essere trascurati i contributi in materia forniti dagli studi
effettuati nel campo delle dottrine psicologiche e psichiatriche, che per
prime si sono dedicate alla definizione del mobbing.
- Anche per queste scienze, la scoperta del fenomeno
è avvenuta abbastanza di recente. Le prime ricerche e teorizzazioni, da parte
di uno studioso, di origine tedesca ma
vissuto lungamente in Svezia, Hans Leymann, risalgono infatti alla metà degli
anni ottanta: nel 1996 è stato pubblicato in Italia il primo libro dedicato
espressamente all’argomento, libro scritto da Harald Ege, psicologo del lavoro,
ricercatore tedesco residente in Italia.
- Immediata
fortuna e diffusione ha trovato la definizione che Leymann per primo ha
attribuito alla sua “creatura”, ossia quella di “terrore psicologico sul posto
di lavoro”; il termine deriva, come è ormai risaputo, dal verbo inglese to
mob, che significa “assalire, aggredire, accerchiare qualcuno”, utilizzato
in etologia per descrivere i comportamenti del branco volti ad espellere un
membro del gruppo.
- In Italia, pari notorietà è stata ormai raggiunta
dalla elaborazione che rispetto alla medesima nozione è stata fornita da Ege,
la cui espressione più recente è pervenuta a descrivere “il mobbing (come) una situazione lavorativa di conflittualità
sistematica, persistente ed in constante progresso in cui una o più persone
vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno
o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di
causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova
nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare
accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono portare
anche a invalidità psicofisiche permanenti di vario genere e
percentualizzazione”.
- In altre sue opere, Ege è arrivato a definire il mobbing
come una vera e propria “guerra sul lavoro, in cui, tramite violenza
psicologica, fisica e/o morale, una o più vittime vengono costrette ad esaudire
la volontà di uno o più aggressori. Questa violenza si esprime attraverso
attacchi frequenti e duraturi che hanno lo scopo di danneggiare la salute, i
canali di comunicazione, il flusso di informazioni, la reputazione e/o la
professionalità delle vittime”. Nello stesso testo, Ege fornisce un altro,
preziosissimo contributo, nell’individuare addirittura le categorie in cui
suddividere gli attacchi mobbizzanti, in numero di cinque, e relative a:
- 1.attacchi
ai contatti umani (limitazioni alle possibilità di esprimersi, continue
interruzioni del discorso, critiche e rimproveri costanti, sguardi e gesti con
significato negativo, ecc.);
- 2.isolamento
sistematico (trasferimento della vittima a un luogo di lavoro isolato,
comportamenti tendenti ad ignorarla, divieti di parlare o intrattenere rapporti
con questa persona, etc.);
- 3.cambiamenti delle mansioni (revoca di ogni mansione da svolgere, assegnazione
di lavori senza senso, nocivi o al di sotto delle capacità della vittima,
cambiamenti comuni degli incarichi, etc.);
- 4.attacchi contro la reputazione (calunnie, pettegolezzi, ridicolizzazione dei
difetti o delle caratteristiche della vittima, turpiloquio, valutazione
sbagliata o umiliante delle sue prestazioni, ecc.);
- 5.violenza o minacce di violenza (minacce o atti di violenza fisica o a sfondo
sessuale, etc.).
- Più attenti al versante rappresentato dalle
sofferenze della vittima, e forse meno a quello rappresentato dall’ambiente e
dalle dinamiche in cui il fenomeno si sviluppa, in un’ottica più schiettamente
terapeutica, altri autori, con formazione peraltro più strettamente medica,
individuano il mobbing in quella “situazione di aggressione, di
esclusione e di emarginazione di un lavoratore da parte dei suoi colleghi o dei
suoi superiori”, in altri termini in una “malattia sociale trasversale”, che si
caratterizza per “la continuità delle aggressioni nel tempo, lo stillicidio di
eventi persecutori, l’intensificazione progressiva di attacchi che portano la
vittima all’isolamento, all’emarginazione, al disagio ed alla malattia”. In
particolare, ci si riferisce qui agli studi del Prof. Renato Gilioli,
specialista di neurologia e psichiatria presso la Clinica del Lavoro Devoto di
Milano, che ha esaminato personalmente la ricorrente e che nei suoi confronti
ha emesso un parere medico – legale, prodotto sub doc. n.26 del fascicolo della
ricorrente, ampiamente richiamato comunque nel corpo del ricorso, e sul quale
occorrerà ritornare.
- Generale condivisione, salvo alcune varianti
terminologiche che non intaccano la sostanza del fenomeno, trova poi la
suddivisione tra il mobbing cd. “verticale”, quando esso viene attuato da un capo verso i sottoposti, e quando
è l’intera azienda che mette in atto una strategia diretta o indiretta per
rendere impossibile la vita a un dipendente sgradito in modo da costringerlo a
licenziarlo (il fenomeno in questione viene anche denominato, da certi
studiosi, come bossing), opposto al mobbing cd. “orizzontale”,
che si verifica quando un certo numero di colleghi emarginano qualcuno che, per
qualche motivo, il gruppo non vuole. Talvolta, secondo questi studi, questa
molestia collettiva orizzontale può essere una dinamica psicologica di branco
quasi inconsapevole, diretta a scaricare su un capro espiatorio le tensioni,
l’aggressività, le gelosie del lavoro.
