I trattamenti più favorevoli da uso
aziendale (non sono necessariamente perpetui ma neppure revocabili
unilateralmente)
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Sommario:
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1.
I requisiti strutturali
dell’uso aziendale
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2.
Il
pregresso orientamento della Cassazione fondato sul carattere negoziale
interindividuale degli usi aziendali riconducibili all’art. 1340 c.c.
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3.
Il nuovo
orientamento assertore della valenza ed efficacia collettiva degli usi
aziendali, analoga a quella dei trattamenti derivanti da contratti
collettivi aziendali
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4.
Configurazione degli usi aziendali quali “fonti sociali” nell’impresa,
soggette a modificazione (anche in peius) da parte delle altre fonti sociali
collettive sovraordinate (contratti aziendali e nazionali)
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5.
Il
similare (ma giuridicamente diverso) caso deciso da Cass. n. 19351/2007,
afferente a revoca di un beneficio non riposante sull’uso aziendale ma su
pattuizione di contratto di durata indeterminata
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1.I
requisiti strutturali dell’uso aziendale
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In
tempi in cui uno degli obbiettivi primari delle aziende è quello della
riduzione dell’incidenza del costo del lavoro, non è infrequente trovarsi di
fronte ad iniziative finalizzate al recupero o alla soppressione delle
concessioni (o delle acquisizioni informali da parte dei lavoratori) di
miglior favore rispetto alla disciplina, legale o contrattuale (da contratto
collettivo nazionale e aziendale), concretizzantisi nella tentata abolizione
di determinati premi periodici di produttività, nella revoca di
gratificazioni una tantum quali ad es. il decennale (o quinquennale) per la
fondazione dell’azienda o per il raggiungimento di una certa anzianità di
servizio, di polizze aziendali sanitarie, di polizze assicurative per
invalidità o morte da infortuni (professionali ed extra) e da malattie, di
riduzioni d'orario, di riconoscimento di festività aggiuntive, di
incentivazioni all'esodo anticipato o al prepensionamento o di similari
trattamenti addizionali, praticati per la generalità dei lavoratori (o
categorie o gruppi di essi), ovvero di benefici di agibilità sindacale
accordati alle Rsa in numero e modalità eccedenti quelle legali o
contrattuali.
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Per dare una risposta al quesito se siano o
meno legittimi i tentativi di revoca unilaterale o se i trattamenti più
favorevoli possano essere dismessi solo a seguito di contrattazioni
aziendali che espressamente ne prevedano la caducazione (ovvero
implicitamente per incompatibilità con la nuova disciplina collettiva
aziendale) o ancora per valutare se i trattamenti di miglior favore siano
invece impermeabili (cioè insensibili) anche nei confronti della
contrattazione collettiva (nazionale o aziendale) e quindi si mantengano
sine die - o in perpetuo (come si
usa dire) - è necessario delineare i vari orientamenti dottrinali e
giurisprudenziali che si sono succeduti nel tempo in tema di “usi
aziendali”.
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Senza dilungarci nell’esame approfondito
della distinzione tra “usi normativi” (presupponenti la c.d.
opinio iuris ac necessitatis, cioè a dire
il convincimento che il comportamento sia imposto al datore di lavoro da un
obbligo legale) e “usi negoziali” o di fatto tra cui vengono fatti
correttamente rientrare gli usi aziendali, – la cui rilevanza postula un
atto di autonomia individuale - va detto che la prassi aziendale si forma
in base alla diffusione a favore di una categoria o gruppo di lavoratori di
benefici fondati sulla spontaneità datoriale (cioè a dire al di fuori di
obblighi di sorta), e dietro reiterazione nel tempo in maniera tale da
determinare nei lavoratori beneficiari la ragionevole aspettativa della loro
continuità al sussistere delle condizioni (e dell’assetto normativo positivo
in cui il beneficio è stato concesso e che ne ha costituito la premessa.
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La continuità dei
benefici addizionali fondati sull’ “uso aziendale” presuppone quindi le
seguenti condizioni:
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a)
la spontaneità del
comportamento datoriale (anche in adesione a sollecitazioni del personale o
del sindacato che lo rappresenta), valutata a posteriori non già
sottoponendo ad accertamento l’atteggiamento psicologico soggettivo del
datore di lavoro ma riscontrando esclusivamente l’oggettiva assenza o
inesistenza di un obbligo (reale o putativo) impositivo del comportamento in
questione;
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b)
la reiterazione del
comportamento nel tempo tale da soddisfare l’affidamento della continuità in
capo al personale (o alla categoria o gruppo) cui il beneficio è concesso;
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c)
la persistenza o
invarianza dell’assetto normativo positivo (legale o contrattuale) o delle
condizioni organizzative aziendali, che hanno determinato originariamente
la concessione liberale e che ne sono state il presupposto determinante.
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2.Il
pregresso orientamento della Cassazione fondato sul carattere negoziale
interindividuale degli usi aziendali, riconducibili all’art. 1340 c.c.
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Un vecchio
orientamento (in via di abbandono da parte della Cassazione) riconduceva i
benefici o trattamenti migliorativi addizionali alla clausola d’uso ex art.
1340 c.c., con effetti di inserimento e d’integrazione del contenuto delle
obbligazioni verso quei lavoratori nei cui confronti l’uso si era formato,
senza estensibilità alla generalità dei lavoratori o ai nuovi assunti che in
futuro si fossero trovati nelle stesse condizioni.
L’uso aziendale determinava l’inserimento della clausola di miglior favore
nei contratti individuali della ristretta cerchia dei lavoratori in servizio
all’epoca in cui l’uso si era formato e si sarebbe mantenuto in perpetuo
indipendentemente da contrarie pattuizioni di fonte collettiva.
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Tale orientamento
risultava espresso nella seguente massima: «Le erogazioni del datore di
lavoro non imposte da legge, né dal contratto collettivo, né da espresse
pattuizioni individuali devono considerarsi come facenti parte
dell’ordinaria retribuzione se corrisposte continuativamente ad una
generalità di dipendenti, atteso che esse – per effetto della prassi, anche
se limitata ad una sola azienda – assumono la natura di emolumento dovuto
per uso aziendale, riconducibile alla natura degli usi negoziali o di fatto,
i quali debbono ritenersi inseriti (ex art. 1340 c.c.) non già nel contratto
collettivo (alle cui eventuali successive modifiche sono insensibili), ma –
salva un’espressa volontà contraria delle parti – in quello individuale, di
cui integrano il contenuto in senso modificativo o derogativo (“in melius”
per il lavoratore) della contrattazione collettiva»
.
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Per la verità
l’orientamento era contraddittorio: a) sia perché costretto, per coerenza
giuridica, a limitare (in astratta teoria) i benefici o trattamenti
migliorativi ai soli lavoratori in servizio all’epoca in cui l’uso aziendale
era sorto, senza estendersi ai nuovi (o futuri) assunti (quando invece si
sa che in un’azienda il potere gestionale datoriale, in un’ottica di
coesione ed uniformità dei rapporti di lavoro, dilata di fatto i trattamenti
migliorativi a coloro che in futuro si troveranno nella stessa condizione
dei colleghi che li hanno preceduti); b) sia perché, argomentando sul piano
dell’individuale, disconosceva una valenza collettiva all’uso aziendale,
equiparabile, negli effetti, al regolamento d’impresa (di emanazione
unilaterale datoriale ma con diffusività regolamentare collettiva) o al
contratto aziendale (pur in assenza di un interlocutore antagonista); c) sia
perché affermava implicitamente o esplicitamente l’irrevocabilità o l’immodificabilità
dei trattamenti più favorevoli i quali, per effetto della compenetrazione
delle clausole d’uso nei contratti individuali, acquisivano prevalenza
(sulle) ed impermeabilità da parte delle fonti collettive per effetto del
disposto dell’art. 2077, 2° comma, cod. civ., che fa salve le condizioni più
favorevoli dei contratti individuali, preesistenti o successivi, nei
confronti dei contratti collettivi, sottraendo tali trattamenti più
favorevoli alla dinamica della successione temporale delle fonti
collettive, suscettibili di modificarli o di abolirli.
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L’irrazionalità o
meglio l’esigenza di sottrarre il carattere della “perpetuità” ai
trattamenti più favorevoli discendenti da uso aziendale, ciò non di meno si
faceva sentire e fu oggetto di una poco felice sentenza della Cassazione
la quale ritenne di poter risolvere il problema legittimando il datore di
lavoro alla “revoca novativa” del pregresso uso aziendale più favorevole,
asserendo che: «…ove sopravvenga un nuovo comportamento contrario del datore
di lavoro, protrattosi univocamente per anni senza manifestazioni di
dissenso dei lavoratori interessati e delle organizzazioni sindacali, è
configurabile la sostituzione dell’uso aziendale anteriore con quello
successivo, benché meno favorevole, ossia una clausola nuova, inserita per
fatti concludenti nei contratti individuali».
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3.
Il nuovo orientamento assertore
della valenza ed efficacia collettiva degli usi aziendali, analoga a quella
dei trattamenti derivanti da contratti collettivi aziendali
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In questo quadro di
incongruenze si giunge – dietro le sollecitazioni critiche della dottrina
- ad un salto di qualità e all’inaugurazione di un nuovo orientamento da
parte della Cassazione, tramite la decisione n. 9690 del 6 novembre 1996.
