In un paese dalla memoria corta come il nostro, la
tentazione di riscrivere la storia per piegarla alle necessità pratiche del
momento si manifesta in maniera irresistibile nei campi più svariati. Quello
del lavoro, naturalmente, non poteva fare eccezione.
Qualche giorno fa i lavoratori, che si apprestavano a
celebrare in cinque regioni un riuscitissimo sciopero generale, sono stati
accompagnati da un incoraggiante viatico, diffuso via etere dalla trasmissione
di cronaca economica e sindacale che precede il giornale radio delle otto.
Fatto è che nell’occasione, forse perché la giornata era davvero speciale per
limitarsi alla cronaca, i curatori della trasmissione hanno pensato bene di
ampliarne il respiro culturale, aprendone gli orizzonti alla dimensione
storica.
La notizia che si è potuto apprendere, sorseggiando il primo
caffè del mattino, in effetti è sbalorditiva e meritava davvero di essere
comunicata con tanta enfasi e proprio in quell’occasione: i sindacati già alla
metà degli anni ’80 erano favorevoli a “riformare” l’art. 18 dello Statuto,
tant’è che firmarono un documento del CNEL orientato in tal senso; dunque, ne
hanno potuto logicamente concludere i radioascoltatori, perché scioperano oggi
i lavoratori? E che balle stanno a raccontare Pezzotta, Angeletti e soprattutto
il diabolico Cofferati?
Le domande in effetti sarebbero del tutto pertinenti: se non
fossero state indotte da una rivisitazione di
una storia non solo diversa, ma del tutto opposta e con un finale
(provvisorio) che smentisce nella maniera più limpida certe fantasiose
rievocazioni. E’ vero, innanzi tutto, che nel 1985 il CNEL rese noto uno studio
redatto da un giurista di grande valore, Luigi Mengoni, che nel linguaggio di
oggi potremmo definire uomo di centrodestra, e che in vita non nascose mai di
avere un cuore particolarmente sensibile alle ragioni delle imprese. E’ altresì
vero che quello studio conteneva proposte di superamento della regola della
reintegrazione nel posto di lavoro a fronte di un licenziamento illegittimo. Non
è affatto vero che i sindacati abbiano manifestato il benché minimo consenso
rispetto ad idee del genere. E’ ben noto a chiunque si occupi di relazioni
industriali, infatti, che il CNEL è un organismo i cui orientamenti (i più vari
e diversi nel corso del tempo) non sono mai stati espressivi delle posizioni
reali delle parti sociali: dedurre queste ultime richiamandosi ad un parere del
CNEL, in base alla mera circostanza che quest’organismo risulta composto da
rappresentanti delle varie categorie produttive, è operazione assolutamente
arbitraria. Se poi si intende farla con riguardo a vicende ormai alquanto
lontane nel tempo, è difficile sottrarsi alla sensazione che ciò che in realtà
si vuole è influenzare il corso degli avvenimenti di oggi.
La storia, ovvero le posizioni reali dei sindacati negli
anni ’80, furono ben diverse. Forse pochi ricordano che lo Statuto dei
lavoratori, nella sua versione originaria del 1970, non prevedeva nessun tipo
di tutela in materia di licenziamenti per i lavoratori delle imprese con meno
di quindici dipendenti. I sindacati non hanno mai pensato che questo divario
potesse essere reso meno ampio attenuando le tutele previste dallo Statuto; al
contrario si sono sempre battuti per un processo di estensione ancorché
graduale. Per questo sin dai primi anni ’80 Cgil, Cisl ed UIL elaborarono un
disegno di legge di iniziativa popolare per assicurare ai lavoratori delle
piccole imprese una tutela contro i licenziamenti di carattere almeno
risarcitorio. Dopo alterne vicende, sulle quali il parere del CNEL non influì
in alcun modo, la linea sindacale fu coronata da successo: nel 1990 il
parlamento approvò una legge con la quale si estese la sanzione della
reintegrazione a tutti i datori di lavoro (anche ai non imprenditori) che
avessero effettuato un licenziamento illegittimo; e soprattutto si cancellò
dall’ordinamento il recesso ad nutum anche per i lavoratori delle
piccole imprese, che da allora, se licenziati senza giusta causa, possono
ottenere un ristoro economico (ancorché di modesta entità).
Siccome la rivisitazione della storia può però non bastare
per le esigenze contingenti, bisogna darsi da fare anche con la cronaca. Ecco
allora nella medesima trasmissione la solerte giornalista indossare i panni
dell’intervistatrice e dare la parola all’Esperto di turno (quasi sempre lo
stesso a quei microfoni e, soprattutto, uno solo: con apprezzabilissimo senso
del pluralismo), il quale, apposto il timbro di veridicità alla ricostruzione
storica, a domanda risponde che la reintegrazione nel posto di lavoro è una
bizzarria tutta italiana; che altrove la reintegrazione si applica solo ai
licenziamenti discriminatori; e conclude ponendo a sua volta una domanda (nelle
intenzioni e nel tono) definitiva e finale: “Se la difesa dell’art. 18 è una
battaglia di civiltà, come Cofferati pretende, bisogna concludere che i
dipendenti delle piccole imprese lavorano in condizioni incivili”? Fine della
trasmissione.
