Straining, non mobbing - Trib. Sondrio 7.6.2007
 
Tribunale di Sondrio, 7 giugno 2007 – Giud. Azzolini - A e P c. A.A. S.p.A.
 
Mobbing – Insussistenza- Straining - Sussistenza - Conseguente indennizzo per violazione art. 2087 c.c.
 
Ad avviso del CTU la strategia negativa attuata dall’A. A. spa nei confronti del P., se “non ha le caratteristiche del mobbing in quanto manca quantomeno di frequenza ed azioni adeguate, si inquadra tuttavia nel diverso fenomeno dello straining che si definisce come una situazione lavorativa conflittuale in cui la vittima ha subito azioni ostili limitate nel numero e/o distanziate nel tempo (e quindi non rientranti nei parametri del mobbing), tuttavia tali da provocarle una modificazione in negativo costante e permanente della sua condizione lavorativa”.
A parte le sottigliezze rilevanti a scopo definitorio (evidentemente indispensabili in senso scientifico-classificatorio, ma non altrettanto in senso giuridico-pratico) il comportamento tenuto dall’A. A. spa in danno del ricorrente è illegittimo, in quanto fondato su un motivo discriminatorio e mosso da un intento espulsivo (e quindi contrario alla buona fede che deve caratterizzare l’esecuzione del contratto di lavoro, come di tutti i contratti). Il suddetto comportamento della convenuta, sia che sia qualificabile come mobbing sia che sia qualificabile come straining (e senza che ciò abbia alcuna ricaduta sulla corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato, che attiene ai fatti –e non alla loro qualificazione- e al titolo delle domande), determina nella stessa il sorgere dell’obbligazione risarcitoria in quanto idoneo a cagionare dei danni al ricorrente.
Esso infatti in quanto tale (cioè in quanto appunto idoneo a cagionare dei danni) rappresenta una violazione dell’obbligo di cui all’art. 2087 cc nonché del principio generale del neminem ledere di cui all’art. 2043 cc, ed è una possibile fonte di responsabilità sia contrattuale che extracontrattuale.
 