In questa decisione si osserva che :« l’uso aziendale è stato dalla
giurisprudenza configurato non solo nel caso in cui un determinato
comportamento sia stato reiteratamente tenuto dall’imprenditore nei
confronti di tutti i suoi dipendenti, ma anche quando esso sia tenuto nei
confronti di una ristretta cerchia di dipendenti che abbiano una determinata
qualifica, o nei confronti di ciascun dipendente in un’unica vicenda del
rapporto di lavoro (es. la cessazione del rapporto, n.d.r.). In tali ipotesi
il reiterato comportamento del datore di lavoro fa sorgere l’obbligazione
non solo nei confronti dei beneficiari di tale comportamento, ma anche nei
confronti degli altri dipendenti, che, in tempi diversi e successivi,
conseguiranno la medesima qualifica o si troveranno ad affrontare la stessa
vicenda del rapporto. In questo caso se…il fenomeno viene esaminato sotto il
profilo tipicamente negoziale e interindividualistico, non si riesce a
spiegare come un’isolata attribuzione patrimoniale, effettuata nei confronti
di un lavoratore in una determinata circostanza (nella specie la cessazione
del rapporto di lavoro e la liquidazione del t.f.r.) possa non solo
modificare il contratto di lavoro del dipendente beneficiato (effetto questo
fra l’altro del tutto superfluo, una volta che l’erogazione avvenga alla
fine del rapporto), ma addirittura integrare il rapporto di lavoro degli
altri lavoratori ancora in servizio, facendo sorgere un obbligo
dell’imprenditore…ad effettuare la stessa prestazione patrimoniale, allorché
ciascuno di tali lavoratori abbandonerà l’azienda. Per spiegare l’efficacia
automatica dell’uso aziendale nei confronti dei singoli contratti
individuali di lavoro, sia nell’ipotesi di un comportamento generalizzato
che in quella del comportamento ristretto a singole categorie o ad eventi
determinati, senza poter ricorrere all’art. 1340 c.c. (applicabile solo in
presenza di un uso preesistente al momento della conclusione del contratto)
e senza che sia stata convenzionalmente concordata tale modifica, deve
necessariamente ritenersi che l’uso aziendale (di carattere negoziale e non
normativo) fa sorgere un obbligo unilaterale di carattere collettivo, che
agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la
stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale, sostituendo alle
clausole contrattuali e a quelle collettive in vigore quelle più favorevoli
dell’uso aziendale (art. 2077 c.c.)».
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Secondo questo nuovo orientamento (i cui precedenti si ritrovano in Cass.
29.5.1967, n. 1176; Cass. 19.3.1986, n. 1916; Cass. 9.8.1991, n. 8705,
inedita), le clausole d’uso si inseriscono nei contratti individuali, per
effetto di un meccanismo di disciplina collettiva, similare a quella
aziendale e non per effetto di un meccanismo genetico interindividuale. E la
cosa non è di poco conto giacché – come vedremo successivamente – i
trattamenti migliorativi da uso aziendale, una volta ricondotti in un alveo
genetico di carattere collettivo, perdono le garanzie di “insensibilità” (ex
art. 2077, 2° comma, c.c.) o “impermeabilità” rispetto alle vicende delle
successioni temporali delle fonti collettive (contratti aziendali e
nazionali) e ne seguono conseguentemente le sorti, con effetti di
caducazione o di revoca o di sostituzione da parte di fonti collettive
contemplanti trattamenti anche in peius
.
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Per completezza va
detto che nella vicenda in cui Cass. n. 9690/1996 ha affermato il principio
soprariferito, si verteva nell’ ipotesi di una liquidazione di miglior
favore del t.f.r. (sistema di liquidazione a scaglioni) effettuata
dall’azienda in termini più favorevoli della normativa del ccnl
metalmeccanici in un certo momento storico in cui la magistratura si era
pronunciata a sfavore della clausola collettiva nazionale; pronunciatesi poi
le sezioni unite per la legittimità della clausola meno favorevole del
contratto nazionale, l’azienda aveva revocato il pregresso trattamento di
miglior favore che – sottolinea la Cassazione – non aveva dato luogo ad un
uso aziendale per la mancanza del carattere della “spontaneità” nel
comportamento datoriale (adottato solo sotto timore e per evitare un
ipotetico contenzioso giudiziario).
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Le stesse affermazioni
di genesi e valenza collettiva dell’uso aziendale vengono reiterate dalla
Suprema corte nella decisione n. 13294 del 27 novembre 1999
,
occasionata da una richiesta di percezione da parte di taluni lavoratori
delle stesse incentivazioni al prepensionamento praticate, per ben 8 anni di
seguito, dall’azienda nei confronti dei colleghi al raggiungimento di 30
anni di contribuzione, prima dell’emanazione della l. n. 223/1991 sui
licenziamenti per riduzione di personale e relativa nuova disciplina degli
ammortizzatori sociali. Nel caso di specie la Cassazione ha negato la
ricorrenza dell’uso aziendale, legittimando la mancata corresponsione degli
incentivi al prepensionamento da parte aziendale nella misura e con le
modalità antecedenti alla l. n. 223/91, sostituiti successivamente da
singoli riconoscimenti sulla base di distinti accordi transattivi, in
carenza di un riscontro da parte del Tribunale di una volontà datoriale di
estendere il beneficio migliorativo anche per il futuro. In particolare la
Cassazione ha sottolineato che: «…di uso aziendale, quale fonte di un
obbligo unilaterale di carattere collettivo, che agisce sul piano dei
rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un
contratto collettivo aziendale, si può parlare non già in ragione della mera
reiterazione di un comportamento datoriale favorevole nei confronti di una
pluralità di dipendenti, ma a condizione di poter concretamente individuare
nel comportamento stesso gli elementi dello specifico intento negoziale di
regolare anche per il futuro determinati aspetti del rapporto di lavoro».
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L’orientamento in
ordine all’equiparazione dell’uso aziendale, nei suoi effetti, ad un
contratto collettivo aziendale viene riconfermato successivamente da Cass.
n. 14606 del 10 novembre 2000
che si è trovata ad esaminare un caso pressoché identico a quello di Cass.
n. 13294/1999, caratterizzato dalla negazione aziendale di corrispondere
gli stessi incentivi al prepensionamento (praticati ante legem n. 223/91)
nei confronti di lavoratori che avevano risolto il rapporto di lavoro dopo
l’entrata in vigore della L. n. 223/91, a seguito della quale l’azienda
aveva unilateralmente cessato l’erogazione del beneficio anche in
considerazione – a suo dire – dell’esaurimento del contingente massimo dei
prepensionabili. Al riguardo la Cassazione ha affermato che: «La decisione
unilaterale aziendale di sospendere la prassi di erogare incentivi ai
lavoratori che optano per il prepensionamento è inidonea a far venir meno un
uso aziendale che, secondo il più recente orientamento, agisce sul piano dei
rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un
contratto collettivo aziendale, sostituendo alle clausole contrattuali
collettive in vigore quelle più favorevoli dell’uso aziendale; ai fini di
giudicare della legittimità della cessazione non può prescindersi dalla
valutazione della rilevanza dell’assetto normativo positivo in cui esso si è
manifestato e che inevitabilmente ne ha costituito la premessa, onde
verificare se sussisteva uno specifico intento negoziale di regolare anche
per il futuro determinati aspetti del rapporto di lavoro (il cui
imprescindibile accertamento è demandato al giudice del rinvio)».
Coerentemente ha, pertanto, rinviato ad altro giudice di appello per il
riscontro di sussistenza nell’iniziativa datoriale originaria di miglior
favore dell’intento (o meno) di impegnarsi anche per il futuro, in presenza
di un diverso assetto di diritto positivo, ovvero se l’iniziativa aveva
carattere intrinsecamente contingente e condizionato, sia dal lato
organizzativo sia da quello dall’assetto normativo positivo in cui essa si
è manifestata e che inevitabilmente ne aveva costituito la premessa.
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4.
Configurazione degli usi
aziendali quali “fonti sociali” nell’impresa, soggette a modificazione
(anche in peius) da parte delle altre fonti sociali collettive sovraordinate
(contratti aziendali e nazionali)
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L’orientamento sopra
delineato – con il pregio di un approfondimento chiarificatore ai fini
dell’abbandono del vecchio orientamento fondante l’efficacia degli usi
aziendali sul piano delle obbligazioni individuali e delle norme
civilistiche, ed a favore invece dell’inquadramento degli usi aziendali tra
le fonti collettive endoaziendali – viene poi riconfermato da Cass. n. 1773
del 17 febbraio 2000
.
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La decisione che –
esplicitamente ricollegandosi a Cass. n. 9690/1996 - ci è apparsa come la
più esaustiva sul tema, risottolinea le incongruenze dell’accostamento degli
usi aziendali all’art. 1340 c.c., asserendo che se si dovesse condividere
la riconduzione dei trattamenti migliorativi da uso aziendale all’art. 1340
c.c. (cioè all’ambito delle obbligazioni da contratto individuale) non
solo si dovrebbe distinguere in ragione del momento di assunzione dei vari
dipendenti (poiché il datore di lavoro avrebbe la facoltà di escludere
l’inserzione dell’uso sia nei confronti di coloro che - in quanto già
assunti - ne sono in precedenza rimasti esclusi, sia di coloro che saranno
assunti in futuro, con i quali non è ancora in atto un contratto
individuale). Ciò osservato la Corte conclude, sul punto, che: «…ve n’è a
sufficienza per essere certi della radicale diversità della modifica dei
contratti di lavoro in corso al momento della formazione dell’uso e
dell’influenza su quelli futuri per effetto del comportamento spontaneo e
reiterato, tenuto nei confronti di una collettività di soggetti dal datore
di lavoro, modifica che si attua senza alcun intervento volontaristico delle
parti contrattuali e senza possibilità alcuna di escluderla, neppure nei
confronti dei soggetti assunti successivamente». Tutto ciò convince la
Corte del fatto che - pur senza accedere alle suggestioni delle
impostazioni teoriche che riconoscono nell’impresa una dimensione
naturalmente comunitaria o istituzionale - la necessaria coesione dei
rapporti di lavoro all’interno dell’azienda (determinata dalla identità
dell’organizzazione e dei suoi effetti dinamici) porta ad ascrivere gli usi
aziendali nel novero delle “fonti sociali” collettive endoaziendali, così
come ne fa parte il c.d. regolamento aziendale o d’impresa o di
stabilimento, adottato dall’imprenditore unilateralmente nell’esercizio del
suo potere di iniziativa economica (sempre che, come sovente accade, il
controllo sindacale non sfoci nella conclusione di accordi collettivi
aziendali).