- Per sintetizzare, i tratti comuni che vengono
identificati relativamente al fenomeno in questione sono la ripetitività nel
tempo delle condotte, e la loro riconducibilità ad un identico disegno, quello
che ha per oggetto appunto l’esclusione, l’emarginazione del lavoratore (non
necessariamente la sua estromissione dall’ambiente di lavoro, che piuttosto
caratterizza, come si è detto, il genus più ristretto costituito dal bossing).
Soprattutto questo ultimo, pare agli interpreti costituire l’elemento
qualificante del fenomeno in questione: quello capace di consentire una
ricostruzione unitaria di una serie eterogenea di condotte, sulla base della
quale poter approntare una risposta più efficace, a tutela della vittima di
tale strategia complessiva.
- Se questi sono, in sintesi, gli esiti degli studi
svolti nel campo della psicologia e della neuropsichiatria, dal punto di vista
della legislazione, va detto che, se numerosi ormai sono i progetti di legge
depositati nel corso della precedente e della presente legislatura, al momento
essi giacciono senza serie ed immediate prospettive di approvazione.
- Posti
sin qui i risultati degli studi psico – sociologici, si impone la necessità di
andare ad esaminare lo stato contemporaneo dell’elaborazione giurisprudenziale,
ovviamente seguita dal costante, e critico, interesse della dottrina.
- Come
si è già detto, alla improvvisa esplosione di notorietà del fenomeno sui mass
– media, non ha certo corrisposto un analogo successo nelle aule
giudiziarie.
- Alle
parti sono ben note le prime due decisioni pubblicate sull’argomento, entrambe
emesse nel 1999 dal Tribunale di Torino, (16.11.1999, e 11.12.1999, per
entrambe estensore Ciocchetti) che hanno avuto vasta risonanza sulle riviste
giuridiche (e non solo).
- In
entrambe le occasioni, il giudice aveva superato ogni problema definitorio
attraverso il ricorso alla nozione di “fatto notorio”, inteso come fatto
“acquisito alle conoscenze della collettività in modo da non esigere
dimostrazione alcuna in giudizio”, nell’ambito della quale inquadrare il
fenomeno del mobbing, e, ritenuta la superfluità di ogni accertamento
tecnico di natura medico – psichiatrica per valutare l’esistenza e la
sussistenza del danno, era pervenuto a liquidare una somma a titolo di
risarcimento del danno, a titolo sia di danno biologico, seppure non con
effetti permanenti, sia di quello da demansionamento.
- In
una decisione, pronunciata in grado di appello, il Tribunale di Milano (sent.
20.5.2000) ha affermato che non è configurabile un danno psichico del
lavoratore, del quale il datore di lavoro sia obbligato al risarcimento,
conseguente ad una allegata serie di vicende persecutorie lamentate dal
lavoratore stesso (c.d. “mobbing”), qualora l’assenza di sistematicità,
la scarsità di episodi, il loro oggettivo rapportarsi alla vita di tutti i
giorni all’interno di una organizzazione produttiva, che è anche luogo di
aggregazione e di contatto (e di scontro) umano, escludano che i comportamenti
lamentati possano essere considerati dolosi”.
- Altra
sentenza del Tribunale di Milano (16.11.2000) richiama gli oneri probatori su
cui si regge il processo del lavoro, e esclude la sussistenza del mobbing
“qualora non venga offerta rigorosa prova del danno e della relazione causale
fra il medesimo ed i pretesi comportamenti persecutori, che tali non possono
dirsi qualora siano riferibili alla normale condotta imprenditoriale funzionale
all’organizzazione produttiva”.
- Molto
citata, e variamente commentata, risulta poi la sentenza del Tribunale di Como
(22.5.2001), la quale, richiamati i
precedenti sul tema, ed in particolare la prima sentenza del Tribunale di
Torino, è pervenuta ad elaborare e ad esplicitare una propria definizione del
fenomeno, nei seguenti termini: “Il mobbing aziendale, invece (in
contrapposizione alle molestie, ndr.), è l’insieme di atti, ciascuno dei
quali è apparentemente inoffensivo. L’elemento psicologico consiste nell’
"animus
nocendi" , che mira a ledere la psiche del mobbizzato e ad espellerlo da
una comunità. Il mobbing è collettivo, così come la genesi etologica
sembra indicare”.
- Grande
importanza deve poi essere attribuita alla sentenza del Tribunale di Forlì,
est. Sorgi, 15 marzo 2001: sentenza che si assume appieno il compito di
formulare una definizione del fenomeno, e soprattutto, di identificare le forme
di risarcimento del danno più idonee a fronte della fattispecie.