Svolgimento del processo
 
Con ricorso depositato il . A. esponeva che: 1) aveva lavorato per la A. A. spa dall’1-3-1997, prima come produttore libero e poi, dall’1-6-1998, dipendente (ispettore di I e di II livello - capo settore), presso la sede di .... e gli ispettorati di ..........; 2) dal mese di marzo 2003 la sua situazione lavorativa era diventata sempre più difficile; 3) le difficoltà si erano accentuate quando era stato nominato il nuovo Agente Generale, Z; 4) egli era infatti stato spostato di ufficio, era stato isolato, non era più stato convocato alle riunioni, non gli erano stati più assegnati i collaboratori, era stato nuovamente trasferito, era stato sottoposto a pressioni e vere e proprie aggressioni da parte del sig. R. anche davanti ai colleghi, ai clienti e perfino a sua figlia, presente casualmente in ufficio un sabato mattina; 5) a causa di tale situazione si era seriamente ammalato di depressione, con gravi ricadute anche sulla sua vita familiare e relazionale; 6) durante la malattia aveva ricevuto diverse visite fiscali, era stato ulteriormente spostato di ufficio, la sua zona era stata ridotta, il suo collaboratore affidato ad altro capo settore, i suoi clienti trascurati; 7) in data 13-4-2004, anche dietro consiglio dei medici che lo avevano in cura, si era dimesso; ciò premesso il ricorrente, evidenziato che i suddetti comportamenti datoriali erano qualificabili come mobbing, chiedeva il risarcimento dei danni biologico, esistenziale e morale subiti, quantificati in € 95.000, ovvero, in subordine, del danno da dequalificazione relativo al periodo dal marzo 2003 al marzo 2004, quantificato in misura pari al 70% delle retribuzioni mensili e quindi in € 12.724; il ricorrente chiedeva anche la condanna della convenuta al pagamento in suo favore dell’indennità di preavviso(pari ad € 5-073,90), essendo state le sue dimissioni sorrette da giusta causa; il tutto oltre alla rivalutazione e agli interessi e con vittoria di spese.
L’A. A. spa si costituiva tempestivamente deducendo che tutte le decisioni prese nei confronti del ricorrente erano state motivate esclusivamente da esigenze tecnico-organizzative; evidenziando che a partire dal 2003 la produzione dello stesso si era inspiegabilmente ridotta in modo drastico; negando che nei fatti di causa si potessero ravvisare ipotesi di mobbing o di dequalificazione; chiedendo il rigetto del ricorso e in via riconvenzionale la condanna del ricorrente al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso e il risarcimento del danno relativo alla cliente C., a cui la società aveva dovuto restituire, a causa di una irregolarità da lui commessa, la somma di € 3.376; il tutto oltre a rivalutazione e interessi e con vittoria di spese.
Con successiva memoria di replica il sig. P. eccepiva l’improcedibilità della domanda riconvenzionale per mancanza del tentativo obbligatorio di conciliazione e nel merito ne chiedeva il rigetto in quanto da una parte egli non aveva avuto alcuna responsabilità in ordine alla vicenda della cliente C., e dall’altra non era tenuto al preavviso (essendo state le sue dimissioni sorrette da giusta causa). L’eccezione di improcedibilità veniva accolta e la domanda riconvenzionale veniva inizialmente stralciata; dopo l’esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione la società peraltro, con ricorso depositato il 20-7-2005, riassumeva il relativo giudizio, che veniva nuovamente riunito al principale.
Dopo l’interrogatorio libero delle parti, l’assunzione dei testimoni, l’acquisizione di documenti, lo svolgimento della CTU e il deposito di note scritte autorizzate, la causa veniva discussa e decisa all’odierna udienza con pubblica lettura del dispositivo.
 