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«Orbene – afferma la Cassazione - è tra le fonti sociali che deve essere
inserito…l’uso aziendale…costituente quindi fonte di obbligazione e di
regolamentazione collettiva dei rapporti di lavoro ai sensi degli artt. 1374
e 1173 c.c.. Il trattamento di miglior favore della collettività dei
dipendenti infatti, al pari del regolamento d’impresa, costituisce anch’esso
espressione del potere di iniziativa economica del datore di lavoro, attuato
con atti volontari che rappresentano una fonte di obbligazioni quando
integrano la fattispecie di uso aziendale, che si risolve in un nuovo
assetto di regolamentazione collettiva dei rapporti di lavoro. La natura di
fonte sociale, e quindi collettiva, dell’uso aziendale, desunta dai principi
generali dell’ordinamento dei rapporti di lavoro, comporta che sia
liberamente modificabile da altre fonti sovraordinate di carattere
collettivo (i contratti nazionali e aziendali) anche in pejus; la modifica
dell’uso può anche essere l’effetto di accordi individuali (poiché il limite
di cui agli artt. 2077 e 2113, co.1°, c.c., opera solo in rapporto ai
contratti collettivi), ma limitatamente alle parti stipulanti (in mancanza
dell’agente sindacale, gli accordi restano individuali anche se conclusi con
tutti i dipendenti interessati: cfr. Cass. n. 2022/1999, che li definisce
contratti individuali plurimi). Non però da un successivo uso aziendale di
segno opposto (come aveva erroneamente affermato Cass. n.2406/1994, n.d.r.),
sia perché la nozione ontologica di uso aziendale presuppone un trattamento
di miglior favore, sia perché non è giuridicamente possibile che si formi un
uso in virtù di comportamenti che sono qualificabili come inadempimento di
preesistenti obbligazioni…. Nei sensi precisati, la Corte conferma dunque
l’affermazione già contenuta nel suo già menzionato precedente (Cass. n.
9690/’96), secondo cui l’uso aziendale agisce sul piano dei singoli rapporti
individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto
collettivo aziendale, affermazione condivisa nella sostanza anche da altre
decisioni che hanno ritenuto gli usi aziendali governati dal principio della
successione temporale di più accordi aziendali (cfr. Cass. 1916/1986 e le
altre già citate)».
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Ne esce la conclusione che i trattamenti migliorativi da uso aziendale non
restano necessariamente in vita sine die, giacché in luogo di essere
indifferenti alle modifiche (anche peggiorative) dei contratti aziendali e
nazionali – come riteneva una giurisprudenza in via di abbandono - possono
dagli stessi contratti collettivi essere soppressi per effetto di
valutazioni globali di opportunità tra gli agenti contrattuali antagonisti a
livello nazionale o aziendale (in cambio, o meno, di altre concessioni) o
dietro convenzione di “non cumulabilità” per intrinseca incompatibilità
delle distinte discipline, come hanno fatto le parti stipulanti il ccnl
13.6.2000 per del settore trasporti all’art. 49 (Sostituzione degli usi)
quando hanno stabilito la loro caducazione implicita, in ragione della
pattuizione secondo cui: «il presente contratto sostituisce ed assorbe tutti
gli usi o consuetudini anche se più favorevoli ai lavoratori, da
considerarsi pertanto incompatibili con l’applicazione di qualsiasi delle
norme poste nel contratto stesso».
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Ne consegue altresì che i benefici
economico-normativi traenti causa da prassi liberali datoriali in ragione
della loro riconducibilità giuridica agli usi negoziali e, secondo
l’orientamento della Cassazione, alle fonti sociali analoghe ai contratti
aziendali, non sono unilateralmente revocabili, ma necessitano del consenso
alla modifica (in tutto o in parte) dell’agente negoziale sindacale
antagonista, rappresentativo e tutore degli interessi dei lavoratori.
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5.
Il similare (ma giuridicamente diverso) caso deciso da Cass. n.
19351/2007, afferente a revoca di un beneficio non riposante sull’uso
aziendale ma su pattuizione di contratto di durata indeterminata
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Apparentemente in
controtendenza potrebbe apparire la recentissima Cass. 18 settembre 2007 n.
19351
(est. Vidiri), la quale è giunta a legittimare la dismissione del beneficio
contrattualizzato in un accordo sindacale del 1956, per via unilaterale
aziendale, a prescindere da una modificazione pattizia del risalente accordo
sindacale.
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La fattispecie è così
sintetizzabile: «Dopo circa 40 anni di costante applicazione, l’Azienda Auto
Trasporti di Bergamo ha disdettato un accordo aziendale del marzo 1956 che
prevedeva abbonamenti gratuiti per i dipendenti collocati a riposo con una
determinata anzianità. Taluni ex dipendenti hanno chiesto al Tribunale di
Bergamo di accertare l’illegittimità della disdetta e di affermare il loro
diritto di continuare a fruire degli abbonamenti gratuiti.
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Essi hanno sostenuto
che l’accordo aziendale doveva ritenersi parte integrante del contratto
nazionale, non disdettato e che comunque non era consentito all’azienda
porre nel nulla un “diritto quesito”. Il Tribunale di Bergamo ha accolto la
domanda e la sua decisione è stata confermata dalla Corte d’Appello di
Brescia. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la
decisione della Corte di Brescia per vizi di motivazione e violazione di
legge.
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La Suprema
Corte (Sezione Lavoro n. 19351 del 18 settembre 2007, est. Vidiri) ha
accolto il ricorso e, pronunciando nel merito, ha rigettato la domanda
proposta dai lavoratori. La contrattazione aziendale – ha affermato la
Cassazione – è distinta da quella nazionale, avendo pari dignità e forza
vincolante, sicché anche i contratti aziendali possono modificare in peggio
quelli nazionali, pertanto è erronea l’affermazione della Corte di Brescia
secondo cui la disciplina del contratto aziendale doveva ritenersi confluita
in quella nazionale. Inoltre, ha osservato la Cassazione, il contratto
aziendale del marzo 1956, essendo a tempo indeterminato, era
validamente disdettabile da parte dell’azienda, in virtù del seguente
principio di diritto: “Il
contratto collettivo, senza predeterminazione di un termine di efficacia,
non può vincolare per sempre tutte le parti contraenti, perché finisce in
tal caso per vanificarsi la causa e la funzione sociale della contrattazione
collettiva, la cui disciplina –
da sempre modellata su termini temporali non eccessivamente dilatati – deve
parametrarsi su una realtà socio-economica in continua evoluzione, sicché a
tale contrattazione va estesa la regola, di generale applicazione nei negozi
privati, secondo cui il recesso unilaterale rappresenta una causa estintiva
ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, che
risponde alla esigenza di evitare – nel rispetto dei criteri di buona fede e
di correttezza nell’esecuzione del contratto – la perpetuità del vincolo
obbligatorio”.
La Suprema Corte ha altresì escluso, la configurabilità, nel caso in
esame, di un “diritto quesito”. Un contratto collettivo successivo – ha
affermato la Corte – può modificare, anche in peggio, per i lavoratori,
istituti che trovano il loro fondamento in precedenti contratti collettivi,
sempre che non si incida su disposizioni inderogabili di legge o in diritti
scaturenti da contratti individuali di lavoro; ed infatti l’unico limite in
materia è dato dalla intangibilità di quei diritti che siano già entrati a
fare parte del patrimonio del lavoratore, quale corrispettivo di una
prestazione già resa o di una fase del rapporto già esaurita. Ne consegue –
ha aggiunto la Cassazione – che la tematica dei “diritti quesiti” attiene
unicamente a queste ultime posizioni, sicché la tutela ad essi garantita
non è certo estensibile a mere pretese alla stabilità nel tempo di normative
collettive più favorevoli o di mere aspettative sorte alla stregua di tali
precedenti regolamentazioni;
come esempio emblematico della problematica scrutinata è stato richiamato
l’istituto dello straordinario, essendosi al riguardo rilevato che il
sindacato, nell’esercizio della sua autonomia negoziale, non può disporre
della maggiorazione per il lavoro straordinario già prestato nella vigenza
del contratto collettivo che tale maggiorazione prevede, per configurarsi in
tale ipotesi un diritto quesito, mentre potrà invece negare (o ridurre per
il futuro) la suddetta maggiorazione essendosi in tali casi in presenza di
una mera aspettativa, inidonea come tale ad assumere la consistenza di un
diritto soggettivo. La Corte ha quindi enunciato, in materia, il seguente
principio di diritto: “Nella successione dei contratti collettivi, seppure
di diverso livello, è consentita una modifica in peius del trattamento
economico dei lavoratori, sempre che non si incida su disposizioni di legge
inderogabili o su istituti regolati sulla base di contratti individuali di
lavoro. Sono in ogni caso fatti salvi quei diritti, già entrati a far parte
del patrimonio del lavoratore quale corrispettivo di una prestazione già
resa e, nell’ambito di un rapporto (o di una sua fase) già esauritasi,
non potendo di contro ricevere
tutela, in mancanza di alcun sostegno normativo, mere pretese alla stabilità
(o alla protrazione nel tempo) di benefici economici e di aspettative
derivanti da precedenti favorevoli regolamentazioni”».