- Il
Tribunale di Forlì innanzitutto, partendo dalla pacifica constatazione circa
l’assenza nel nostro ordinamento di una normativa specifica che fornisca una
definizione di mobbing ed appronti gli strumenti repressivi, esprime il
convincimento per cui tale fenomeno potrà ricorrere “solo ed in quanto determinate condotte presentino i requisiti
richiesti dalla psicologia del lavoro internazionale (Leymann) e nazionale
(Ege)”: in tutti gli altri casi in cui
invece si registra una mera somiglianza, ogni episodio dovrà essere
diversamente catalogato e darà diritto a diversi profili di tutela
risarcitoria.
- Il
pericolo, in effetti, è quello che si affermi l’equazione per cui “tutto è mobbing,
niente è mobbing”: compito primo della giurisprudenza è dunque quello di
evitare dannose generalizzazioni, e di affrontare consapevolmente e
responsabilmente quel lavoro definitorio che sin qui il legislatore ha
trascurato.
- Il
Tribunale di Forlì parte appunto dalla condivisione dei caratteri distintivi
del mobbing, quali individuati dalla psicologia del lavoro: e fornisce
una nozione, in base alla quale per mobbing si deve intendere “quel
comportamento, reiterato nel tempo, da parte di una o più persone, colleghi o
superiori della vittima, teso a respingere dal contesto lavorativo il soggetto
mobbizzato che a causa di tale comportamento in un certo arco di tempo subisce
delle conseguenze negative anche in ordine fisico da tale situazione”.
- Ma
il Giudice non condivide solo la nozione che dalla psicologia del lavoro, dalla
più classica in argomento, è stata elaborata: condivide anche quel “modello
italiano” di mobbing elaborato da Ege, che arriva a individuare sei fasi
diverse in cui si realizza la sua escalation (a fronte delle quattro
individuate da Leymann): “Dopo la cd.
condizione zero di conflitto fisiologico normale ed accettato, si passa alla
prima fase del conflitto mirato, in cui si individua la vittima e verso di essa
si dirige la conflittualità generale ... La seconda fase è il vero e proprio
inizio del mobbing nel quale la
vittima prova un senso di disagio e di fastidio ... La terza fase è quella
nella quale il mobbizzato comincia a manifestare i primi sintomi psicosomatici,
i primi problemi per la sua salute... La quarta fase del mobbing è
quella caratterizzata da errori ed abusi dell’amministrazione del personale
che, insospettita dalle assenze del soggetto mobbizzato, erra nella valutazione
negativa del caso non riuscendo, per carenza di informazione sull’origine della
situazione, a capire le ragioni del disagio del dipendente... La quinta fase
del mobbing è quella dell’aggravamento delle condizioni di salute
psicofisica del mobbizzato che cade in piena depressione ed entra in una
situazione di vera e propria prostrazione... Resta la sesta fase, per altro
indicata solo e fortunatamente eventuale, nella quale la storia del mobbing
ha un epilogo: nei casi più gravi nel suicidio del lavoratore, negli altri
nelle dimissioni, o anticipazione di pensionamenti, o in licenziamenti.”
- Per
individuare i punti salienti della decisione, è evidente innanzitutto che il
Tribunale di Forlì condivide appieno i risultati che ci derivano dagli studi
degli specialisti psicologi: condivide il tratto della ripetitività e della sistematicità
delle condotte, le quali peraltro non sono e non devono essere tipizzate (nel
caso di specie, si erano realizzati un trasferimento del lavoratore, un
demansionamento, e, accanto a queste evidenti violazioni di specifiche norme a
tutela del lavoratore, comportamenti materiali quali la privazione delle chiavi
del garage e della possibilità di usufruire del posto macchina).
- Condivide
poi il Giudice di Forlì un altro carattere importante, ossia la durata del mobbing:
la vicenda concreta peraltro si era dipanata per più anni, in cui via via si
erano venute a realizzare le varie condotte, unificate, per così dire,
dall’esistenza dell’identità dello scopo,
quindi non si poneva nemmeno il problema di un termine minimo, sul quale
invece, come si è visto, gli psicologi del lavoro si sono espressi.
- Così
riassunto il panorama della giurisprudenza sin qui espressasi sul fenomeno,
tocca al decidente esprimersi sulla vicenda concreta portata alla sua
attenzione: vicenda molto articolata e complessa, almeno nelle deduzioni
iniziali, riguardante un lungo arco di tempo (il requisito della durata
risulterebbe senz’altro integrato, ove fosse ritenuta raggiunta la prova sulla
oggettività dei singoli episodi).
