Ad avviso del CTU la
strategia negativa attuata dall’A. A. spa nei confronti del P., se “non ha
le caratteristiche del mobbing in quanto manca quantomeno di frequenza ed
azioni adeguate, si inquadra tuttavia nel diverso fenomeno dello straining
che si definisce come una situazione lavorativa conflittuale in cui la
vittima ha subito azioni ostili limitate nel numero e/o distanziate nel
tempo (e quindi non rientranti nei parametri del mobbing), tuttavia tali da
provocarle una modificazione in negativo costante e permanente della sua
condizione lavorativa”.
A parte le
sottigliezze rilevanti a scopo definitorio (evidentemente indispensabili in
senso scientifico-classificatorio, ma non altrettanto in senso
giuridico-pratico) il comportamento tenuto dall’A. A. spa in danno del
ricorrente è illegittimo, in quanto fondato su un motivo discriminatorio e
mosso da un intento espulsivo (e quindi contrario alla buona fede che deve
caratterizzare l’esecuzione del contratto di lavoro, come di tutti i
contratti). Il suddetto comportamento della convenuta, sia che sia
qualificabile come mobbing sia che sia qualificabile come straining (e senza
che ciò abbia alcuna ricaduta sulla corrispondenza fra il chiesto e il
pronunciato, che attiene ai fatti –e non alla loro qualificazione- e al
titolo delle domande), determina nella stessa il sorgere dell’obbligazione
risarcitoria in quanto idoneo a cagionare dei danni al ricorrente.
Esso infatti in quanto
tale (cioè in quanto appunto idoneo a cagionare dei danni) rappresenta una
violazione dell’obbligo di cui all’art. 2087 cc nonché del principio
generale del neminem ledere di cui all’art. 2043 cc, ed è una possibile
fonte di responsabilità sia contrattuale che extracontrattuale.
Svolgimento del
processo
Con ricorso depositato il . A. esponeva che: 1) aveva lavorato per la A. A.
spa dall’1-3-1997, prima come produttore libero e poi, dall’1-6-1998,
dipendente (ispettore di I e di II livello - capo settore), presso la sede
di .... e gli ispettorati di ..........; 2) dal mese di marzo 2003 la sua
situazione lavorativa era diventata sempre più difficile; 3) le difficoltà
si erano accentuate quando era stato nominato il nuovo Agente Generale, Z;
4) egli era infatti stato spostato di ufficio, era stato isolato, non era
più stato convocato alle riunioni, non gli erano stati più assegnati i
collaboratori, era stato nuovamente trasferito, era stato sottoposto a
pressioni e vere e proprie aggressioni da parte del sig. R. anche davanti ai
colleghi, ai clienti e perfino a sua figlia, presente casualmente in ufficio
un sabato mattina; 5) a causa di tale situazione si era seriamente ammalato
di depressione, con gravi ricadute anche sulla sua vita familiare e
relazionale; 6) durante la malattia aveva ricevuto diverse visite fiscali,
era stato ulteriormente spostato di ufficio, la sua zona era stata ridotta,
il suo collaboratore affidato ad altro capo settore, i suoi clienti
trascurati; 7) in data 13-4-2004, anche dietro consiglio dei medici che lo
avevano in cura, si era dimesso; ciò premesso il ricorrente, evidenziato che
i suddetti comportamenti datoriali erano qualificabili come mobbing,
chiedeva il risarcimento dei danni biologico, esistenziale e morale subiti,
quantificati in € 95.000, ovvero, in subordine, del danno da
dequalificazione relativo al periodo dal marzo 2003 al marzo 2004,
quantificato in misura pari al 70% delle retribuzioni mensili e quindi in €
12.724; il ricorrente chiedeva anche la condanna della convenuta al
pagamento in suo favore dell’indennità di preavviso(pari ad € 5-073,90),
essendo state le sue dimissioni sorrette da giusta causa; il tutto oltre
alla rivalutazione e agli interessi e con vittoria di spese.