-
All’inizio del paragrafo abbiamo affermato che la decisione si presenta solo
“apparentemente” in controtendenza, giacché essa non contraddice in alcun
modo la tesi della necessità di un accordo sindacale al fine di
legittimamente modificare in peius un beneficio scaturente non già da un uso
aziendale, ma da un previgente accordo sindacale senza durata determinata,
protrattosi nel tempo, dando vita a quello che (solo apparentemente) è
apparso un beneficio da prassi temporalmente reiterata. La recentissima
decisione non si incrocia, pertanto, con i principi di diritto asseriti
dalle precedenti decisioni né li contrasta espressamente o implicitamente;
essa si è imbattuta in una fattispecie in cui il beneficio (poi protrattosi
nel tempo, per 40 anni) degli abbonamenti gratuiti agli autobus di linea per
i pensionati ex dipendenti viene revocato unilateralmente in conseguenza
della disdetta di un accordo sindacale (a tempo indeterminato) in cui lo
stesso beneficio era stato negoziato e che ne era stato la fonte, a
differenza dell’uso aziendale la cui fonte risiede invece in un atto di
liberalità aziendale protrattosi intenzionalmente nel tempo.
-
La Cassazione – facendo corretta applicazione del principio secondo cui non
è ipotizzabile un contratto di durata a tempo indeterminato – ha
legittimato, sulla base di una giurisprudenza pressoché consolidata, la
disdetta o recesso ad nutum dal vecchio contratto (o meglio da una clausola
del vecchio contratto del 1956, contemplante il beneficio in questione per i
pensionati). In conseguenza della disdetta, il beneficio – secondo l’odierna
decisione della Cassazione – sembrerebbe essere venuto automaticamente meno.
-
Se si dovesse desumerne questa conseguenza
di senso comune, su questa conclusione si radicherebbe il nostro parziale
dissenso, talché conviene effettuare una precisazione al riguardo,
confortati in ciò da Cass. 7 marzo 2002 n. 3296
(est. Roselli).
-
Abbiamo visto come l’orientamento consolidato - in tema di contratti
collettivi (aziendali naturaliter inclusi) privi di apposizione di termine
di durata - legittimi la disdetta secondo le regole codicistiche applicabili
agli ordinari contratti (artt. 1372 e 1373 c.c.).
-
Argomenta sul punto Cass. n. 3296/2002: «L'art. 1373 c.c. stabilisce: “Se a
una delle parti è attribuita la facoltà di recedere dal contratto, tale
facoltà può essere esercitata finché il contratto non abbia avuto un
principio di esecuzione” (primo comma). “Nei contratti a esecuzione
continuata o periodica, tale facoltà può essere esercitata anche
successivamente, ma il recesso non ha effetto per le prestazioni già
eseguite o in corso di esecuzione” (secondo comma). Presupposto per
l'esercizio del recesso unilaterale è dunque l'attribuzione, da parte della
legge o del contratto stesso, della relativa facoltà, poiché in difetto
dell'attribuzione vale la previsione del precedente art. 1372, secondo cui
il contratto, dotato di forza di legge tra le parti, “non può essere sciolto
che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge”, con ciò rimanendo
sancito il cosiddetto principio di stabilità. Da lungo tempo si è posta la
questione se tale principio di stabilità debba valere nel caso di contratto
di durata, ossia a esecuzione continuata o periodica, a tempo indeterminato.
-
La tesi negativa, risalente ad epoca precodicistica, si fonda sulla
contrarietà alla libertà di ogni vincolo obbligatorio perpetuo, ossia
destinato a durare all'infinito oppure per tutta la vita dell'obbligato. E
così ad esempio il prestatore di lavoro non potrebbe vincolarsi vita natural
durante, restando sempre salvo il suo potere di dimissioni: ius libertatis
non debet infringi. È poi contemporanea all'entrata in vigore del codice
civile attuale la tesi dottrinale secondo cui la libertà di recesso dal
contratto di durata senza indicazione di termine si configura come principio
generale dell'ordinamento giuridico, ricavabile da numerose disposizioni di
dettaglio (principio di temporaneità). Tesi accolta da questa Corte con
riferimento ai contratti collettivi postcorporativi stipulati senza
determinazione di durata, per i quali si è riconosciuta la possibilità di
farne cessare l'efficacia, previa disdetta, pur in mancanza di una
previsione legale, ricavando la regola dal principio di buona fede
nell'esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.) (Cass., 29 aprile 1993, n.
4507, 9 giugno 1993, nn. 608-610, 20 settembre 1996, n. 8360, 25 febbraio
1997, n. 1694). L'associazione sindacale, dunque, può recedere
unilateralmente dal contratto collettivo a tempo indeterminato poiché
sarebbe contrario al principio di buona fede che essa rimanga vincolata in
perpetuo. E lo stesso deve dirsi per l'imprenditore che abbia stipulato un
contratto aziendale, specie del genere contratto collettivo. Dalle
manifestazioni dell'autonomia collettiva debbono però essere tenuti distinti
i contratti individuali di lavoro, che dei primi costituiscano attuazione.
Il contratto collettivo si colloca infatti all'interno della categoria dei
contratti normativi, ossia di quei contratti che, invece di porre in essere
direttamente un atto di scambio, determinano i contenuti di una futura
produzione negoziale. Le parti del contratto normativo si accordano sulle
condizioni alle quali si atterrano nella futura ed eventuale attività
contrattuale. Nel diritto del lavoro quest'attività si concreta nella
conclusione del contratto individuale, col quale datore e prestatore
recepiscono esplicitamente o implicitamente il contenuto del contratto
collettivo. Col contratto individuale il datore di lavoro non assume alcun
vincolo perpetuo poiché ogni suo obbligo è destinato a cessare o con la fine
del contratto di lavoro oppure, ed al più tardi, con la morte del
lavoratore. Egli non può perciò recedere ad nutum né dall'intero contratto
(art. 1, l. 15 luglio 1966, n. 604) né dalle singole clausole, salvo che il
potere di recesso non gli sia attribuito (art. 1373 cit.) dal contratto
stesso o dalla legge.
-
Ciò significa che il recesso
dell'associazione di categoria dal contratto collettivo “non ha effetto per
le prestazioni già eseguite” (art. 1373, primo comma, cit.) ossia non ha
effetto retroattivo ossia, ancora, non cancella l'efficacia dei contratti
individuali già stipulati. Questi potranno subire modifiche soltanto per
mutuo consenso, manifestato o direttamente dalle parti o indirettamente
attraverso il rinvio, tacito o esplicito, alle nuove determinazioni
dell'autonomia collettiva. In tal senso vedasi già Cass., 8 maggio 2000,
n. 5825, 20 giugno 2001, n. 8404, in termini. In conclusione il recesso
unilaterale dell'imprenditore dal contratto collettivo a tempo indeterminato
non comporta la risoluzione dei contratti individuali in corso, che
rimangono efficaci fino a nuovi e contrari accordi, collettivi o
individuali, ma comporta solo che l'imprenditore non ne sia vincolato in
sede di stipulazione dei nuovi contratti individuali.
La contraria affermazione, che connette al
recesso dal contratto collettivo la caducazione dei contratti unilaterali (rectius:
individuali, n.d.r.) vigenti, non può essere accettata, siccome idonea a
vanificare il fondamentale principio di stabilità dei vincoli dell'autonomia
privata, sancito dall'art. 1372, primo comma, c.c.».
-
La lucidità ed
esaustività delle argomentazioni (che ci ha spinto ad una riproduzione
integrale del nucleo centrale della decisione) ci esime da spiegazioni
senz’altro superlue.
-
Preme soltanto trarre
da quanto sopra la conclusione (espressa, come si suol dire “in soldoni” e
da noi condivisa), secondo cui la disdetta unilaterale non determina il
venir meno del beneficio
trasferito nel contratto individuale dal contratto collettivo di natura
normativa – per carenza di mutuo consenso o di sostituzione della previgente
normativa più favorevole con una collettiva aziendale peggiorativa o
abrogativa della previgente –, fintanto che il sindacato non abbia proceduto
alla rinegoziazione dell’accordo caducato unilateralmente (o delle singole
condizioni del medesimo unilateralmente disdettate, senza perciò stesso
essere poste nel nulla, in assenza di nuova pattuizione convenzionale che
eventualmente le travolga o le ridimensioni).
-
Nella fattispecie del trasporto gratuito per gli ex dipendenti (pattuito 40
anni prima in un contratto aziendale) evidentemente il sindacato – forte dei
successi giudiziari dei pensionati in primo e secondo grado - non ha
ritenuto ancora di porre in discussione, in una presumibilmente prossima
trattativa (a livello aziendale), la questione della disdetta del beneficio,
oggetto del decisum della Cassazione.
