DANNO ALLA PROFESSIONALITA' DI UN AVVOCATO DEL SERVIZIO DEL PERSONALE DI UNA BANCA

 

TRIBUNALE DI SIENA, Sez. lav. 28 luglio 2003 – Giud. CAMMAROSANO – V. R. (avv. Dinoi) c. Monte dei Paschi di Siena s.p.a. (avv. Mazzotta, Lepri).

 

Demansionamento di un legale bancario durato cinque anni – Risarcimento dei danni sofferti – Danno biologico - Danno professionale – Danno esistenziale – Danno morale - Determinazione  equitativa.

 

Il dipendente di una banca che sia stato utilizzato in mansioni deteriori rispetto alla qualifica professionale in precedenza posseduta e rispetto agli incarichi professionali in precedenza assegnatigli subisce un danno alla professionalità, che si esprime sia in un impoverimento delle sue capacità professionali, sia nella probabilità di una sua futura emarginazione in qualità di outsider nel mondo del lavoro; ne consegue che il relativo risarcimento deve essere liquidato tenendosi conto della natura e gravità del demansionamento e della dequalificazione, della sua durata, del livello della professionalità “aggredita”, del settore di esplicazione e dell’età del lavoratore (nel caso, per un demansionamento protrattosi per cinque anni, il risarcimento è stato liquidato nella misura di euro 400.000).

Ai fini della determinazione della misura del danno biologico subito dal lavoratore a seguito di demansionamento, erra il consulente tecnico d’ufficio il quale ponga a base di tale determinazione una astratta indicazione in termini di percentuale di invalidità del lavoratore stesso (in questo caso il consulente aveva indicato il 5%), dovendo la liquidazione del danno essere integrata da una valutazione equiparativa giudiziale a norma dell’art. 1226 c.c. che tenga conto delle acquisizioni  della più attendibile scienza psichiatrica e delle caratteristiche riscontrabili nel caso concreto (al riguardo il giudice ha ritenuto di determinare in misura di euro 50.000 la liquidazione del danno biologico).

Il lavoratore che, a seguito di demansionamento, subisca un complesso di sofferenze, di frustrazioni, di patemi d’animo, di stati di ansia e di stress, di profondo malessere, di perdita di autostima, tali da gettare sull’esistenza un velo, un’ombra costante, ingenerare e alimentare un male di vivere quotidiano ostinato e senza via di uscita, ha diritto, oltre al risarcimento del danno da demansionamento e del danno biologico, anche al risarcimento del danno esistenziale, che deve, nel caso specifico, essere liquidato in proporzione al numero dei passi che il medesimo compie ogni giorno dalla fermata dell’autobus al posto di lavoro, attribuendo una piccola somma di denaro a ciascuno di essi (qui, data la specifica distanza, tale somma di denaro è stata liquidata in euro 60.000).Ritenuta poi accertata la commissione del delitto di lesioni personali, compete altresì il risarcimento del danno morale, che si ritiene adeguato liquidare in 60.000 euro. (Nel caso specifico, si trattava di avvocato dipendente di una banca, che aveva svolto le funzioni di titolare dell’area contenzioso del lavoro istituita presso l’ufficio del personale della direzione generale, poi di capo del personale di società controllata, concessionaria del servizio riscossione tributi della Regione Sicilia, infine assegnato alo staff legale dell’ufficio contenzioso dello stesso istituto di credito, ricoprendo in esso la posizione di quadro direttivo di quarto livello).

 

Svolgimento del processo e motivi della decisione

 

(Omissis). – Traendo una prima conclusione sintetica a proposito del periodo romano, dal luglio 1998 al giugno 1999, possiamo ritenere accertata, al pari del periodo senese che ad esso farà seguito, una evidente grave deprofessionalizzazione dell’avvocato R., caratterizzata da un sicuro svuotamento del contenuto anche quantitativo, delle sue mansioni e dall’assenza di responsabilità (eccettuato un brevissimo periodo transitorio prima del suo ritorno a Siena; cfr. sopra) – Omissis.