- Prima
di procedere all’esame degli esiti dell’istruttoria, è bene comunque fissare i
caratteri identificativi del fenomeno, quali concordemente individuati nei vari
ambiti in cui ci si è occupati del fenomeno: mobbing è una serie
ripetuta e coerente di atti e comportamenti materiali che trovano una ratio
unificatrice nell’intento di isolare, di emarginare, e fors’anche di espellere,
la vittima dall’ambiente di lavoro.
- A
tale tipo di strategia, occorre approntare una forma di risposta che tenga
conto della stratificazione, della evoluzione, della amplificazione delle
sofferenze in ragione del tempo passato, del numero e della diversificazione
degli attacchi subiti. Sarà più efficace un tipo di risposta che veda l’insieme
dei singoli comportamenti discriminatori come un’escalation di violenza,
legati da un’unica strategia ben finalizzata e non lasciata agli umori del
momento.
- Compito
dell’interprete sarà quello di ricostruire la vicenda lavorativa ed umana nel
suo insieme, e di collocare in essa i vari passaggi, sia che gli stessi si
concretizzino in atti di rilevanza negoziale, sia invece che gli stessi
rappresentino meri comportamenti materiali, non autonomamente sanzionabili, o
non tali da comportare di per sé soli la
reazione dell’ordinamento.
- Se
dunque mobbing è un processo, o forse meglio un progresso, di violenza
da una parte e di sofferenza dall’altra, bisognerà saper leggere tutta la
vicenda nel suo insieme, ed in essa collocare anche comportamenti formalmente
legittimi, da un punto di vista oggettivo, i quali però assumono un significato diverso perché “tappe” di una
strategia prefigurata. Il mobbing può realizzarsi, come sottolinea la
dottrina, anche “attraverso un provvedimento imprenditoriale formalmente
giustificato, un atto di amministrazione del rapporto di lavoro conforme allo
schema legislativo, un atteggiamento normalmente tollerato nelle relazioni
interpersonali che potrebbero nondimeno collocati in un programma di persecuzione e di molestia psicologica
(...). La figura del danno da mobbing costituisce invece una sicura ed
innovativa acquisizione in termini di tutela quando non siano accertabili atti
o provvedimenti del datore di lavoro
provvisti di efficacia negoziale, che il giudice possa individuare o
rimuovere.”
- E
un ultimo cenno sia consentito di fare al punto delle condizioni soggettive
della vittima, al fine di escluderne qualsiasi rilevanza ai fini del
riconoscimento del diritto al
risarcimento del danno patito.
- A
suoi eventuali stati individuali di
particolare fragilità e sensibilità emotiva, ed a sue precedenti sofferenze,
per alterazioni fisiche o psichiche,
non potrà mai farsi riferimento al momento di valutare la responsabilità
del datore di lavoro per comportamenti rivelatisi idonei a ledere l’integrità
psichica, ovvero altri beni insopprimibili costituzionalmente garantiti, quali
la dignità personale. Non troverà dunque applicazione la nozione di “violenza”
dettata dal codice quale presupposto per l’annullamento dei contratti, previsto
dagli artt. 1434 e 1435 c.c., per cui questa deve essere di natura tale da fare
impressione su di una persona sensata e da farle temere di esporre sé o i suoi
beni ad un male ingiusto e notevole, avuto riguardo all’età, al sesso ed alla
condizione della vittima.
- Nel
caso della persecuzione psicologica sul posto di lavoro, non è in discussione
la libertà negoziale del soggetto che ne è stato fatto vittima, quanto la
voluta aggressione alla sfera personale del lavoratore, bene questo tutelato
dalla Carta Costituzionale e dalla norma ordinaria dell’art. 2087 c.c. Tutto
ciò che attiene alle peculiarità soggettive del prestatore di lavoro, sue
precedenti alterazioni psicologiche, ovvero suscettibilità o sensibilità
individuali, potrà essere eventualmente essere preso in considerazione al
momento dell’accertamento medico – legale degli effetti patologici della condotta
e della lesione effettiva al suo bene – salute, ma non al momento precedente e
pregiudiziale della ricostruzione della fattispecie illecita.
- Questa
lunga premessa è parsa utile, prima di affrontare la decisione relativa al caso
della signora Daniela, almeno per due ordini di ragioni: innanzitutto, perché
si tratta della prima occasione in cui questo giudice è chiamato a decidere una fattispecie concreta qualificata come mobbing,
un fenomeno ancora in parte inesplorato dalla giurisprudenza, tuttora ignorato
dal legislatore, come già si è detto, fenomeno che però mette in risalto
esigenze nuove, più avanzate di tutela da parte dei lavoratori nei confronti dell’ordinamento.
- La
seconda ragione consiste nel fatto per cui la vicenda concreta, quale ricostruita
a seguito di una lunga istruttoria, che è stata completata con l’iniziativa
d’ufficio da parte del giudice, ha comunque evidenziato una indiscutibile
situazione di sofferenza personale in capo alla lavoratrice, a cui non può
negarsi il dovuto livello di attenzione e di scrupolo ricostruttivo.