-
Invero non va sottaciuto che il beneficio in questione si presenta con
l’aspetto di un privilegio, quantunque modesto al confronto di quelli che
mediaticamente si apprendono e vengono trasparentemente portati in emersione
in capo a svariate corporazioni o caste (quella dei politici in primis); in
attesa della rinegoziazione dell’accordo disdettato, la questione non deve
pertanto considerarsi definita, stante il passaggio del testimone
all’iniziativa del sindacato, agente negoziale creativo delle cd. fonti
sociali.
-
Anche se non potrà non
costituire remora ad una richiesta sindacale di ripristino (anche parziale o
di scambio con altra più ragionevole contropartita) la condivisibile
considerazione – espressa dalla Cassazione nella fattispecie – secondo cui:«
…l'esigenza di efficienza di un servizio di penetrante rilevanza sociale,
quale quello del trasporto, non può essere disgiunta dai principi di
economicità della gestione, che rendono incompatibile la permanenza di
benefici ed agevolazioni gratuite aventi non trascurabile ricadute sul
bilancio di aziende; ed invero dette aziende, seppure operanti sotto la
veste di società capitali, spiegano un servizio di pubblica utilità, la cui
disciplina non può non rispondere ai principi di correttezza e buona fede,
volti a ricalcare nel loro contenuto nel settore privato i principi ex art.
97 Cost. applicabili alla pubblica amministrazione».
Esigenza che, in fattispecie analoga concernente la città di Bologna, ha
indotto la Regione Emilia Romagna a sopprimere – con legge regionale del
1998 – il beneficio del trasporto gratuito agli ex dipendenti (e loro
familiari), incontrando il favore della Cassazione che, nella sentenza 17
maggio 2005 n. 15517, ha rigettato i ricorsi dei ricorrenti ed ha affermato
che:«La disposizione abolitiva del trasporto gratuito, si configura come
norma imperativa e inderogabile, in quanto finalizzata, mediante la
razionalizzazione delle risorse finanziarie e la soppressione delle
agevolazioni dei singoli, alla organizzazione di un servizio pubblico più
efficiente ed accessibile a tutti». Ma in quest’ultimo caso la caducazione
è avvenuta per effetto di legge abrogativa, non già per disdetta unilaterale
datoriale di un accordo sindacale protrattosi nel tempo, disdetta inidonea a
vanificare le obbligazioni assunte dall’azienda nei confronti degli ex
dipendenti, sopprimibili solo dietro accordo sindacale sostitutivo – per cd.
successione temporale – del precedente, anche in senso pacificamente (ed
auspicabilmente per il caso di specie) peggiorativo o sostitutivo con
contropartita eticamente meno opinabile.
-
Tirando le fila da
questa articolata disamina, va – a nostro avviso – affermato che sia per i
benefici sorti da uso aziendale negoziale sia per quelli originati da
accordi sindacali di durata indeterminata, per la loro revoca o modifica è
imprescindibile l’intervento sostitutivo della fonte negoziale di pari
livello o sovraordinata (contratto aziendale o nazionale), inidonea ed
insufficiente risultando allo scopo l’iniziativa unilaterale aziendale.
-
Mario Meucci
Roma, 5 ottobre 2007
Così Cass. 24.5.1991, n. 5903, in
Not.
giurisp. lav.
1992, 320; Cass. 13.12.1986, n. 7483, in
Dir.
prat. lav.
1987, n. 20, 1494.
Così Cass. 28.4. 1988, n. 3220 in
Orient. giur. lav.
1988, 1030; conf.
Cass. 12.4.1986, n. 2589, in
Not. giurisp. lav.
1986, 749;
sostanzialmente conformi Cass. sez. un. 30.3.1994, n. 3134, in
Foro.it.
1994, I, 2114, nonché in
Arg. dir. lav.
1995, 374, con commento critico (a pag. 215) di S. Liebman, Gli usi
aziendali di fronte alle sezioni unite:l’occasione per un bilancio (e
per alcune puntualizzazioni); Cass. sez. un. 17.3.1995, n. 3101, in
Mass. giur.
lav.
1995, con nota di Masini,
Gli usi aziendali:
incertezze giurisprudenziali e prospettive collettive.
Cass. n. 2406 del 12.3.1994, in Dir. lav.1995, II, 104, con nota di
Carpineti.
Eminentemente di S. Liebman,
Individuale e collettivo nel rapporto di lavoro:il problema degli usi
aziendali nella giurisprudenza della Cassazione,
in
Dir. rel. ind.
1991, n.1, 141 e ss.
In
Mass. giur. lav.
1997, 7, con nota di S. Liebman,
Ancora in tema di usi aziendali e contrattazione collettiva.
L’orientamento, al riguardo, è consolidato: si veda,
ex plurimis,
Cass. 18.9.2007 n. 18351 (inedita, in cartaceo allo stato); Cass.
18.12.1998, n. 12716, in
Not. giurisp. lav.
129, n. 9; Cass. 18.2.1998, n.1735,
ivi
1998, 394 (e ivi richiami).
In Riv. it.
dir. lav.
2000,II,598, con nota di L. Castelvetri,
Ma l’uso aziendale
esiste?;
in Mass.
giur. lav.
2000,584 con nota di S. Liebman,
Comportamenti
unilaterali dell’imprenditore, usi aziendali e teoria delle fonti di
regolamentazione del rapporto di lavoro.
In Lav.
prev. oggi,
2001, 142.
In
Riv. it. dir. lav.
2000, II, 598 (con nota di L. Castelvetri); in
Mass. giur. lav.
2000,584 (con nota di S. Liebman).
Sul divieto di modifica unilaterale della prassi da parte datoriale,
vedi Cass. 25.7.1996 n. 6690; sulla necessità della modifica solo
consensuale delle parti, conviene P. Scognamiglio,
Assenza dal lavoro e certificato medico,
in
Guida lav.
n.38/2007, 19, secondo cui: «La prassi, quindi, se esistente e più
favorevole al lavoratore, può essere superata solo da una espressa
manifestazione di volontà delle parti».
Inedita in cartaceo, allo stato.
Così, oltre all’attuale Cass. 18.9.2007 n. 19351, cit., in precedenza
Cass. 4.8.2004 n. 14970; Cass. 23.8.2004 n. 16602; Cass.18.12.2002 n.
14827, in Not. giurisp. lav.
2003, 144, 1 (m.);Cass. 1.7.1998 n. 6427, ivi
1998, 635, 52 (m.);Cass.
25.2.1996 n. 1694, in Dir. lav.
1997, II, 526 con nota di Fantini,
Ultrattività della contrattazione
collettiva e recesso dal contratto collettivo senza predeterminazione di
durata;
Cass. 20.9.1996 n. 8360, in Not. giurisp. lav.
1997, 5; Pret. Biella 7.5.1997,
ivi 1997, 173 (e ivi richiami); Cass.
16.4.1993 n. 4507, ivi 1993,
481; Cass. 9.6.1993 n. 6408, ivi
1994,28; Cass.13.2.1990 n. 1050, ivi
1990, 478. I principi asseriti da queste decisioni sono riassumibili
sostanzialmente nelle seguenti massime:«A seguito della soppressione
dell’ordinamento corporativo (e quindi della inapplicabilità dell’art.
2071, ultimo comma, c.c., che prevedeva che i ccnl avessero un termine
di durata, n.d.r.) e della
mancata attuazione dell’art. 39 Cost., il contratto collettivo spiega la
propria operatività nell’area dell’autonomia privata, per cui la
regolamentazione ad esso applicabile è quella dettata per i contratti in
generale, e non quella dei contratti collettivi; ne consegue che deve
ammettersi la possibilità che accordi collettivi vengano stipulati a
tempo indeterminato, ma in questo caso va ammessa anche la facoltà di
recesso, in quanto essa è rispondente all’esigenza di evitare la
perpetuità del vincolo obbligatorio anche in relazione ai contratti
collettivi di diritto comune». Con la conseguenza che:«Il recesso
unilaterale rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi
rapporto a tempo indeterminato, rispondendo all’esigenza di evitare la
perpetuità del vincolo obbligatorio, la quale è in sintonia con il
principio di buona fede nell’esecuzione del contratto. Da ciò si desume
la normale recedibilità dai contratti collettivi di diritto comune
stipulati senza l’indicazione del termine finale, salvi, tuttavia, i
diritti (cd. diritti quesiti, n.d.r.)
che siano entrati nel patrimonio dei lavoratori per aver questi posto in
essere le condizioni che vi danno titolo» (cfr. sul tema dei cd. diritti
quesiti, Cass. 2.4.2001 n. 4389, in Not. giurisp. lav.
2001,701). Tale giurisprudenza è stata occasionata eminentemente dalle
disdette unilaterali da parte di aziende del settore creditizio e degli
enti pubblici di proseguire (per eccessiva, e presuntivamente asserita
“eccessiva onerosità”) a tempo indeterminato gli impegni assunti (in
accordi sindacali o nei regolamenti) alla contribuzioni a Fondi o Casse
di previdenza interni, al fine di erogare ai pensionati la cd.
previdenza complementare, integrativa di quella obbligatoria dell’AGO.
Il diritto quesito va tenuto opportunamente distinto dalle situazioni
future o dalle fattispecie in via di consolidamento, particolarmente
ricorrenti nel rapporto di lavoro per esecuzione continuata delle
prestazioni. Cass.8.5.2000 n. 5825 (inedita a quanto consta ed in
massima in
Rep. Foro. It.