L’A. A. spa si costituiva tempestivamente deducendo che tutte le decisioni
prese nei confronti del ricorrente erano state motivate esclusivamente da
esigenze tecnico-organizzative; evidenziando che a partire dal 2003 la
produzione dello stesso si era inspiegabilmente ridotta in modo drastico;
negando che nei fatti di causa si potessero ravvisare ipotesi di mobbing o
di dequalificazione; chiedendo il rigetto del ricorso e in via
riconvenzionale la condanna del ricorrente al pagamento dell’indennità
sostitutiva del preavviso e il risarcimento del danno relativo alla cliente
C., a cui la società aveva dovuto restituire, a causa di una irregolarità da
lui commessa, la somma di € 3.376; il tutto oltre a rivalutazione e
interessi e con vittoria di spese.
Con successiva memoria di replica il sig. P. eccepiva l’improcedibilità
della domanda riconvenzionale per mancanza del tentativo obbligatorio di
conciliazione e nel merito ne chiedeva il rigetto in quanto da una parte
egli non aveva avuto alcuna responsabilità in ordine alla vicenda della
cliente C., e dall’altra non era tenuto al preavviso (essendo state le sue
dimissioni sorrette da giusta causa). L’eccezione di improcedibilità veniva
accolta e la domanda riconvenzionale veniva inizialmente stralciata; dopo
l’esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione la società
peraltro, con ricorso depositato il 20-7-2005, riassumeva il relativo
giudizio, che veniva nuovamente riunito al principale.
Dopo l’interrogatorio libero delle parti, l’assunzione dei testimoni,
l’acquisizione di documenti, lo svolgimento della CTU e il deposito di note
scritte autorizzate, la causa veniva discussa e decisa all’odierna udienza
con pubblica lettura del dispositivo.
Motivi della decisione
Dall’istruttoria svolta è emerso che il P., il cui rapporto di lavoro con la
A. A. spa era stato pienamente soddisfacente per molti anni, a partire dal
2001 ebbe una crisi di produttività, le cui motivazioni sono rimaste oscure.
Tale crisi, fino a quando l’agente generale fu R. A., venne gestita con gli
strumenti tipici per stimolare i dipendenti in crisi motivazionale
(trasferimento a ...., colloqui e richiami da parte dell’agente generale; v.
dich. testi B.), nell’ambito di un persistente rapporto di fiducia reciproca
fra le parti.
Quando però all’A. subentrò il R. vi fu un precipitare di eventi che vennero
percepite dal P. come l’inizio di una vera e propria persecuzione.
Il R., che non aveva un modo di fare conciliante con nessuno, con il
predetto fu fin dall’inizio particolarmente aggressivo (v. dich. testi C.:
“notai che R. lo riprendeva spesso, anche davanti a tutti, talvolta con tono
di voce elevato e qualche volta usando delle parolacce; il P. era il
produttore che aveva più problemi ma ho sentito qualche volta il R. trattare
male altri, solo che con il P. capitava più spesso”; e G.: “quasi tutti i
giorni il R. convocava il P. nella sua stanza e sentivo che i due
discutevano, più che altro sentivo il R. urlare dicendo al P. che era un
incompetente e che doveva andarsene; gli diceva anche parolacce, ad esempio
“stronzo”; non ho mai sentito il R. trattare così altri agenti”).
Particolarmente significativo è l’episodio della scenata al cospetto della
figlia, confermato dalla teste C. (“P. fece aspettare la bambina in sala
d’attesa e andò nel suo ufficio che era a vista; uscì R. e immediatamente si
arrabbiò e rimproverò aspramente il P. davanti alla figlia; alzò la voce e
ricordo che io rimasi malissimo soprattutto per la bambina; qualche volta
capitava che P. passasse in ufficio con i figli questo non aveva mai creato
problemi la scenata per me fu inaspettata”) e di cui è facilmente
comprensibile il carattere fortemente umiliante per il P. (v. anche dich.
teste A., secondo cui era capitato che anche la B. portasse la figlia in
ufficio, senza che ciò avesse creato problemi).