- Orbene,
procedendo all’esame di quelle che sono state le risultanze istruttorie, va
detto che il quadro complessivo non consente di affermare la sussistenza di una
situazione di mobbing nei confronti della lavoratrice: mobbing
che, nelle prospettazioni iniziali, si presenta sia nella forma verticale, sia
in quella orizzontale, secondo le accezioni che si sono sopra specificate, e
che avrebbe trovato origine e motivo nell’avvenuta assunzione obbligatoria
della signora Daniela, e poi della sua
reintegra ad opera del giudice, a seguito del licenziamento per mancato
superamento del periodo di prova, ritenuto nullo posto che il patto relativo
era stato fatto sottoscrivere alla lavoratrice qualche giorno dopo l’inizio del
rapporto.
- Quanto
a questo specifico presupposto, è bene subito precisare che, dopo l’emissione
di un provvedimento in via d’urgenza che, ritenuta la tardività della
sottoscrizione del patto di prova, aveva ordinato la riammissione al lavoro
della signora, provvedimento cui era stata data peraltro spontanea esecuzione,
la S.p.a. Alfa aveva dato fine ad ogni forma di prosecuzione del contenzioso,
accettando dunque il contenuto della decisione del giudice. Un comportamento,
questo, che non pare certo in linea con il quadro delineato in ricorso,
caratterizzato da un atteggiamento originariamente e pervicacemente ostile nei
confronti della ricorrente: la decisione del giudice è stata in allora
sostanzialmente accettata, senza dar seguito ad alcun braccio di ferro
giudiziario, che sì, sarebbe stato in grado di mettere in gravi difficoltà la
lavoratrice.
- Anche
le deduzioni a proposito del successivo, sistematico atteggiamento dell’azienda
nei confronti della signora, “rea” di avere imposto la sua presenza dopo aver
richiesto l’intervento del giudice, sono rimaste sostanzialmente prive di alcun
serio riscontro, se non apertamente smentite.
- Si
parta dalla considerazione dei fatti oggettivi (almeno fino al febbraio 2000,
perché per il periodo successivo deve essere fatta una trattazione a parte):
dopo il verbale di conciliazione giudiziaria, sottoscritto nel giugno 1996, la
signora ha avuto la sua collocazione lavorativa, assolutamente consona al suo
livello di inquadramento; le sono state assegnate normali mansioni, rispetto
allo svolgimento delle quali non sono
mai stati mossi, a livello formale, rimproveri o contestazioni; non ha mai
ricevuto sanzioni disciplinari, né è stata fatta oggetto di spostamenti
lavorativi. Questo risulta il quadro, per così dire, storico, in cui si
è ambientata la vicenda portata all’attenzione del giudicante: e se è pur vero,
come si è già rimarcato nella parte generale della trattazione, che mobbing
può consistere non solo in atti aventi rilevanza negoziale, ma anche in meri
comportamenti materiali, va detto però senza nessun apriorismo che davvero
questi elementi oggettivi assumono un significato non trascurabile, soprattutto
se messi a confronto con la ricostruzione della vicenda operata dalla
ricorrente, tutta contrassegnata da episodi che in parte si sono dimostrati non
reali, in parte, è emerso, sono frutto
di una sua visione parziale e prevenuta nei confronti dell’ambiente di lavoro.
- Per
quel che riguarda i comportamenti del dott. …, direttore dello stabilimento,
oggi sottoposto a procedimento penale a seguito delle querele avanzate dalla
signora Daniela nei suoi confronti, gli stessi sono stati descritti al capo 6
del ricorso (inviti rivoltile alla presenza di tutti i colleghi a trovarsi un
nuovo lavoro, in quanto avrebbe trovato sicuramente un’occasione per
licenziarla), al capo 11 (atteggiamento costantemente ostile e derisorio,
continue minacce di licenziamento), al capo 20 (maggiore ostilità nei suoi
confronti dopo l’ispezione dei luoghi di lavoro da parte dell’ASL, a seguito di
sua denuncia alla Procura della Repubblica): rileva innanzitutto il giudice un
tratto caratteristico di tale descrizione, ossia l’indeterminatezza rispetto
alla materialità delle condotte, a fronte dell’estremo risalto dato alla
percezione soggettiva che di questi comportamenti aveva la ricorrente.
- Né
d’altronde in esito all’istruttoria può dirsi che a tali atteggiamenti si sia
dato un qualche riscontro: nessuno dei testi escussi ha dichiarato di aver
sentito il dr. … dire in pubblico che intendeva licenziare la ricorrente (v. in
partic. …, …; non parlano di affermazioni di tal genere nemmeno i testi … e …).
L’unico che ha confermato questa deduzione, è il teste …, sulla cui
attendibilità peraltro occorrerà tornare in seguito.