Motivi della decisione
 
Dall’istruttoria svolta è emerso che il P., il cui rapporto di lavoro con la A. A. spa era stato pienamente soddisfacente per molti anni, a partire dal 2001 ebbe una crisi di produttività, le cui motivazioni sono rimaste oscure. Tale crisi, fino a quando l’agente generale fu R. A., venne gestita con gli strumenti tipici per stimolare i dipendenti in crisi motivazionale (trasferimento a ...., colloqui e richiami da parte dell’agente generale; v. dich. testi B.), nell’ambito di un persistente rapporto di fiducia reciproca fra le parti.
Quando però all’A. subentrò il R. vi fu un precipitare di eventi che vennero percepite dal P. come l’inizio di una vera e propria persecuzione.
Il R., che non aveva un modo di fare conciliante con nessuno, con il predetto fu fin dall’inizio particolarmente aggressivo (v. dich. testi C.: “notai che R. lo riprendeva spesso, anche davanti a tutti, talvolta con tono di voce elevato e qualche volta usando delle parolacce; il P. era il produttore che aveva più problemi ma ho sentito qualche volta il R. trattare male altri, solo che con il P. capitava più spesso”; e G.: “quasi tutti i giorni il R. convocava il P. nella sua stanza e sentivo che i due discutevano, più che altro sentivo il R. urlare dicendo al P. che era un incompetente e che doveva andarsene; gli diceva anche parolacce, ad esempio “stronzo”; non ho mai sentito il R. trattare così altri agenti”).
Particolarmente significativo è l’episodio della scenata al cospetto della figlia, confermato dalla teste C. (“P. fece aspettare la bambina in sala d’attesa e andò nel suo ufficio che era a vista; uscì R. e immediatamente si arrabbiò e rimproverò aspramente il P. davanti alla figlia; alzò la voce e ricordo che io rimasi malissimo soprattutto per la bambina; qualche volta capitava che P. passasse in ufficio con i figli questo non aveva mai creato problemi la scenata per me fu inaspettata”) e di cui è facilmente comprensibile il carattere fortemente umiliante per il P. (v. anche dich. teste A., secondo cui era capitato che anche la B. portasse la figlia in ufficio, senza che ciò avesse creato problemi).
L’istruttoria ha inoltre confermato che il R. non perdeva occasione di mettere in cattiva luce il P. sia con i colleghi che con i clienti (v. dich. teste G.: “sia la B. che gli altri agenti di Sondrio, ovvero C., R. e A. mi avevano fatto capire che il P. non era capace nel suo lavoro ed era un ubriacone; in pratica mi avevano parlato male di lui; diversi clienti riferirono al P. in mia presenza durante le nostre visite che il R. aveva parlato male del P. invitandoli a non trattare più con lui ma ad andare direttamente in ufficio”). In questo senso è significativo l’episodio occorso alla cliente P. M., che dovette insistere perché il R. acconsentisse a far presenziare il P., di cui ella da sempre era cliente e in cui aveva piena fiducia, ad un colloquio a cui era stata invitata in sede (v. dich. teste P. M. e C.).
Tuttavia il CTU, psicologo del lavoro tra i maggiori esperti a livello nazionale, dopo aver sottoposto il P. a test specifici, ad un colloquio personale e ad una visita psichiatrica, alla luce degli atti, ha escluso che nel caso di specie ricorra un’ipotesi di mobbing. Lo stesso, dopo aver riconosciuto che “possiamo ritenere a tutti gli effetti che il R. ce l’avesse particolarmente con il P., vuoi per la sua mancanza di risultati, vuoi per fattori caratteriali”, ha precisato che “ciò tuttavia non significa che il R. fosse autore di mobbing ai danni del P.”. E ha aggiunto: “sappiamo infatti che il mobbing è un fenomeno complesso, il cui accertamento obiettivo si basa sulla verifica di sette parametri di riconoscimento ora, anche ammettendo la sistematicità del conflitto tra il R. ed il P. (per quanto non sia possibile appurare l’esatta frequenza degli attacchi) restano avvolti da seri e ragionevoli dubbi almeno i parametri del dislivello tra gli antagonisti (non sembra che il P. fosse del tutto passivo nel confronti con il R., bensì che fosse in grado di opporsi alle sue decisioni e di tener testa alle sue sfuriate) e soprattutto dell’intento persecutorio”. Vi sono poi i comprovati spostamenti di ufficio subiti dal P., che fra l’agosto e il novembre 2003 dovette lasciare la stanza più grande e prestigiosa che aveva sempre occupato, prima per un’altra un po’ meno grande e meno bella, ma sempre funzionale, e infine per uno stanzino molto piccolo, male attrezzato, e mai fino ad allora (e neppure dopo di allora) utilizzato come ufficio, oltre tutto in favore di personale con minore anzianità e di livello inferiore rispetto a lui (v. dich. testi C., G. e A.).