 

8. L’indagine medico-legale: le condizioni di salute del’avvocato R. e il nesso causale lavorativo. Il danno biologico subito. – Omissis – Difficile, per il giudice, prender posizione sulla discussione diagnostica accesasi tra il consulente tecnico d’ufficio, dott. Buselli, e il consulente di parte, dott. Marzi, nell’alternativa “disturbo dell’adattamento”/”disturbo distimico”, nella serrata sequenza relazione del c.t.u./prime note critiche del c.t.p./chiarimenti del c.t.u./seconde note critiche del c.t.p.

Tuttavia, in ogni caso, riteniamo, se la valutazione del danno alla persona dev’essere la valutazione del danno di una persona, pur muovendo necessariamente da parametri tabellari ed astratti, di non poter omettere tutti gli elementi di concretezza del caso, che sospingono verso una determinazione quantitativa certamente, non coperta dalla misura percentualistica indicata dal consulente tecnico d’ufficio (5%).

In ordine ai disturbi psichiatrici, secondo la . valutazione orientativa riportata, ad es., in CARNEVALE, COLAGRECO, Il danno indennizzabile, Cedam, 2001, muovendo dalla classificazione AMA (American Medical Association) in 5 classi di gravità crescente, nella classe II (lieve pregiudizio, compatibile comunque con l’esecuzione della maggior parte delle attività precedenti), la valutazione percentualistica si spinge sino al 15% e nella classe III (moderato pregiudizio, comparabile solo con l’esecuzione di alcune delle attività precedenti), la valutazione percentualistica si spinge sino al 40%.

La misura del 5% indicata dal consulente tecnico d’ufficio, pertanto, non appare certamente adeguata anche nella migliore prospettiva valutativa.

Abbiamo un uomo, oggi cinquantenne, precipitato da una prospettiva di ulteriore prestigiosa carriera ad una retrocessione professionale ormai da troppi anni protratta nel tempo. Dalla “struttura temperamentale”, “di personalità” del paziente, “non poteva che (scaturire) una grave decompensazione ansioso-depressiva come reazione disadattativa ad un comportamento ingiusto non modificabile” (relazione c.t.u., p. 11); quello che consulente tecnico d’ufficio diagnostica come “disturbo dell’adattamento” ha acquistato natura “cronica”, confermandosi, dunque, anche per questo aspetto soltanto, l’evolutività negativa della patologia; “da situazioni di questo tipo scaturiscono spesso sindromi di natura ansioso-depressiva, i cui sviluppi ed effetti sono imprevedibili e portano a conseguenze disastrose per la salute del soggetto” (relazione c.t.u. p. 11), inserendosi la vicenda una “personalità a rischio di destrutturazione” pur “in assenza di disturbi dell’area psicotica”, “una personalità premorbosa”, secondo le valutazioni psicodiagnostica e psichiatrica utilizzate dal dott. Buselli; nell’autunno del 2002, in sede di indagine medico-legale, viene evidenziata una “sofferenza psichica attuale”, una sofferenza ormai protratta da lungo tempo, dunque, in quanto “di tipo reattivo a condizioni lavorative-relazionali”, una sofferenza “con aspetti sintomatici di tipo ansioso (preoccupazioni ipocondriache) o, “con aspetti sintomatici a carico del tono dell’umore”, quali “anedonia, difficoltà di progettazione, sentimenti di inadeguatezza, scarsa vitalità, significativo ritiro sociale”, “funzionamento interpersonale ridotto”; a causa delle vicende lavorative subite, “caratteristiche quali la precisione, l’ordinatezza, la scrupolosità, la totale dedizione al lavoro hanno determinato una profonda ed improvvisa perdita di identità” (relazione c.t.u., p. 9), una “perdita di identità” che perdura nel tempo nella persona dell’avvocato R.; il consulente parla di “grave decompensazione ansioso-depressiva” anche per durata (“protratta”, “perdurare”), ricordando che simile “condizione depressiva protratta in stretto rapporto cronologica e causale con situazioni stressanti” risulta “relativamente resistente al trattamento fin quando è presente la condizione stressante”, che il paziente vive ormai da lungo tempo; all’umore depresso-ansioso si è associata “la tendenza ad una continua ruminazione sulla situazione stressante (….) labilità emotiva e facilità al pianto”.