- Nessun
teste ha poi saputo indicare fatti specifici in grado di poter integrare quegli
“atteggiamenti ostili” da parte della direzione nei confronti della
lavoratrice: anzi, la teste …, indubbiamente non avversa alla signora Daniela,
ha affermato che la ricorrente le aveva detto che i suoi superiori le avevano
mostrato la loro soddisfazione. Illuminanti appaiono le parole di questa teste,
quando descrive l’influenza che ha avuto sulla condizione psicologica della
ricorrente, la fine della sua storia sentimentale con il suo superiore
gerarchico, signor ….
- Anche
su questo particolare episodio, per quanto di natura privatissima, occorre
ritornare, posto che è stato indicato come uno dei passaggi nodali della
vicenda umana e lavorativa della ricorrente.
- La
teste …, testualmente, ha dichiarato al giudice: “Con la fine della storia con
il signor … è cambiato anche l’umore generale della ricorrente. Forse lei era
rimasta delusa dalle promesse sul piano personale oltre che su quello
lavorativo. La sua reazione fu quella di nervosismo e di abbattimento anche nei
confronti degli altri colleghi. Vi erano dei frequenti battibecchi all’interno
dell’ufficio, anche perché lei per una serie di vicende era più nervosa e più
reattiva”.
- E
qui, davvero, sta l’essenza dei rapporti della signora Daniela con il suo
ambiente di lavoro. La ricorrente, si badi, ha sempre affrontato ogni
situazione fisiologicamente conflittuale che le si presentava, non certo
assumendo l’atteggiamento tipico della vittima del mobbing : ha
denunciato l’azienda alla Procura della Repubblica, dopo avere espressamente
minacciato di farlo (test. …), ha coinvolto i rappresentanti sindacali nelle
sue rivendicazioni e nella difesa delle sue decisioni (testi …, …), ha respinto
le proposte dell’azienda di spostamento ad altra mansione e ad altra
collocazione quando le ha ritenute non confacenti (test. …).
- Ha,
soprattutto, mostrato un grado di reattività anche elevato, nei confronti dei
colleghi, quando le è sembrato di
essere vittima di atteggiamenti ingiusti: si veda la deposizione del teste …, a
proposito di come si è effettivamente svolta la lite con il collega …, lite
suscitata da un rimprovero non fondato della ricorrente e dalla sua minaccia di
rivolgersi ai suoi superiori; oppure le affermazioni del teste … a proposito
dell’effettivo oggetto del contendere con il collega … quanto all’uso della
stufetta.
- Nonostante
l’ampia istruttoria che è stata compiuta, lo si ribadisce, anche a seguito
dell’ammissione di ufficio di testimonianze cui le parti avevano rinunciato,
sempre avendo in mente lo scopo primo cui deve tendere il processo, ossia
l’accertamento della verità materiale, non hanno trovato alcun riscontro, ovvero sono stati apertamente
smentiti, episodi che erano stati direttamente collegati a quel preteso stato
di emarginazione e di isolamento posto alla base del ricorso.
- Non
è vero che la ricorrente non partecipava alla distribuzione dei regali di
Natale (test. …); non è vero che le è stato negato il diritto a fruire di un
periodo di cure termali, ma semplicemente questo non le è stato retribuito
perché non ve ne erano i presupposti; non è vero che è stata esclusa
volutamente dal nuovo sistema informatico di registrazione contabile (teste …); non è vero che le era stata negata
la password per l’accesso allo stesso (teste …).
- Se
poi si vuole accedere alla prospettiva offerta dalla difesa della ricorrente
nel corso della discussione finale, tutta incentrata sull’esistenza, in
azienda, di un “caso Daniela”, come definito dal teste …, va detto che questa
definizione deve essere riempita di contenuti: e quelli che sono emersi
dall’istruttoria delineano una situazione non certo di atteggiamento ostile
unilateralmente diretto dai colleghi nei confronti della vittima prescelta, ma
una situazione di conflittualità, reciprocamente alimentata, che indubbiamente
rendeva difficile la vita in quell’ambiente di lavoro, ma che non può e non
deve essere interpretata in senso unidirezionale. Come si è già detto, la
signora Daniela non aveva certo gli atteggiamenti della vittima: la sua amica,
signora …, ha anche spiegato le ragioni dei suoi nervosismi e dei suoi scatti
verso gli altri colleghi.
- Allora
davvero si spiega il fatto che almeno da parte di alcuni vi sia stata una
reazione di rifiuto, se non di aperta ostilità nei suoi confronti: reazione che
però non può e non deve essere scambiata per mobbing, perché mobbing
non rappresenta il contraltare al diritto del lavoratore a fruire di un
ambiente professionale comunque favorevole e cordiale. Mobbing significa
una strategia messa in atto volutamente contro una determinata persona, al fine
di isolarla e di emarginarla: ma appunto di strategia si deve trattare, di un
processo, anzi di un’escalation di azioni mirate in senso univoco verso
un obbiettivo predeterminato. Nel caso della signora Daniela, davvero, questi
tratti significativi non si trovano:se pure, come dice il teste …, vi era in
azienda un “caso Daniela”, questo nasceva dalle difficoltà di molti suoi
colleghi a lavorare a suo fianco, evidentemente perché la signora mostrava
tassi di aggressività e di reattività tali da rendere ardua la convivenza (e
l’episodio della lite con …, lo si ribadisce, appare illuminante).