Lavoro – rapporto – n. 2050 ) ha espressamente rimarcato la necessità di
non confondere i diritti quesiti (consistenti nei benefici già fruiti ed
entrati nel patrimonio del lavoratore per effetto di prestazioni già
rese, benefici non revocabili retroattivamente, ma solo non più fruibili
per il futuro in conseguenza di successiva normativa deteriore
sostitutiva della precedente) con la tutela di semplici pretese alla
stabilità nel tempo di benefici conseguenti a normative collettive più
favorevoli, travolte legittimamente da successive meno favorevoli;
pretese che non strutturano diritti quesiti ma ridondano in mere
aspettative sorte sulla base di normative previgenti caducate, e, in
quanto tali, insuscettibili di tutela giuridica. Così letteralmente
esprimendosi: « …per un verso, l’esistenza di un diritto quesito
presuppone il riconoscimento dell’esistenza ex lege del diritto, il che
è configurabile solo in caso di successione di leggi nel tempo, non
anche nell’ipotesi di successione normativa di origine pattizia, e, per
altro verso, di diritti acquisiti può parlarsi solo con riferimento a
quei diritti già entrati a far parte del patrimonio dei lavoratori, in
relazione ad un evento già maturato, e non con riferimento ad
aspettative sorte sulla base di regole previgenti o a semplici pretese
di stabilità nel tempo di una regolamentazione di origine pattizia».
In Not. giurisp. lav. 2002, 437.
In senso contrario – esprimendo perplessità sul principio affermato da
Cass. n. 3296/2002 – G. Gramiccia,
Recesso del datore di lavoro dal patto collettivo in tema di previdenza
complementare,
in
Mass. giur. lav.
2002, 304 (nota a Cass. n. 3296/2002, ivi pubblicata a p. 302).
I diritti quesiti non
intaccabili dai contratti collettivi sono quelli derivanti da prestazioni già
svolte
Le aspettative non sono
tutelate (Cassazione Sezione Lavoro n. 19351 del 18 settembre 2007, Pres.
Sciarelli, Rel. Vidiri).
L’ATB, Azienda
Auto Trasporti di Bergamo ha disdetto, dopo circa 40 anni di costante
applicazione, un accordo aziendale del marzo 1956 che prevedeva abbonamenti
gratuiti per i dipendenti collocati a riposo con una determinata anzianità.
Franco M. ed altri ex dipendenti hanno chiesto al Tribunale di Bergamo di
accertare l’illegittimità della disdetta e di affermare il loro diritto di
continuare a fruire degli abbonamenti gratuiti.
Essi hanno sostenuto che l’accordo aziendale
doveva ritenersi parte integrante del contratto nazionale, non disdetto e che
comunque non era consentito all’azienda porre nel nulla un diritto quesito. Il
Tribunale di Bergamo ha accolto la domanda e la sua decisione è stata confermata
dalla Corte d’Appello di Brescia. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione,
censurando la decisione della Corte di Brescia per vizi di motivazione e
violazione di legge.
La Suprema Corte
(Sezione Lavoro n. 19351 del 18 settembre 2007, Pres. Sciarelli, Rel. Vidiri) ha
accolto il ricorso e, pronunciando nel merito, ha rigettato la domanda proposta
dai lavoratori. La contrattazione aziendale – ha affermato la Cassazione – è
distinta da quella nazionale, avendo pari dignità e forza vincolante, sicché
anche i contratti aziendali possono modificare in peggio quelli nazionali,
pertanto è erronea l’affermazione della Corte di Brescia secondo cui la
disciplina del contratto aziendale doveva ritenersi confluita in quella
nazionale. Inoltre, ha osservato la Cassazione, il contratto aziendale del marzo
1956, essendo a tempo indeterminato, era validamente disdettabile da parte
dell’azienda, in virtù del seguente principio di diritto: “Il
contratto collettivo, senza predeterminazione di un termine di efficacia, non
può vincolare per sempre tutte le parti contraenti, perché finisce in tal caso
per vanificarsi la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva,
la cui disciplina – da sempre modellata su termini temporali non eccessivamente
dilatati – deve parametrarsi su una realtà socio-economica in continua
evoluzione, sicché a tale contrattazione va estesa la regola, di generale
applicazione nei negozi privati, secondo cui il recesso unilaterale rappresenta
una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo
indeterminato, che risponde alla esigenza di evitare – nel rispetto dei criteri
di buona fede e di correttezza nell’esecuzione del contratto – la perpetuità del
vincolo obbligatorio”.
La Suprema Corte ha
altresì escluso, la configurabilità, nel caso in esame, di un “diritto quesito”.
Un contratto collettivo successivo – ha affermato la Corte – può modificare,
anche in peggio, per i lavoratori, istituti che trovano il loro fondamento in
precedenti contratti collettivi, sempre che non si incida su disposizioni
inderogabili di legge o in diritti scaturenti da contratti individuali di
lavoro; ed infatti l’unico limite in materia è dato dalla intangibilità di quei
diritti che siano già entrati a fare parte del patrimonio del lavoratore, quale
corrispettivo di una prestazione già resa o di una fase del rapporto già
esaurita. Ne consegue – ha aggiunto la Cassazione – che la tematica dei “diritti
quesiti” attiene unicamente a queste ultime posizioni, sicché la tutela ad essi
garantita non è certo estensibile a mere pretese alla stabilità nel tempo di
normative collettive più favorevoli o di mere aspettative sorte alla stregua di
tali precedenti regolamentazioni; come esempio emblematico della problematica
scrutinata è stato richiamato l’istituto dello straordinario, essendosi al
riguardo rilevato che il sindacato, nell’esercizio della sua autonomia
negoziale, non può disporre della maggiorazione per il lavoro straordinario già
prestato nella vigenza del contratto collettivo che tale maggiorazione prevede,
per configurarsi in tale ipotesi un diritto quesito, mentre potrà invece negare
(o ridurre per il futuro) la suddetta maggiorazione essendosi in tali casi in
presenza di una mera aspettativa, inidonea come tale ad assumere la consistenza
di un diritto soggettivo. La Corte ha quindi enunciato, in materia, il seguente
principio di diritto: “Nella successione
dei contratti collettivi, seppure di diverso livello, è consentita una modifica
in peius del trattamento economico dei lavoratori, sempre che non si incida su
disposizioni di legge inderogabili o su istituti regolati sulla base di
contratti individuali di lavoro. Sono in ogni caso fatti salvi quei diritti, già
entrati a far parte del patrimonio del lavoratore quale corrispettivo di una
prestazione già resa e, nell’ambito di un rapporto (o di una sua fase) già
esauritasi, non potendo di contro ricevere tutela, in mancanza di alcun sostegno
normativo, mere pretese alla stabilità (o alla protrazione nel tempo) di
benefici economici e di aspettative derivanti da precedenti favorevoli
regolamentazioni”.
*******
Cass., sez. lav., 18 settembre 2007, n. 19351 –Pres. Sciarelli – Rel. Vidiri -
Pm Sepe (difforme) –Ricorrente: Atb Azienda Trasporti Bergamo Spa ed altro –
Controricorrente: Signorelli ed altri
Contratto collettivo senza predeterminazione di termine di durata – Legittima
disdettabilità – Conseguenze – Effetti estintivi del negozio volti ad evitare la
perpetuità del vincolo obbligatorio.
Il contratto
collettivo, senza predeterminazione di un termine di efficacia, non può
vincolare per sempre tutte le parti contraenti, perché finisce in tal caso per
vanificarsi la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva, la
cui disciplina - da sempre modellata su termini temporali non eccessivamente
dilatati - deve parametrarsi su una realtà socioeconomica in continua
evoluzione, sicché a tale contrattazione va estesa la regola, di generale
applicazione nei negozi privati, secondo cui il recesso unilaterale rappresenta
una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo
indeterminato, che risponde alla esigenza di evitare - nel rispetto dei criteri
di buona fede e di correttezza nell'esecuzione del contratto - la perpetuità del
vincolo obbligatorio.
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato in data 26 marzo 2002 l'Atb Azienda Auto Trasporti
Bergamo s.p.a. proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale di Bergamo
con la quale, in accoglimento della domanda di Matteo Mariani e degli altri
litisconsorti in epigrafe, era stata dichiarata l'illegittimità della disdetta
inviata dalla società alle organizzazioni sindacali dell'accordo aziendale 15
marzo 1956, limitatamente al punto 13 lettere d) ed e) relativo agli abbonamenti
gratuiti per gli agenti a riposo con una determinata anzianità di servizio, con
conseguente accertamento del diritto dei ricorrenti al mantenimento delle
condizioni agevolative.
Dopo la ricostituzione del contraddittorio, la Corte d'appello di Brescia con
sentenza del 1 aprile 2003 rigettava il gravame e condannava la società al
pagamento delle spese del grado.
Avverso tale sentenza l'Atb -Azienda Trasporti Bergamo s.p.a. e l'Atb Servizi
s.r.l. propongono ricorso per cassazione, affidato ad un unico articolato
motivo.
Resistono con controricorso Signorello Gianmaria, Boero Vittorio e gli altri
litisconsorti in epigrafe, che spiegano anche ricorso incidentale condizionato.
Sia i ricorrenti Atb- Azienda Trasporti Bergamo- s.p.a. e Atb Servizi s.r.l. sia
i controricorrenti Signorelli, Boerio e gli altri litisconsorti hanno depositato
memoria difensiva ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
1.
Ai sensi dell'art. 335 c.p.c. il ricorso principale e quello incidentale vanno
riuniti perché proposti ambedue contro la medesima decisione.