Dunque, l’astratta indicazione percentualistica dovrà essere adeguatamente integrata con i concreti elementi di valutazione del caso sopra trascorsi in rassegna.

La ponderazione di tutti gli elementi di valutazione descritti, necessariamente integrata da una valutazione equitativa, ex art. 1226 c.c., conduce orientativamente e prudenzialmente al riconoscimento di un danno biologico risarcibile nella entità di euro 50.000,00. - Omissis.

 

11. Danno alla professionalità, danno esistenziale, danno morale. – Oltre al danno biologico (par 8), il pregiudizio che V. R. ha subito dalla vicenda lavorativa accertata è gravissimo e si tratta di un danno, come in molti altri casi, in gran parte non risarcibile, al pari di una crisi familiare, di un grave lutto.

L’esito favorevole del giudizio di primo grado, di per sé, sul piano psicologico ha un impatto positivo importante; ma certo aleatorio e insufficiente.

Nella recente giurisprudenza della Sezione lavoro della Cassazione (limitando l’indagine all’anno 2002) il danno “da demansionamento professionale”, da “dequalificazione” - il cui riconoscimento può tranquillamente prescindere dalla problematica del mobbing (parr. 9, 10) - ha nuovamente trovato in più occasioni significative affermazioni e approfondimenti.

La modifica in pejus, intesa come “negazione o impedimento delle mansioni dà luogo ad una “pluralità di pregiudizi”, “solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore”, “ridonda(ndo) infatti in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro”, determinando un pregiudizio che incide “sulla vita professionale” e “sulla vita di relazione” del lavoratore, pregiudizio di “indubbia dimensione patrimoniale”, suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa (Cass. n. 10/2002, est. Coletti, richiamatesi a Cass. n. 11727/1999, n. 14443/2000).

“L’affermazione di un valore superiore alla professionalità, direttamente collegato a un diritto fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere immateriale, in qualche modo supera e integra la precedente affermazione che la mortificazione della professionalità del lavoratore potesse dar luogo a risarcimento, solo ove venisse fornita la prova dell’effettiva sussistenza di un danno patrimoniale” (Cass. n. 10/2002).

“Dall’assegnazione del prestatore di lavoro a mansioni inferiori a quelle spettanti, illegittima in quanto contraria all’art. 2103 c.c., possono derivale a carico del medesimo danni morali, oppure di natura biologica (ad es. un’alterazione dell’equilibrio psicologico) o, ancora, corrispondenti alla perdita di esperienza professionale” (Cass. n. 6992/2002).

”Il danno da perdita di professionalità – precisa tuttavia Cass. n. 6992/2002, est. Roselli — quale specie del danno patrimoniale, consiste non già nella menomazione della reputazione che produca un danno morale e neppure in una indefinita “lesione della personalità”, bensì in una diminuzione delle nozioni teoriche e della capacità pratica o comunque di vantaggi connessi all’esperienza professionale (ad es. la notorietà derivante dall’esibizione di capacità artistiche), conseguenti al mancato esercizio delle mansioni spettanti, per un tempo più o meno prolungato, avendo riguardo non solo alla qualità intrinseca delle attività da esplicare, ma anche al grado di autonomia e di discrezionalità nell’esercizio di esse, nonché alla posizione del dipendente nell’organizzazione aziendale. Per questa come per qualsiasi altra specie di danno civile il risarcimento spetta quando sia provata non solo l’attività illecita, ma anche l’oggettiva consistenza del pregiudizio che da essa derivi, non potendo confondersi il risarcimento con l’inflizione di una sanzione civile, o pena privata, soltanto quest’ultima conseguente automaticamente alla condotta illecita. Solo quando la sussistenza del danno sia in qualsiasi modo provata, anche per presunzioni, e tuttavia non sia dimostrabile il preciso ammontare, il giudice di merito può procedere alla valutazione equitativa ex art. 1226 c.c.”.