- Che
poi l’ambiente di lavoro all’interno della Alfa presenti caratteri quali la conflittualità tra colleghi, da un
lato (teste …) ovvero, se si vuole, quello della generale sudditanza nei
confronti dei superiori e della condivisione aprioristica delle loro posizioni
(teste …), davvero non pare poter differenziare questa dalla quasi totalità
delle aziende:ma davvero, questi fattori non devono confondersi con
l’esistenza di un coerente piano di terrorismo psicologico nei confronti di una
lavoratrice, che finisce schiacciata da una strategia cosciente e volontaria
diretta consapevolmente contro di lei.
- Può
esser anche dato per vero quanto riferito da alcuni testimoni, a proposito del
fatto che la ricorrente sia stata definita in un’occasione, nel corso di un
incontro sindacale, dai responsabili aziendali una “rompiballe” (teste …), o che gli stessi fossero soliti
affermare che gli avviati obbligatori dovessero essere mantenuti dallo Stato
(teste …, …).
- Se
anche si volesse trarne l’impressione di un’insofferenza dei superiori nei
confronti della lavoratrice (ma, lo si ripete, tale insofferenza avrebbe potuto
trovare ben altri e più concreti modi di estrinsecazione), questa non basta per
trovare una specifica tutela in sede giudiziaria, ai sensi dell’art. 2087 c.c.:
la personalità morale e l’integrità fisica
del lavoratore vanno preservati da ben altre forme di attacco e di
aggressione.
- Soprattutto,
la sede giudiziaria non può prestarsi a fornire comunque una possibilità di
riscatto e di rivincita a chi ha contribuito, con propri atteggiamenti
coscienti e volontari, ad alimentare una condizione di conflittualità della
quale, alla fine, finisce per patire: e proprio questo risulta, nel complesso,
il caso della signora Daniela, la cui sofferenza individuale non è certo messa
in dubbio da questo giudice, ma che forse cerca oggi in Tribunale, e non solo
con il presente processo, un rimedio ed
un riscatto a proprie difficoltà esistenziali, che non possono essere imputate
però a responsabilità altrui.
- Né
pare al giudice che tali valutazioni possano essere in qualche modo influenzate
dalla testimonianza di Massimo …., RSU all’interno della Alfa, unico ad avere
riferito di reiterate battute del dr. … nei confronti della signora Daniela a
proposito dell’opportunità che costei si trovasse un nuovo lavoro.
- Si
noti che, nell’ambito di una testimonianza decisamente non breve, questa è
l’unica dichiarazione che possa avere un qualche risalto oggettivo, a sostegno
delle tesi attoree, consistendo tutto il resto delle dichiarazioni in vicende
per lo più ininfluenti, o aventi risalto esclusivamente per quel che riguarda
la storia personale del teste. Va detto però che la considerazione del
complesso della testimonianza del signor …, induce il giudice a ritenerlo del
tutto inattendibile: è evidente l’intento che lo guida, che consiste in
nient’altro che nella volontà di gettare una luce sinistra e contraria al dr.
…, in particolare, e comunque alla dirigenza della Alfa (utilizzando anche
argomenti per nulla significativi ai fini di causa, ma solamente volti, in modo
trasparente, a ottenere la solidarietà del giudice, quali per esempio il
riferimento dell’avversione del dr. … alle “toghe rosse”).
- E’
evidente la sua volontà di rendere
l’impressione di essere, in prima persona, la vittima dei vertici aziendali, ai
quali riferisce condotte anche molto gravi (si vedano i riferiti “tentativi di
corruzione” da parte del dott. … nei suoi confronti dopo il suo passaggio ai
Cobas, per ottenerne il ritorno alla CGIL).
- Non
tocca a questo giudice esprimere valutazioni a proposito dell’efficacia (e
soprattutto dell’onestà) di una attività sindacale svolta utilizzando tali
sistemi: certo, però, che non si può esimere dall’esprimere la propria
valutazione a proposito della attendibilità complessiva del teste. E tale
attendibilità deve essere recisamente esclusa.
- Un
ultimo punto: nessun rilievo probatorio può assumere, per quanto sin qui detto,
la diagnosi formulata dal dott. … nei confronti della ricorrente. La stessa,
tra l’altro, si fonda su presupposti che derivano esclusivamente (e questo pare
particolarmente grave) dalle dichiarazioni della paziente, la quale ha riferito
appunto di una penalizzazione sul lavoro grave e continuativa dall’inizio del
1996, che è stata ritenuta capace di costituire uno “stressor” idoneo a
provocare l’insorgenza di disturbi psichici e psicosomatici, i quali nel caso
di specie avrebbero carattere di “compatibilità” con la patologia derivata da
“conflittualità sul lavoro comportante grave penalizzazione professionale”.