Quanto alle affermazioni, l’Esperto naturalmente non si
sognerebbe di farle in un consesso di studiosi di diritto del lavoro; ma alla
radio pubblica, avendo a disposizione, e senza contraddittorio, una vastissima
platea di ascoltatori per lo più (ovviamente) ignari di questioni del genere,
qualsiasi cosa si può dire per dar man forte a governo e Confindustria,
nevvero? La reintegrazione nel posto di lavoro è un unicum tutto italiano nel globo terracqueo? Evidentemente Svezia e
Germania, per limitarsi a un paio d’esempi particolarmente pertinenti, devono
essere state spostate recentemente su un altro pianeta. C’è comunque sempre la
prova del nove per aiutare a riportare la discussione su binari minimi di
serietà. Se davvero la nostra normativa in materia di licenziamenti è rigida,
che più rigida non si può, si proponga al sig. D’Amato di scambiare la
legislazione italiana nella sua interezza con quella tedesca, ovviamente
anch’essa nella sua interezza (comprensiva quindi dei pesanti oneri che le
imprese d’oltr’alpe devono sostenere quando effettuano un licenziamento
collettivo). Sarebbe disponibile l’egregio D’Amato? O Confindustria e i suoi
studiosi di complemento sono aperti a confronti soltanto con paesi del terzo
mondo?
La domanda dell’Esperto, come spesso accade alle banalità,
lascia comunque emergere un problema: non quello che l’Esperto vorrebbe, ma
tuttavia un problema reale. E’ evidente il sottinteso: se si accetta che alcuni
lavoratori, a fronte di un licenziamento illegittimo, possano ricevere soltanto
un risarcimento, allora bisogna ammettere che questo rimedio possa essere
generalizzato, parificando la condizione di tutti (verso il basso,
naturalmente), senza ferire nessun diritto fondamentale. Un ragionamento del
genere, schematico ed insidioso al tempo stesso, trascura di ricordare che
ovunque, nelle economie di mercato, la legislazione del lavoro è frutto di un
compromesso fra esigenze delle imprese ed istanze di tutela dei lavoratori. I
termini del compromesso sono naturalmente mutevoli, nel tempo e nei diversi
contesti socio-politici, e risentono di una molteplicità di variabili. E’ molto
diffusa, in particolare, una tecnica normativa che gradua in ragione della
dimensione delle imprese l’intensità delle tutele, differenziandole a seconda
del numero degli addetti. Ciò non vuol dire affatto che le tutele più forti
debbano essere considerate come un privilegio: in primo luogo perché sono il
frutto del compromesso possibile nella situazione data; in secondo luogo perché
la capacità di rivendicazione dei lavoratori più tutelati si riflette sulla
qualità e l’incisività dell’azione sindacale, producendo risultati che
ridondano a beneficio di tutti (anche dei lavoratori, meno protetti, delle
piccole imprese).
Che si tratti di un compromesso mutevole nel corso nel
tempo, del resto, è confermato non solo dalla nostra, ma anche dall’esperienza
di altri paesi proprio in materia di licenziamenti. In Germania il governo
conservatore di Kohl fissò a 10 dipendenti la soglia oltre la quale rendere
praticabile la reintegrazione nel posto di lavoro a fronte di un licenziamento
illegittimo; il primo intervento nell’area del lavoro del governo Schröder è
consistito nell’abbassare quella soglia a cinque dipendenti.
Si tratta di riferimenti che devono fare riflettere. La
soglia dei quindici dipendenti da noi fu stabilita nel 1970 a fronte di una
struttura produttiva assai diversa e meno frammentata dell’attuale. Pur senza
voler ipotizzare estensioni meccaniche, sarebbe forse il caso di prendere atto
oggi che molte piccole imprese esprimono elevate potenzialità in termini
economici; cosicché, ferma restando la legislazione attuale per le imprese al
di sopra dei 15 dipendenti, sarebbe tutt’altro che irragionevole rendere
operante l’art. 18, anche per quelle al di sotto della soglia, in forza di un
criterio selettivo misto, che faccia leva in maniera combinata sul numero degli
addetti e sul fatturato dell’impresa. Va da sé che l’idea può essere raffinata
e comunque che non si tratta di una proposta per l’oggi. Anche per difendere
nella maniera più efficace la legislazione attuale, d’altro canto, forse
varrebbe la pena di proporsi di riprendere il cammino interrotto nel 1990. Più
che per i sindacati, che ne sono certamente consapevoli, ciò vale per
l’opposizione: alla quale, per restituire il senso suo proprio alla parola
“riforme”, si ha il diritto di chiedere un progetto di governo complessivo
della frammentazione che percorre il mercato del lavoro ed un impegno a
contrastare la precarietà nelle diverse forme (in uscita, ma naturalmente anche
in entrata) in cui essa si manifesta e che il Libro bianco e le politiche del
governo della destra vorrebbero approfondire e perpetuare.
Ordinario di diritto del lavoro nell’Un.di Torino
(Pubblicato ne "l’Unità"
dell’8 febbraio 2002 con il titolo La voce
del padrone)
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