2.
Con il ricorso principale viene denunziata violazione degli artt. 1322, 1372,
secondo comma, e 1375 ce. deducendosi in particolare che la decisione della
Corte territoriale è erronea nei suoi presupposti di diritto perché assunta in
violazione dei principi della libertà contrattuale, della temporaneità delle
obbligazioni e della norma che consente il recesso da obbligazioni assunte senza
predeterminazione della durata. In particolare le ricorrenti addebitano alla
impugnata sentenza di avere ritenuto che, nell'ambito di un complessivo assetto
della regolamentazione del rapporto di lavoro, non si determina mai una
scissione sul piano sostanziale fra discipline contrattuali diverse; e
contestano altresì la fondatezza dell'assunto del giudice d'appello secondo cui
le agevolazioni rivendicate avevano "un evidente contenuto economico", di cui si
era tenuto conto nella contrattazione aziendale ed anche nei contratti
successivi al 1956, al fine della determinazione del trattamento economico
complessivo dei dipendenti. Lamentano infine che la Corte territoriale non ha
tenuto nel debito conto che il riconoscimento degli abbonamenti gratuiti per
alcune categorie di dipendenti non ha nulla in comune con la retribuzione
garantita dall'art. 36 Cost., per configurare un beneficio destinato ad operare
anche dopo la cessazione del rapporto, sicché a fronte di esso non era
consentito parlare di "equa retribuzione" in assenza di qualsiasi
controprestazione. Sotto altro versante non poteva sostenersi l'illegittimità
della disdetta della disposizione riguardante gli abbonamenti gratuiti sulla
base della considerazione che detta disposizione costituiva parte integrante
della regolamentazione dettata dalla contrattazione nazionale.
2.1.
Il ricorso principale è fondato e, pertanto, merita accoglimento.
2.2.
Esigenze di un ordinato iter motivazionale portano a premettere qualche
considerazione riguardante alcuni profili del rapporto intercorrente tra
contratto collettivo nazionale di categoria e contratto integrativo aziendale.
2.3.
È opinione seguita, oltre che in dottrina anche in giurisprudenza, che alle
parti sociali è consentito, in virtù del principio generale dell'autonomia
negoziale di cui all'art. 1322 cod. civ., prorogare l'efficacia dei contratti
collettivi, modificare, anche in senso peggiorativo, i pregressi inquadramenti e
le pregresse retribuzioni - fermi restando i diritti quesiti dei lavoratori
sulla base della precedente contrattazione collettiva - nonché disporre in
ordine alla prevalenza da attribuire, nella disciplina dei rapporti di lavoro,
ad una clausola del contratto collettivo nazionale o del contratto aziendale,
con possibile concorrenza delle due discipline. La concorrenza delle due
discipline, nazionale e aziendale, non rientrando nella disposizione recata
dall'art. 2077 cod. civ, va risolta tenuto conto dei limiti di efficacia
connessi alla natura dei contratti stipulati, atteso che il contratto collettivo
nazionale di diritto comune estende la sua efficacia nei confronti di tutti gli
iscritti, nell'ambito del territorio nazionale, alle organizzazioni stipulanti e
il contratto collettivo aziendale estende, invece, la sua efficacia, a tutti gli
iscritti o non iscritti alle organizzazioni stipulanti, purché svolgenti
l'attività lavorativa nell'ambito dell'azienda. I lavoratori ai quali si
applicano i contratti collettivi aziendali possono, pertanto, giovarsi delle
clausole dei contratti collettivi nazionali se risultano iscritti alle
organizzazioni sindacali che hanno stipulato i relativi contratti collettivi
(cfr. in tali sensi : Cass. 26 giugno 2004 n. 11939 cui adde ex plurimis : Cass.
7 giugno 2004 n 10762). E sempre con riguardo al concorso tra i diversi livelli
contrattuali è stato anche precisato che detto concorso va risolto non secondo i
principi della gerarchia e della specialità propria delle fonte legislative,
bensì accertando quale sia l'effettiva volontà delle parti, da desumersi
attraverso il coordinamento delle varie disposizioni della contrattazione
collettiva, aventi tutti pari dignità e forza vincolante, sicché anche i
contratti aziendali possono derogare in peius i contratti nazionali, senza che
osti il disposto dell'art. 2077 c.c., con la sola salvaguardia dei diritti già
definitivamente acquisiti nel patrimonio dei lavoratori che non possono pertanto
ricevere un trattamento deteriore in ragione della posteriore normativa
contrattuale, di eguale o di diverso livello (cfr. tra le tante : Cass. 2 aprile
2001 n. 4839, cui adde, più di recente, Cass. 7 febbraio 2004 n. 2362).
2.4.
Orbene, la decisione della Corte territoriale nell'affermare che la disciplina
del contratto aziendale confluisce in quello del contratto collettivo nazionale
di categoria - sì da determinare un trattamento unitario tale da non consentire
la sola disdetta (unilaterale) di singole clausole della disciplina aziendale
(nel caso di specie : disdetta degli abbonamenti gratuiti a danno di dipendenti
pensionati) - finisce non solo per disapplicare i principi innanzi enunciati
assegnando, nell'ambito dell'assetto delle relazioni industriali, una errata
collocazione alla contrattazione aziendale, ma anche per disegnare una non
condivisibile individuazione dei rapporti tra detta contrattazione e quella
nazionale.
E
la sottolineatura di una differenza di carattere ontologico tra contratto
nazionale e contratto aziendale si rinviene con palmare evidenzia nell'indirizzo
di questa Corte di cassazione, che ha conferito alla contrattazione aziendale
efficacia erga omnes - vincolante cioè anche per i lavoratori non iscritti ai
sindacati stipulanti - ancorando tale soluzione ora alla funzione di
integrazione legislativa ad essa attribuita (cfr. al riguardo: Cass. 25 marzo
2002 n. 4218; Cass. 11 dicembre 2002 n. 17674), ora alla specifica tutela degli
interessi collettivi degli occupati in azienda (così: Cass. 2 maggio 1990 n.
3607), ora infine alla inscindibilità che la suddetta disciplina pattizia
sovente presenta (in questi sensi vedi: Cass. 28 maggio 2008 n. 10353 cit; Cass.
5 luglio 2002 n. 9764. Contra però, e cioè per l'assunto che l'efficacia del
contratto collettivo aziendale è limitata ai soggetti sindacalizzati, vedi:
Cass. 29 gennaio 1993 n. 1102; Cass. 24 febbraio 1990 n. 1403).
2.5.
E che il contratto aziendale si caratterizzi per una sua specificità è
affermazione di generale condivisione nella dottrina giuslavoristica,
evidenziandosi al riguardo come già negli anni 50 del secolo scorso inizi ad
entrare in crisi il sistema di pressoché rigida e chiusa centralizzazione
contrattuale sino allora vigente, per guardarsi alle pattuizioni aziendali o
come strumento per una associazione dei lavoratori alle responsabilità di
gestione delle imprese - e per una contestuale loro compartecipazione ai frutti
dei miglioramenti della produttività di dette imprese - o come una nuovo e
generalizzato assetto delle relazioni industriali, quale quello disegnato dal
Protocollo del 1993, incentrato, come si è detto, su una duplice forma di
contrattazione - una nazionale, avente ad oggetto la regolamentazione del
trattamento economico e normativo dell'intera categoria, e l'altro aziendale,
con efficacia limitata alle singole unità produttive - ciascuna delle quali con
proprie parti contrattuali e con differenti scadenze, seppure coordinate tra
loro al fine di armonizzare la disciplina generale con quella locale.
2.6.
Corollario delle argomentazioni sinora svolte è, dunque, il seguente principio
di diritto :<Il rapporto tra il contratto collettivo nazionale e quello
aziendale, regolato non in base a principi di gerarchia e di specialità proprie
delle fonti legislative, ma sulla base della effettiva volontà delle parti
sociali, si caratterizza in ragione di una reciproca autonomia delle due
discipline (e di un loro diverso ambito applicativo), che ha trovato riscontro
nel mondo sindacale anche nell'assetto delle relazioni industriali nel ruolo ad
esse assegnato dal Protocollo del 23 luglio 1993, volto infatti ad individuare
due livelli contrattuali (nazionale ed aziendale o territoriale) con competenze
separate e predeterminate, ma tra esse coordinate. Ne consegue che seppure il
trattamento economico e normativo dei singoli lavoratori è nella sua globalità
costituito dall'insieme delle pattuizioni dei due diversi livelli contrattuali,
la disciplina nazionale e quella aziendale, egualmente espressione
dell'autonomia privata, si differenziano tra loro per la (loro) distinta natura
e fonte negoziale, con la conseguenza che i rispettivi fatti costitutivi e
estintivi non interagiscono, rispondendo ciascuna disciplina a proprie regole in
ragione dei diversi agenti contrattuali e del loro diverso ambito territoriale>.
2.7.
Va dunque ribadito che la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto,
invece, che il contratto aziendale non potesse essere autonomamente disdettato
se non attraverso una rivisitazione dell'intero e generalizzato contenuto della
contrattazione collettiva, ha finito per disconoscere l'autonomia del contratto
aziendale, nei termini innanzi specificati, trascurando di dare il dovuto
rilievo alla circostanza che - come hanno messo in rilievo le società ricorrenti
- il contratto aziendale aveva nel caso di specie riconosciuto ai dipendenti
dell'Azienda Trasporti un mero beneficio (quello ad abbonamenti gratuiti) che,
per le sue specifiche modalità e per i destinatari che ne usufruivano, esulava
dagli istituti, caratterizzati da una reciproca corrispettività regolati dalla
contrattazione collettiva nazionale.