Sul punto il CTU, che ha effettuato anche un sopralluogo presso gli uffici di ..., ha ritenuto che “i due spostamenti di stanza di P. all’interno degli uffici di ... sono avvenuti a breve distanza l’uno dall’altro e sono orientati in senso inequivocabilmente negativo; ciò dimostra che non facevano parte di una misura organizzativa estemporanea, bensì di una strategia aziendale ben precisa di esclusione, rivolta verso un dipendete che si era dimostrato improduttivo e per di più refrattario alle normali strategie di incentivazione, e che quindi era diventato un problema da eliminare”.
Ad avviso del CTU la strategia negativa attuata dall’A. A. spa nei confronti del P., se “non ha le caratteristiche del mobbing in quanto manca quantomeno di frequenza ed azioni adeguate, si inquadra tuttavia nel diverso fenomeno dello straining che si definisce come una situazione lavorativa conflittuale in cui la vittima ha subito azioni ostili limitate nel numero e/o distanziate nel tempo (e quindi non rientranti nei parametri del mobbing), tuttavia tali da provocarle una modificazione in negativo costante e permanente della sua condizione lavorativa”. “Lo straining è una sorta di ‘stress forzato’: ciò significa che la vittima subisce un tasso di stress ben superiore a quello normalmente richiesto dalla sua mansione lavorativa, ovvero che lo stress inflitto alla vittima è superiore a quello dei colleghi o degli altri addetti alla sua stessa mansione o afferenti alla sua stessa qualifica; tale stress viene provocato appositamente e deliberatamente ai suoi danni ;per rilevare una situazione di straining deve poi essere presente e attestata almeno una azione ostile, che abbia una conseguenza duratura e costante a livello lavorativo; la vittima di straining dunque deve aver subito almeno una azione negativa che non si è esaurita, ma che continua a far sentire i suoi effetti a livello lavorativo a lungo termine e in modo costante …; la vittima dello straining deve poi essere confinata in una posizione di costante inferiorità rispetto ai suoi aggressori”.
In conclusione secondo il CTU “da quanto sopra riportato emerge chiaramente come la condizione lavorativa del P. sia cambiata permanentemente in senso negativo dall’agosto 2003 in poi, che egli abbia subito un trattamento discriminante rispetto ai colleghi ed intenzionalmente volto alla sua espulsione e che lo stesso si sia trovato nella condizione di non poter più in alcun modo opporsi all’azione negativa in atto ai suoi danni”, sicché “il P. è stato oggetto di straining da parte dell’azienda convenuta, nel periodo compreso tra il 26-8-2003 (data del primo spostamento di stanza) al 13-4-2004 (data delle sue dimissioni)”.
A parte le sottigliezze rilevanti a scopo definitorio (evidentemente indispensabili in senso scientifico-classificatorio, ma non altrettanto in senso giuridico-pratico) il comportamento tenuto dall’A. A. spa in danno del ricorrente è illegittimo, in quanto fondato su un motivo discriminatorio e mosso da un intento espulsivo (e quindi contrario alla buona fede che deve caratterizzare l’esecuzione del contratto di lavoro, come di tutti i contratti). Il suddetto comportamento della convenuta, sia che sia qualificabile come mobbing sia che sia qualificabile come straining (e senza che ciò abbia alcuna ricaduta sulla corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato, che attiene ai fatti –e non alla loro qualificazione- e al titolo delle domande), determina nella stessa il sorgere dell’obbligazione risarcitoria in quanto idoneo a cagionare dei danni al ricorrente.
Esso infatti in quanto tale (cioè in quanto appunto idoneo a cagionare dei danni) rappresenta una violazione dell’obbligo di cui all’art. 2087 cc nonché del principio generale del neminem ledere di cui all’art. 2043 cc, ed è una possibile fonte di responsabilità sia contrattuale che extracontrattuale. Sul punto il CTU ha indagato quali siano state “per il P. nel periodo di straining le modificazioni negative nei suoi affetti familiari, nelle sue abitudini e modalità di vita nella sua reputazione”, accertando “a seguito degli accertamenti testistici e psicologici e tenuto conto della documentazione medica” un danno esistenziale da straining di grado lieve quantificabile in termini risarcitori in € 5.238,32”. Infine l’accertamento specialistico medico-legale “ha escluso qualsiasi danno biologico permanente ed ha riconosciuto invece un danno temporaneo del 25% limitatamente al periodo di malattia dal 17-1-2004 al 13-4-2004”, che viene liquidata in € 1.290 (€ 15 al giorno per 86 giorni).