L’istruttoria ha inoltre confermato che il R. non perdeva occasione di
mettere in cattiva luce il P. sia con i colleghi che con i clienti (v. dich.
teste G.: “sia la B. che gli altri agenti di Sondrio, ovvero C., R. e A. mi
avevano fatto capire che il P. non era capace nel suo lavoro ed era un
ubriacone; in pratica mi avevano parlato male di lui; diversi clienti
riferirono al P. in mia presenza durante le nostre visite che il R. aveva
parlato male del P. invitandoli a non trattare più con lui ma ad andare
direttamente in ufficio”). In questo senso è significativo l’episodio
occorso alla cliente P. M., che dovette insistere perché il R. acconsentisse
a far presenziare il P., di cui ella da sempre era cliente e in cui aveva
piena fiducia, ad un colloquio a cui era stata invitata in sede (v. dich.
teste P. M. e C.).
Tuttavia il CTU, psicologo del lavoro tra i maggiori esperti a livello
nazionale, dopo aver sottoposto il P. a test specifici, ad un colloquio
personale e ad una visita psichiatrica, alla luce degli atti, ha escluso che
nel caso di specie ricorra un’ipotesi di mobbing. Lo stesso, dopo aver
riconosciuto che “possiamo ritenere a tutti gli effetti che il R. ce
l’avesse particolarmente con il P., vuoi per la sua mancanza di risultati,
vuoi per fattori caratteriali”, ha precisato che “ciò tuttavia non significa
che il R. fosse autore di mobbing ai danni del P.”. E ha aggiunto: “sappiamo
infatti che il mobbing è un fenomeno complesso, il cui accertamento
obiettivo si basa sulla verifica di sette parametri di riconoscimento ora,
anche ammettendo la sistematicità del conflitto tra il R. ed il P. (per
quanto non sia possibile appurare l’esatta frequenza degli attacchi)
restano avvolti da seri e ragionevoli dubbi almeno i parametri del
dislivello tra gli antagonisti (non sembra che il P. fosse del tutto
passivo nel confronti con il R., bensì che fosse in grado di opporsi alle
sue decisioni e di tener testa alle sue sfuriate) e soprattutto dell’intento
persecutorio”. Vi sono poi i comprovati spostamenti di ufficio subiti dal
P., che fra l’agosto e il novembre 2003 dovette lasciare la stanza più
grande e prestigiosa che aveva sempre occupato, prima per un’altra un po’
meno grande e meno bella, ma sempre funzionale, e infine per uno stanzino
molto piccolo, male attrezzato, e mai fino ad allora (e neppure dopo di
allora) utilizzato come ufficio, oltre tutto in favore di personale con
minore anzianità e di livello inferiore rispetto a lui (v. dich. testi C.,
G. e A.).
Sul punto il CTU, che ha effettuato anche un sopralluogo presso gli uffici
di ..., ha ritenuto che “i due spostamenti di stanza di P. all’interno degli
uffici di ... sono avvenuti a breve distanza l’uno dall’altro e sono
orientati in senso inequivocabilmente negativo; ciò dimostra che non
facevano parte di una misura organizzativa estemporanea, bensì di una
strategia aziendale ben precisa di esclusione, rivolta verso un dipendete
che si era dimostrato improduttivo e per di più refrattario alle normali
strategie di incentivazione, e che quindi era diventato un problema da
eliminare”.