3.
Per andare in contrario avviso e patrocinare la tesi che il contratto aziendale
non era suscettibile di disdetta non vale poi addurre né la necessità del
consenso del sindacato a tale disdetta né la sussistenza nella fattispecie in
oggetto di diritti quesiti, che per essere cioè definitamene entrati a far parte
del patrimonio del singolo lavoratore sono in ogni caso insuscettibili di
lesione.
3.1.
Ed invero - al di là della di per sé assorbente considerazione che la
concessione di abbonamenti gratuiti anche a favore di familiari di dipendenti
non può essere vincolata alle stesse regole cui soggiacciono emolumenti con
funzione di corrispettivo a prestazioni effettivamente rese - a disvelare
l'infondatezza delle domande avanzate dai lavoratori è la circostanza che il
contratto aziendale, stipulato nel lontano 1956 era un accordo a tempo
indeterminato, del quale non può di certo sostenersi una sorta di efficacia
perpetua per la mancanza di un accordo sulla disdetta ad opera delle parti
stipulanti.
3.2.
La fattispecie in esame può essere, pertanto, regolata dal seguente principio di
diritto " Il contratto collettivo, senza predeterminazione di un termine di
efficacia, non può vincolare per sempre tutte le parti contraenti, perché
finisce in tal caso per vanificarsi la causa e la funzione sociale della
contrattazione collettiva, la cui disciplina - da sempre modellata su termini
temporali non eccessivamente dilatati - deve parametrarsi su una realtà
socioeconomica in continua evoluzione, sicché a tale contrattazione va estesa
la regola, di generale applicazione nei negozi privati, secondo cui il recesso
unilaterale rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di
durata a tempo indeterminato, che risponde alla esigenza di evitare - nel
rispetto dei criteri di buona fede e di correttezza nell'esecuzione del
contratto - la perpetuità del vincolo obbligatorio".
3.3.
Del resto l'enunciazione di un siffatto principio in materia sindacale si pone
in linea con l'indirizzo giurisprudenziale riscontrabile sulla recedibilità ad
nutum di tutti i contratti di diritto privato a tempo indeterminato (cfr. Cass.
4 agosto 2004 n. 14970, cui adde Cass. 23 agosto 2004 n. 16602, per la
riaffermazione della regola che l'istituto del recesso unilaterale ad nutum si
configura come causa estintiva ordinaria, alternativa rispetto al recesso per
giusta causa ed alla risoluzione per inadempimento per qualsiasi rapporto di
durata a tempo indeterminato), anche se lascia impregiudicata, in ragione della
specificità della contrattazione collettiva, la questione - estranea alla
controversia in esame - sull'applicabilità a detta contrattazione collettiva
dell'ulteriore principio, ribadito dal suddetto indirizzo dottrinario, di una
deroga o di una rinunzia pattuita alla recedibilità ad nutum, non ostando a
siffatta pattuizione alcun interesse di natura pubblica o privata (cfr. su tale
derogabilità : Cass. 23 agosto 2004 n. 16602 cit).
3.4.
La permeabilità della impugnata sentenza alle censure mosse dalle società
ricorrenti non viene meno neanche per effetto del ricorso di Signorelli
Gianmaria, Boerio Vittorio e degli altri litisconsorti in epigrafe che – già
pensionati prima del momento in cui la società ha manifestato la propria
intenzione di sciogliersi dall'accordo aziendale - a sostegno della loro
iniziale domanda e della perpetuazione nella sua integrità del beneficio di
abbonamenti gratuiti, hanno con il ricorso incidentale rivendicato
l'intangibilità della loro posizione sul presupposto che nel caso di specie si
fosse in presenza di "diritti quesiti".
3.5.
Come dimostra la presente controversia, nel dibattito giuridico e sindacale
viene sovente richiamato in modo improprio il principio del rispetto dei diritti
quesiti, su cui si riscontra un costante orientamento giurisprudenziale (cfr.
tra le altre : Cass. 7 febbraio 2004 n. 2362).
Appare, quindi, opportuna una puntualizzazione al riguardo.
3.6.
È stato già ricordato che un contratto collettivo successivo può modificare,
anche in peggio, per i lavoratori istituti che trovano il loro fondamento in
precedenti contratti collettivi, sempre che non si incida su disposizioni
inderogabili di legge o in diritti scaturenti da contratti individuali di
lavoro. Ed infatti l'unico limite in materia è dato dalla intangibilità di quei
diritti che siano già entrati a fare parte del patrimonio del lavoratore, quale
corrispettivo - come è stato rimarcato in dottrina ed in giurisprudenza (cfr. in
maniera chiara: Cass. 11 novembre 1988 n. 6116) - di una prestazione già resa o
di una fase del rapporto già esaurita. Ne consegue che la tematica dei "diritti
quesiti" attiene unicamente a queste ultime posizioni, sicché la tutela ad essi
garantita non è certo estensibile a mere pretese alla stabilità nel tempo di
normative collettive più favorevoli o di mere aspettative sorte alla stregua di
tali precedenti regolamentazioni. Come esempio emblematico della problematica
scrutinata è stato richiamato l'istituto dello straordinario, essendosi al
riguardo rilevato che il sindacato, nell'esercizio della sua autonomia
negoziale, non può disporre della maggiorazione per il lavoro straordinario già
prestato nella vigenza del contratto collettivo che tale maggiorazione prevede,
per configurarsi in tale ipotesi un diritto quesito, mentre potrà invece negare
(o ridurre per il futuro) la suddetta maggiorazione essendosi in tali casi in
presenza di una mera aspettativa, inidonea come tale ad assumere la consistenza
di un diritto soggettivo.
3.7.
I compiti di nomofilachia devoluti a questa Corte di cassazione, rafforzati ora
dal d. lgs. 2 febbraio 2006 n. 40 (cfr. al riguardo art. 12 del detto decreto),
inducono ad enunciare il seguente principio di diritto : "Nella successione dei
contratti collettivi, seppure di diverso livello, è consentito una modifica in
peius del trattamento economico dei lavoratori, sempre che non si incida su
disposizioni di legge inderogabili o su istituti regolati sulla base di
contratti individuali di lavoro. Sono in ogni caso fatti salvi quei diritti, già
entrati a far parte del patrimonio del lavoratore quale corrispettivo di una
prestazione già resa e, nell'ambito di un rapporto (o di una sua fase) già
esauritasi, non potendo di contro ricevere tutela, in mancanza di alcun sostegno
normativo, mere pretese alla stabilità (o alla protrazione nel tempo) di
benefici economici e di aspettative derivanti da precedenti favorevoli
regolamentazioni".
4.
I diversi passaggi argomentativi della presente decisione trovano, infine,
conforto anche in un pronunziato della Sezione lavoro di questa Corte, che in
una fattispecie con connotati per più aspetti assimilabili a quelli della
controversia in esame ha concluso negando che i dipendenti pensionati di una
Azienda di Trasporti(nella specie Azienda Trasporti Consorziali di Bologna)
potessero far valere un diritto alla conservazione di una tessera di libera
circolazione (per sé e per i loro familiari) pur dopo la sopravvenuta abolizione
di una siffatta a concessione da parte della contrattazione collettiva. I
giudici di legittimità nell'occasione hanno affermato alla stregua della
legislazione regionale (art. 39, comma 5, della legge regionale dell'Emilia
Romagna 2 ottobre 1998 n. 30) che "La disposizione abolitiva del trasporto
gratuito, si configura come norma imperativa e inderogabile, in quanto
finalizzata, mediante la razionalizzazione delle risorse finanziarie e la
soppressione delle agevolazioni dei singoli, alla organizzazione di un servizio
pubblico più efficiente ed accessibile a tutti" (in questi esatti sensi cfr. in
motivazione: Cass. 17 maggio 2005 n. 15517). Considerazione quest'ultima che non
può non valere, seppure con i dovuti adattamenti, anche nella presente
controversia, in quanto l'esigenza di efficienza di un servizio di penetrante
rilevanza sociale, quale quello del trasporto, non può essere disgiunta dai
principi di economicità della gestione, che rendono incompatibile la permanenza
di benefici ed agevolazioni gratuite aventi non trascurabile ricadute sul
bilancio di aziende; ed invero dette aziende, seppure operanti sotto la veste di
società capitali, spiegano un servizio di pubblica utilità, la cui disciplina
non può non rispondere ai principi di correttezza e buona fede, volti a
ricalcare nel loro contenuto nel settore privato i principi ex art. 97 Cost.
applicabili alla pubblica amministrazione.
5.
Per concludere il ricorso principale va accolto e dichiarato infondato quello
incidentale sicché la sentenza impugnata va cassata.
5.1.
Ai sensi dell'art. 384 c.p.c, essendo state enunciate le coordinate capaci di
portare alla definizione della controversia e non essendo necessari ulteriori
accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito con il rigetto della
domanda proposta dal Signorelli e dai suoi litisconsorti davanti al Tribunale di
Bergamo. Ricorrono giusti motivi - in ragione delle questioni trattate e della
risoluzione ad esse data dai giudici di merito - per compensare interamente tra
le parti le spese dell'intero processo.
PQM
La
Corte riunisce i ricorsi, accoglie il ricorso principale e rigetta quello
incidentale, cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito rigetta la
domanda di Signorelli Gianmaria e degli altri suoi litisconsorti. Compensa tra
le parti le spese dell’intero processo.