La sent. n. 6992/2002 prende dunque espressamente le distanze da Cass. n. 14443/2000 e da Cass. n. 10/2002, non riconoscendo un’autonoma risarcibilità di un non definito diritto alla libera esplicazione della “libertà (?) (personalità?) del lavoratore”, affermando la necessità della prova del danno e l’insufficienza di una mera potenzialità lesiva dell’illecito, pena il ricorso a “nozioni estremamente vaghe e foriere di incontrollabile litigiosità” (riteniamo, tuttavia, che la netta diversità di impostazione concettuale, al banco di prova delle concrete fattispecie, è assai probabilmente destinata ad una attenuazione pressoché totale, posto l’inevitabile, pacifico ricorso in materia all’argomentazione probatoria presuntiva, intorno alla quale, con ragionevolezza ed equilibrio la partita decisoria, quantificatoria, viene a giocarsi).

Cass. n. 7967/2002, est. De Matteis, con maggior ampiezza argomentativa, muove dalla lettura dell’art. 2103, parte I c.c. (“il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, o a quelle corrispondenti alla categoria superiore, che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte (...)”), dall’indiscusso riconoscimento del diritto del lavoratore “all’effettivo svolgimento della propria prestazione di lavoro”.

Il lavoro, infatti, non è, in generale, solo “un mezzo di sostentamento e di guadagno”, “ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità del lavoratore”, ai sensi degli artt. 2, primo comma, 4, primo comma, 35, primo comma, Cost.”.

La migliore dottrina, sottolineando i contrapposti interessi delle parti in materia di mansioni, all’interesse del creditore di lavoro “ad un impiego duttile ed elastico della prestazione, in relazione alle mutevoli esigenze dell’organizzazione produttiva”, oppone “l’interesse del lavoratore alla. conformità della prestazione alle mansioni convenute al momento dell’assunzione, ovvero a mansioni compatibili con la qualifica e la categoria di appartenenza”, “in funzione della valorizzazione del lavoro come sviluppo della personalità”.

La lesione di questo interesse, meglio, di questo diritto del lavoratore, costituisce “inadempimento contrattuale” da parte del datore di lavoro e comporta, prosegue Cass. n. 7967/2002; “l’obbligo del risarcimento del danno da dequalificazione professionale”, del “danno al patrimonio professionale in senso stretto” (interessante, tra altre, l’osservazione che “l’attuale evoluzione del mercato del lavoro enfatizza la formazione continua come essenziale caratteristica dell’attuale momento storico economico”, valorizzando pertanto la descritta funzione della prestazione lavorativa, p. 7).

In particolare, precisa la Cassazione, “non solo una riduzione qualitativa, ma anche quantitativa del-e mansioni, in una misura significativa (…) può comportare dequalificazione” (l’onere della prova dello svolgimento di mansioni qualificanti, è in questo caso addossato dalla sent. n. 7967/2002 al datore di lavoro, p. 7).

Il danno da dequalificazione professionale può assumere, osserva la Cassazione, “aspetti diversi”: danno “patrimoniale”, “derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità”; danno “per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno”; danno “alla salute”, “all’integrità psico-fisica”; danno “all’immagine”, danno “alla vita di relazione” (l’onere della prova, anche a mezzo di presunzioni, di tali “aspetti” grava sul lavoratore) (pp. 12-13) (nel caso concreto la sentenza impugnata ha superato il controllo di legittimità, essendosi ritenuti “indizi sufficienti per dedurre l’esistenza di un danno professionale”; la “lunghezza dell’inattività circa un anno”, l’”elevata qualità professionale delle mansioni”, le “caratteristiche concorrenziali del mercato del lavoro” ) (p. 13).

Anche Cass. n. 7967/2002, dunque, ritiene necessaria la prova dell’”esistenza” del danno da dequalificazione professionale, nei modi descritti; aprendo quindi la strada alla necessaria (“determinazione alla quale il giudice non può sottrarsi”) valutazione equitativa del medesimo ex art. 1226 c.c. (p. 14).