- Il
giudizio che si deve esprimere nei confronti di valutazioni mediche espresse in
tali termini non può che essere molto severo: perché davvero, esse si fondano
esclusivamente su di una fonte, le affermazioni della parte coinvolta, che
innanzitutto non avrà nessuna capacità probatoria in sede processuale; e
soprattutto, che necessiterebbe di un vaglio critico attrezzato di un ben
diverso grado di oggettività e di terzietà, rispetto al coinvolgimento
personale del paziente.
- Questo
giudizio, e soprattutto l’esito finale che inevitabilmente ha registrato, non
possono che avere aggravato il livello di sofferenza personale della signora
Daniela, oltre che il suo disagio all’interno dell’ambiente di lavoro, nei cui
confronti evidentemente ella cercava rivincite che qui non ha potuto trovare: e
tutto questo dovrebbe indurre ad una riflessione generale, a proposito della
delicatezza, ed anche della rischiosità, ben al di là dell’esito processuale,
di iniziative giudiziarie di tal
genere.
-
- QUANTO
AI DANNI DA DEMANSIONAMENTO.
- Deduce la signora Daniela di avere subito a partire
dal febbraio 2000, un vistoso demansionamento, essenzialmente da un punto di
vista quantitativo, per esserle stata sottratta buona parte dei compiti
lavorativi sin lì svolti.
- I testi hanno confermato l’avvenuta riduzione del
lavoro affidato alla ricorrente a partire dal febbraio 2000, dopo, cioè,
l’avvenuto sdoppiamento del magazzino tra la vecchia sede di Viale dei …. e
quella nuova di Viale ….
- La teste …, responsabile della logistica, ha
ammesso di avere esonerato la signora Daniela dalla registrazione delle bolle
di accompagnamento, compito che è stato trasferito ad altre impiegate del nuovo
magazzino: questo perché le frequenti assenze dal lavoro della ricorrente
impediscono la necessaria tempestività degli adempimenti.
- Il
teste … ha poi quantificato l’impegno quotidiano della signora Daniela in
un’ora circa al giorno.
- Non ha dubbio questo giudice che l’art. 2103
c.c. vieti anche la sottrazione delle
mansioni da un punto di vista quantitativo (Cass., n.10405/1995); così come non
ha dubbi quanto al fatto che il divieto di demansionamento operi
oggettivamente, indipendentemente dalla sussistenza di un qualche animus
nocendi in capo al datore di
lavoro.
- La convenuta deve pertanto essere condannata a
reintegrare la ricorrente nelle mansioni, considerate da un punto di vista
meramente quantitativo, svolte sino al febbraio 2000: d’altronde, non sono
apparsi insuperabili da un punto di
vista organizzativo i problemi che comporterebbero le frequenti assenze dal
lavoro per malattia della signora Daniela.
- Nella liquidazione del danno, vanno però tenuti in
conto alcuni elementi: se pure il danno da
demansionamento sussiste in re ipsa,
perché in ogni caso, al di là di prove specifiche relative alla perdita di chances di
carriera, consiste in una lesione all’immagine professionale del lavoratore, e
quindi a beni immateriali quali la sua dignità e la sua personalità morale, va
detto che la sua quantificazione non può andare disgiunta dalla considerazione
dell’effettiva presenza sul luogo di lavoro.
- Orbene, i prospetti prodotti dalla convenuta, mai
contestati, evidenziano un numero di assenze dal lavoro della signora Daniela,
soprattutto per il periodo successivo al febbraio 2000, assolutamente ingente:
è evidente che non può lamentare danno da demansionamento chi le proprie
mansioni non le sta svolgendo.
- Pertanto, pur considerata la durata del periodo, si
ritiene comunque equo un risarcimento del danno dall’ammontare limitato, che
può indicarsi in complessivi € 850,00. Tale importo dovrà essere comunque
maggiorato di rivalutazione monetaria ed interessi, dalla data della presente
sentenza, e sino al saldo.
- Non resta che liquidare le spese di lite: valutato
il complessivo andamento della controversia, pare equo disporne nel senso
dell’integrale compensazione fra le parti.
- PQM
- Visto l’art. 429 c.p.c.;
- Respinta ogni altra domanda;
- Accerta e dichiara l’illegittimità del
demansionamento – da un punto di vista meramente quantitativo – inflitto alla
ricorrente a partire da febbraio 2000, e conseguentemente condanna la convenuta
a riadibirla allo stesso carico di lavoro precedentemente affidatole, ed a
risarcire il danno da lei patito, danno che si liquida in € 850,00 oltre rivalutazione monetaria ed interessi
dalla data odierna e sino al saldo;
- Compensa integralmente le spese di lite fra le
parti.
- Torino, 18.12.2002
- IL GIUDICE
- Dott.ssa Rita SANLORENZO