L’A. A. spa viene pertanto condannata a pagare in favore del ricorrente a titolo di risarcimento del danno la somma complessiva di € 6.528,32, oltre agli interessi sulla somma devalutata dall’aprile2004 e poi annualmente rivalutata fino al saldo. L’accoglimento della domanda principale di cui al ricorso esime dalla necessità di esaminare quella subordinata (di dequalificazione). Per quanto riguarda il preavviso, alla luce di quanto sopra detto, e cioè dell’illegittimità del comportamento della convenuta e dell’ingiustizia del danno subito dal ricorrente, le dimissioni di quest’ultimo devono ritenersi sorrette da giusta causa (come tali oltre tutto comunicate nella lettera in data 9-4-2004 e accettate dalla prima, che non ha trattenuto la relativa indennità). Né l’A. A. spa ha provato che le ragioni delle dimissioni rassegnate dal P. non andrebbero ricercate nel mobbing (o straining) subito, ma nella decisione dello stesso di avviare un’attività in proprio. Da ciò consegue che al ricorrente spetta, ai sensi dell’art. 2119 cc, l’indennità indicata nel secondo comma dell’art. 2118 c.c. (cfr. Cass. 29.1.1976 n. 285; Cass. 25.7.1969 n. 2818; Cass. 17.5.1968 n.1533).
L’A. A. spa viene pertanto condannata a pagare in favore del ricorrente a titolo di indennità di preavviso la somma di € 5.073,90, oltre alla rivalutazione e agli interessi dal dovuto al saldo. Per converso viene respinta la domanda riconvenzionale avente ad oggetto la stessa indennità. Quanto alla domanda riconvenzionale avente ad oggetto il danno relativo alla cliente C., dall’istruttoria è emerso che in effetti alla stessa era stato unilateralmente aumentato il premio, ma non si sa quando ciò precisamente accadde né a chi sia imputabile l’errore relativo, che irritò molto la cliente. Questa ha dichiarato che nell’immediatezza parlò “con P. il quale mi disse di andare a parlarne in agenzia; io lo feci e fui ricevuta dal R. che mi assicurò che avrebbe messo a posto la cosa … non avendo più notizie mi rivolsi al P. il quale mi disse che era andato via”. E’ evidente quindi che l’episodio si colloca verso la fine del rapporto del P., quando lo stesso fu a lungo ammalato, e quindi è verosimile che non sia a lui imputabile. E’ vero che nella lettera in data 22-2-2005 (v. doc. 13 fasc. conv.) vi sono delle vere e proprie accuse nei confronti del predetto, ma la C. ha spiegato che “tale lettera la scrissi quando vidi che la situazione non si sbloccava e temetti di perdere i miei soldi; in precedenza non avevo mai avuto problemi con l’A. A.”. E’ quindi comprensibile che i toni siano accesi e il contenuto sia accusatorio nei confronti del suo referente nell’A. A. spa (che fino ad allora era appunto stato il P.). In ogni caso non si vede quale sia stato il danno per la convenuta, posto che alla C. fu restituita solo una somma che effettivamente le spettava, e che la polizza è ancora in corso. La relativa domanda riconvenzionale non merita pertanto accoglimento. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
 
P.Q.M.
 
Il Tribunale di Sondrio in funzione di giudice monocratico del lavoro, definitivamente pronunciando in contraddittorio delle parti, così provvede:
1) condanna la A. A. spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, a pagare in favore di A., a titolo di risarcimento del danno esistenziale e biologico, la somma complessiva di € 6.528,32, oltre agli interessi sulla somma devalutata all’aprile 2004 e poi annualmente rivalutata per gli anni successivi fino al saldo;
2) condanna la A. A. spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, a pagare in favore del P., a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, la somma di € 5.073,90, oltre alla rivalutazione e agli interessi dal dovuto al saldo;
3) condanna la stessa società a rifondere al ricorrente le spese di causa che liquida in € 8.000 (di cui € 5.500 per onorari), oltre accessori di legge; 4) pone definitivamente a carico della stessa le spese di CTU, già liquidate con decreto in data 22-11-2006.

Sondrio, 7-6-2007

IL GIUDICE
Dr.sa M.V. Azzolini

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