Successivamente, Cass. n. 15868/2002, est. Prestipino, ha Confermato analoghe impostazioni concettuali, ribadendo il “diritto fondamentale del lavoratore alla esplicazione della sua personalità anche nel luogo di lavoro” (p. 8, ricollegandosi al “punto fermo per la successiva elaborazione giurisprudenziale in tema di conseguenze derivanti dalla violazione dell’art. 2103 c.c. da parte del datore di lavoro”, rappresentato da Cass. n. 13299/1999) e confermando la “indubbia dimensione patrimoniale” della sua lesione “che lo rende suscettibile di risarcimento” a mezzo di valutazione anche in via equitativa (richiamandosi a Cass. n. 11727/1999; n.14443/2000; n. 18580/2001) (confermandone la necessità da parte del giudice di merito, p. 9 ss.).

Conferma la sent. 15868/2002 che “la liquidazione equitativa, proprio riguardo alla specifica materia oggetto del presente giudizio, deve essere compiuta anche quando, addirittura sia mancata la dimostrazione, in via diretta, dell’esistenza di un effettivo pregiudizio patrimoniale (Cass. n. 14443/2000), dato che la prova presuntiva va ricavata dagli elementi di fatto relativi alla durata del demansionamento e dalle altre circostanze del caso concreto (Cass. n. 13580/2001)” (p.10).

L’ordinamento, si é autorevolmente sintetizzato in dottrina, “consente al datore di lavoro – nell’ambito di un riferimento, da tempo acquisito, al concetto di “equivalenza professionale” – di modificare le mansioni del lavoratore, purché tale modifica rispetti il bagaglio di perizia ed esperienza che costituisce il nucleo del patrimonio professionale del lavoratore”, secondo una lettura dell’art. 2103 c.c., a seguito della incisiva riforma dell’art. 13, L n. 300/1970, “in chiave con la ratio statutaria che vuole rafforzare la protezione della “dignità” del lavoratore”.

L’interpretazione qui accolta delle vicende modificative della prestazione dell’avvocato R. alle dipendenze della Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., a partire dal luglio 1997 fino ad oggi,non ci pare contribuisca “a perpetuare una lettura fortemente statica del concetto di equivalenza professionale, concorrendo ad imbalsamare i processi di mobilità orizzontale”.

Infatti, pur condividendo l’assunto che l’avvocato R. non avesse maturato alcun diritto a occuparsi per il resto della sua vita professionale di cause di lavoro nelle aule di giustizia di tutta Italia; pur potendosi concordare sulla poliedricità della figura professionale dell’avvocato, fino a ritenerla compresa nella più ampia nozione di giurista; sul piano di una pari dignità ed equivalenza professionale (idea comunque non facile da accettare per colui che della battaglia nelle aule di giustizia, dal confronto quotidiano diretto con l’avversario e il giudice, fa ragione di vita); il punto decisivo resta l’intenzionale deprivazione di mansioni, professionalità, responsabilità; quindi di autorità, di prestigio, di immagine, sistematicamente attuata in danno di V. R. dalla Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., dall’ “esilio romano” ad oggi. Si tratta, dunque, di un lungo periodo, dal settembre 1998 al marzo 2003, pur con le accertate varianti contenutistiche nel tempo e nei luoghi, ma sempre nell’ambito di un medesimo motivo dominante.

V. R. è stato, dunque, gravemente leso nel suo fondamentale diritto alla libera esplicazione e sviluppo della personalità di lavoratore nel luogo di lavoro, subendo un grave pregiudizio incidente sulla sua vita professionale, avente già di per sé una dimensione patrimoniale indubbia, senza che per questo il risarcimento possa essere considerato di carattere sanzionatorio; la lesione, in special modo se grave e protratta, di un diritto della personalità, e della personalità del lavoratore, costituisce un bene la cui aggressione impone una riparazione per equivalente, da determinarsi anche su base equitativa.

Il danno al bagaglio professionale del lavoratore, inoltre, implica un danno patrimoniale più tangibile, tanto più elevato, come nel caso dell’avvocato R., a seconda della natura e gravità del demansionamento e della dequalificazione, alla sua durata, al livello della professionalità aggredita, al settore di esplicazione, all’età del lavoratore, circostanze precedentemente accertate e valutate (par. 1-7),.

L’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e la mancata acquisizione di una maggiore capacità, oltre ad essere di per sé lesioni di un bene risarcibili, nel senso sopra precisato, determinano un danno ancor più tangibile in termini di perdita di chance, anzitutto nella prospettiva di carriera presso l’attuale datore di lavoro.