Ad avviso del CTU la strategia negativa attuata dall’A. A. spa nei confronti
del P., se “non ha le caratteristiche del mobbing in quanto manca quantomeno
di frequenza ed azioni adeguate, si inquadra tuttavia nel diverso fenomeno
dello straining che si definisce come una situazione lavorativa conflittuale
in cui la vittima ha subito azioni ostili limitate nel numero e/o
distanziate nel tempo (e quindi non rientranti nei parametri del mobbing),
tuttavia tali da provocarle una modificazione in negativo costante e
permanente della sua condizione lavorativa”. “Lo straining è una sorta di
‘stress forzato’: ciò significa che la vittima subisce un tasso di stress
ben superiore a quello normalmente richiesto dalla sua mansione lavorativa,
ovvero che lo stress inflitto alla vittima è superiore a quello dei colleghi
o degli altri addetti alla sua stessa mansione o afferenti alla sua stessa
qualifica; tale stress viene provocato appositamente e deliberatamente ai
suoi danni ;per rilevare una situazione di straining deve poi essere
presente e attestata almeno una azione ostile, che abbia una conseguenza
duratura e costante a livello lavorativo; la vittima di straining dunque
deve aver subito almeno una azione negativa che non si è esaurita, ma che
continua a far sentire i suoi effetti a livello lavorativo a lungo termine e
in modo costante …; la vittima dello straining deve poi essere confinata in
una posizione di costante inferiorità rispetto ai suoi aggressori”.
In conclusione secondo il CTU “da quanto sopra riportato emerge chiaramente
come la condizione lavorativa del P. sia cambiata permanentemente in senso
negativo dall’agosto 2003 in poi, che egli abbia subito un trattamento
discriminante rispetto ai colleghi ed intenzionalmente volto alla sua
espulsione e che lo stesso si sia trovato nella condizione di non poter più
in alcun modo opporsi all’azione negativa in atto ai suoi danni”, sicché “il
P. è stato oggetto di straining da parte dell’azienda convenuta, nel periodo
compreso tra il 26-8-2003 (data del primo spostamento di stanza) al
13-4-2004 (data delle sue dimissioni)”.
A parte le
sottigliezze rilevanti a scopo definitorio (evidentemente indispensabili in
senso scientifico-classificatorio, ma non altrettanto in senso
giuridico-pratico) il comportamento tenuto dall’A. A. spa in danno del
ricorrente è illegittimo, in quanto fondato su un motivo discriminatorio e
mosso da un intento espulsivo (e quindi contrario alla buona fede che deve
caratterizzare l’esecuzione del contratto di lavoro, come di tutti i
contratti). Il suddetto comportamento della convenuta, sia che sia
qualificabile come mobbing sia che sia qualificabile come straining (e senza
che ciò abbia alcuna ricaduta sulla corrispondenza fra il chiesto e il
pronunciato, che attiene ai fatti –e non alla loro qualificazione- e al
titolo delle domande), determina nella stessa il sorgere dell’obbligazione
risarcitoria in quanto idoneo a cagionare dei danni al ricorrente.
Esso infatti in quanto
tale (cioè in quanto appunto idoneo a cagionare dei danni) rappresenta una
violazione dell’obbligo di cui all’art. 2087 cc nonché del principio
generale del neminem ledere di cui all’art. 2043 cc, ed è una
possibile fonte di responsabilità sia contrattuale che extracontrattuale.
Sul punto il CTU ha indagato quali siano state “per il P. nel periodo di
straining le modificazioni negative nei suoi affetti familiari, nelle sue
abitudini e modalità di vita nella sua reputazione”, accertando “a seguito
degli accertamenti testistici e psicologici e tenuto conto della
documentazione medica” un danno esistenziale da straining di grado lieve
quantificabile in termini risarcitori in € 5.238,32”. Infine l’accertamento
specialistico medico-legale “ha escluso qualsiasi danno biologico permanente
ed ha riconosciuto invece un danno temporaneo del 25% limitatamente al
periodo di malattia dal 17-1-2004 al 13-4-2004”, che viene liquidata in €
1.290 (€ 15 al giorno per 86 giorni).