La quantificazione di questo danno, presso la Banca Monte dei Peschi di Siena s.p.a., per la posizione professionale e la prospettiva di carriera dirigenziale dell’avvocato R., schizza immediatamente a livelli stratosferici, ma non per questo abnormi o di natura sanzionatoria.

Se, poi, in un’ottica non irragionevole di crisi definitiva e irreversibile del rapporto di lavoro, a breve o medio termine, ci proiettiamo sulle chance di impiego o libera professione dell’avvocato R., possiamo parimenti ritenere, anche per la notorietà della vicenda che lo ha visto a lungo come un perdente, un fallito; e la elevata concorrenzialità del settore, che il danno subito ascenda verticalmente a dimensioni analogamente notevolissime, anche considerata la consistente vita professionale residua in relazione all’età.

Se è il corretto che “l’attuale evoluzione del mercato del lavoro enfatizza la formazione continua come essenziale caratteristica dell’attuale momento storico economico”, valorizzando pertanto al massimo la funzione di mantenimento e incremento professionale della prestazione lavorativa, ci rendiamo cono del rischio elevatissimo, che nei  giudizi umani diviene certezza, che nel momento in cui quasi inevitabilmente, la prosecuzione per dir così della convivenza tra V.R. e la Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., diverrà irreparabilmente intollerabile, egli divenga un emarginato, un outsider nel mondo del lavoro (“professionalmente parlando non è più nessuno”, note difensive finali, p. 37) con danni, anche solo patrimoniali, di dimensione notevolissima.

Per il titolo predetto, danno alla professionalità, in tutte le componenti descritte e per tutti i fattori esposti, si ritiene congruo un risarcimento dell’ordine di euro 400.000, 00.

V.R. ha subito, inoltre un grave danno esistenziale, categoria finalizzata alla riparazione di quei danni non patrimoniali attinenti alla persona in quanto tale, non in quanto lavoratore, e non riconducibili alla categoria del danno biologico.

Delle due l’una: o si dilata la nozione di danno biologico, fino a ricomprendervi tutte quelle conseguenze psichiche ancora non pacificamente riconosciute quali vere e proprie patologie psichiche, o si dà spazio alla categoria di danno in discorso, al fine di offrire, a fronte dell’illecito, un adeguato ristoro patrimoniale a quel complesso di sofferenze, di frustrazioni, di patemi d’animo, di stati di ansia e di stress, di profondo malessere, perdita di autostima, tali da gettare sull’esistenza un velo, un’ombra costante, ingenerare ed alimentare un male di vivere quotidiano, ostinato, che non sembra avere via di uscita.

Per misurare questo danno basti pensare al numero dei passi che l’avvocato R. compie ogni giorno, oggi da piazza Gramsci (fermata dell’autobus) a viale Mazzini (sede di lavoro), dapprima in discesa, quindi in salita, e attribuire una piccola somma di denaro a ciascuno di essi: 60.000,00 euro ci sembrano una giusta determinazione se riusciamo a condividere i pensieri che camminando gli passano per la testa. Ci sono poi le notti, le albe, le lunghe ore trascorse nella condizione lavorativa subita ormai da lunghi anni e dobbiamo fermarci qui per non essere indotti a raddoppiare l’importo.

V. R., ha subito, inoltre, un grave danno morale.

In forza di tutte le argomentazioni sin qui condotte, in specie nel paragrafi 8-10, il discorso, a dispetto del rilievo del tema, sarà molto breve, al fine di ritenere incidentalmente accertata (e nei limiti di sufficienza necessari per l’applicazione dell’art. 2059 c.c.) la commissione del delitto di lesioni personali, almeno colpose, in danno del lavoratore, ai sensi dell’art. 590 c.p., l’individuazione dei cui autori, nell’ambito del vertice direzionale della banca, esula dalla rilevanza ai fini della decisione della presente controversia.

Anche in questo caso, richiamati tutti gli elementi di valutazione oramai più volte descritti (natura ed entità del torto subito e delle sue conseguenze dannose, sua durata, età della vittima), 60.000,00 euro si rivelano una equa determinazione. – Omissis.

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