L’A. A. spa viene pertanto condannata a pagare in favore del ricorrente a
titolo di risarcimento del danno la somma complessiva di € 6.528,32, oltre
agli interessi sulla somma devalutata dall’aprile2004 e poi annualmente
rivalutata fino al saldo. L’accoglimento della domanda principale di cui al
ricorso esime dalla necessità di esaminare quella subordinata (di
dequalificazione). Per quanto riguarda il preavviso, alla luce di quanto
sopra detto, e cioè dell’illegittimità del comportamento della convenuta e
dell’ingiustizia del danno subito dal ricorrente, le dimissioni di
quest’ultimo devono ritenersi sorrette da giusta causa (come tali oltre
tutto comunicate nella lettera in data 9-4-2004 e accettate dalla prima, che
non ha trattenuto la relativa indennità). Né l’A. A. spa ha provato che le
ragioni delle dimissioni rassegnate dal P. non andrebbero ricercate nel
mobbing (o straining) subito, ma nella decisione dello stesso di avviare
un’attività in proprio. Da ciò consegue che al ricorrente spetta, ai sensi
dell’art. 2119 cc, l’indennità indicata nel secondo comma dell’art. 2118
c.c. (cfr. Cass. 29.1.1976 n. 285; Cass. 25.7.1969 n. 2818; Cass. 17.5.1968
n.1533).
L’A. A. spa viene pertanto condannata a pagare in favore del ricorrente a
titolo di indennità di preavviso la somma di € 5.073,90, oltre alla
rivalutazione e agli interessi dal dovuto al saldo. Per converso viene
respinta la domanda riconvenzionale avente ad oggetto la stessa indennità.
Quanto alla domanda riconvenzionale avente ad oggetto il danno relativo alla
cliente C., dall’istruttoria è emerso che in effetti alla stessa era stato
unilateralmente aumentato il premio, ma non si sa quando ciò precisamente
accadde né a chi sia imputabile l’errore relativo, che irritò molto la
cliente. Questa ha dichiarato che nell’immediatezza parlò “con P. il quale
mi disse di andare a parlarne in agenzia; io lo feci e fui ricevuta dal R.
che mi assicurò che avrebbe messo a posto la cosa … non avendo più notizie
mi rivolsi al P. il quale mi disse che era andato via”. E’ evidente quindi
che l’episodio si colloca verso la fine del rapporto del P., quando lo
stesso fu a lungo ammalato, e quindi è verosimile che non sia a lui
imputabile. E’ vero che nella lettera in data 22-2-2005 (v. doc. 13 fasc.
conv.) vi sono delle vere e proprie accuse nei confronti del predetto, ma la
C. ha spiegato che “tale lettera la scrissi quando vidi che la situazione
non si sbloccava e temetti di perdere i miei soldi; in precedenza non avevo
mai avuto problemi con l’A. A.”. E’ quindi comprensibile che i toni siano
accesi e il contenuto sia accusatorio nei confronti del suo referente
nell’A. A. spa (che fino ad allora era appunto stato il P.). In ogni caso
non si vede quale sia stato il danno per la convenuta, posto che alla C. fu
restituita solo una somma che effettivamente le spettava, e che la polizza è
ancora in corso. La relativa domanda riconvenzionale non merita pertanto
accoglimento. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da
dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale di Sondrio in funzione di giudice monocratico del lavoro,
definitivamente pronunciando in contraddittorio delle parti, così provvede:
1) condanna la A. A. spa, in persona del legale rappresentante pro tempore,
a pagare in favore di A., a titolo di risarcimento del danno esistenziale e
biologico, la somma complessiva di € 6.528,32, oltre agli interessi sulla
somma devalutata all’aprile 2004 e poi annualmente rivalutata per gli anni
successivi fino al saldo;
2) condanna la A. A. spa, in persona del legale rappresentante pro tempore,
a pagare in favore del P., a titolo di indennità sostitutiva del preavviso,
la somma di € 5.073,90, oltre alla rivalutazione e agli interessi dal dovuto
al saldo;
3) condanna la stessa società a rifondere al ricorrente le spese di causa
che liquida in € 8.000 (di cui € 5.500 per onorari), oltre accessori di
legge; 4) pone definitivamente a carico della stessa le spese di CTU, già
liquidate con decreto in data 22-11-2006.