-
Violenza
da mobbing sul posto di lavoro
-
1.L’auspicata
attenzione della magistratura per il “mobbing”
- Dopo
analisi sociologiche internazionali (1) e nazionali (2) , dopo indagini dottrinali
giuslavoristiche (3), dopo la presentazione di proposte e disegni di
legge per la prevenzione e repressione del fenomeno (4), dopo
inchieste televisive (quantunque mal condotte (5) e quindi deludenti e diseducative), il “mobbing”
approda nelle aule giudiziarie, ad opera di quei pochi lavoratori e
lavoratrici che - superando le “sacche di omertà” dei colleghi
aziendali e quindi le difficoltà probatorie - hanno avuto il
coraggio di iniziare azioni di risarcimento di danni da
dequalificazione e da pregiudizio
subito nello stato di salute psico/fisica, in conseguenza
delle vessazioni, delle angherie, dell’emarginazione, della sotto
utilizzazione o inedia lavorativa, dei controlli ossessivi, della
disinformazione scientifica e delle persecuzioni disciplinari
di cui sono stati fatti oggetto dai
propri superiori (c.d. “mobbing verticale”) e dai loro
colleghi, tradizionalmente con l’avallo ed il sostegno, anche in
forma di colpevole indifferenza, dei superiori (c.d. “mobbing
orizzontale”).
- Prima
in data 16 novembre 1999 (in
causa Erriquez c. Ergom Materie Plastiche SpA (6)
e poi in data 30
dicembre 1999 (in causa Stomeo c. Ziliani SpA, il Tribunale di
Torino (in veste di giudice unico del lavoro di 1° grado) ha emesso
due decisioni dirette a
sanzionare – invero con una somma secondo noi inadeguata ma
simbolicamente deterrente, liquidata a titolo di
risarcimento di danno a favore delle ricorrenti -
le prevaricazioni, le denigrazioni, le offese alla dignità,
la dequalificazione professionale ed il danno biologico subito da
due lavoratrici, entrambe risoltesi a rassegnare le dimissioni dalle
rispettive aziende.
- La
prima lavoratrice era stata confinata a lavorare ad una stampatrice
in un locale angusto, inibente il contatto con i colleghi, e
costretta a subire le bestemmie e le ingiurie indirizzatele dal
caporeparto nei momenti in cui questi veniva richiesto di interventi
per “guasto macchina”, con
la conseguenza di cadere in “sindrome
depressiva di tipo reattivo con agorafobia” occasionante una
assenza prolungata dal lavoro per diversi mesi; la seconda
lavoratrice, a seguito di sollecitazione alle dimissioni effettuata
in un colloquio pressante direttamente dal
titolare dell’azienda dopo aver questi appreso che il di
lei convivente si era impiegato in un’azienda concorrente,
era rimasta così turbata da cadere in uno stato di crisi
psicologica (con ricorso all’opera del neurologo durante la
conseguente caduta in malattia prolungata per sindrome “depressiva
di tipo reattivo”), era stata nel corso della malattia sostituita
nel lavoro (di impiegata all’ufficio estero, con compiti di
interprete e di traduzioni tecniche in lingua straniera) da una neo
assunta dall’esterno, infine destinata (al rientro dalla malattia)
a compiti dequalificanti di magazzino, rivelatisi talmente
insopportabili da indurla alle dimissioni.
- Nelle
due similari decisioni, il giudice del lavoro del Tribunale di
Torino ha stabilito: “Il “mobbing” (dal verbo inglese
“to mob”, attaccare, assalire), designante in etologia il
comportamento di alcune specie di animali, solite circondare
minacciosamente un membro del gruppo per allontanarlo, è
riscontrabile anche nelle
aziende quando si versa in presenza di ripetuti soprusi da parte dei
superiori ed, in particolare, di pratiche dirette ad isolare il
dipendente dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad
espellerlo; pratiche il cui effetto è quello di intaccare
gravemente l’equilibrio psichico del prestatore, menomandone la
capacità lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando
catastrofe emotiva, depressione e talora persino suicidio.
- Il
datore di lavoro – tenuto ex art. 2087 c.c. a garantire
l’integrità fisio/psichica dei propri dipendenti e, quindi, ad
impedire e scoraggiare con efficacia contegni aggressivi e vessatori
da parte di preposti e responsabili, nei confronti dei rispettivi
sottoposti – è chiamato a rispondere del risarcimento del danno
sofferto (sia biologico sia da dequalificazione professionale) da
liquidarsi in via equitativa, più interessi legali e trasmissione
degli atti di causa alla Procura della Repubblica per le valutazioni
e le eventuali iniziative del caso in relazione a quanto accertato
in corso di giudizio”.
- Come
ha riconosciuto Cass. 20 aprile 1998, n. 4012 (7)
in una fattispecie di lavoratore bancario colpito da grave malattia
nervosa in seguito a tre rapine nella Filiale ove operava –
favorite dal mancato approntamento aziendale delle misure di
sicurezza tecnologicamente più avanzate
e quindi da violazione dell’art. 2087 c.c. – nel caso in
cui ad un inadempimento datoriale si accompagnino per il lavoratore
pregiudizi alla salute (depressione, infarti, ecc.), il lavoratore
può agire congiuntamente per il risarcimento del “danno
biologico” (lesione dell’integrità psico-fisica) e per il
risarcimento del “danno morale” – che l’art. 2059 c.c.
ricollega alla ricorrenza di un reato – perché la violazione
datoriale delle norme a tutela della salute (art. 2087 c.c.) come
della professionalità (art. 2103 c.c.), quando determini
casualmente danni all’integrità psico-fisica, attualizza il reato
di “lesioni personali colpose” ex art. 590 c.p. “atteso
che le lesioni colpose costituiscono proprio quella fattispecie
criminosa tipica, procedibile d’ufficio (art. 590 c.p.), che
giustifica il risarcimento dei danni morali (art. 2059 c.c. e 185
c.p.)”(così
Cass. n. 4012/1998, cit.).
- Resta
pacificamente autonoma e praticabile disgiuntamente l’azione
penale (diversa da
quella risarcitoria in sede civile per i danni morali) nei confronti
dei responsabili aziendali (superiori) e/o dei colleghi “mobber”
(responsabili di aver posto in essere pratiche vessatorie ed
emarginanti, determinative di dequalificazione e forzata inattività,
fonte di pregiudizi alla salute), ai fini dell’irrogazione delle
pene restrittive della libertà personale ex art. 590 c.p.
- Naturalmente
il lavoratore o la lavoratrice si debbono ben guardare da
intraprendere iniziative giudiziarie, sia in sede civile che penale,
caratterizzate dall’addebito di “mobbismo” (o di molestie
sessuali) se non hanno la ragionevole certezza di poter provare
(anche per testi) gli addebiti, perché – come ha avuto modo di
sancire la Cassazione nella recente decisione dell’ 8 gennaio
2000, n. 143 (in causa Filonardi c. Henkel
SpA (8)
– l’impossibilità di provare gli addebiti, pur in presenza di
un inequivoco clima di omertà aziendale (giudizialmente
riconosciuto), legittima il datore di lavoro anche al licenziamento
per “vulnerazione del requisito fiduciario” insito nel
rapporto di lavoro, a seguito di un addebito risoltosi in
diffamazione o denigrazione di un responsabile aziendale, anche in
considerazione del fatto che la patologia indotta (nella
fattispecie, ed in via di normalità) dal
mobbing “aveva
prodotto - ad avviso della
Cassazione (n.d.r.) - uno
stato di alterazione emotiva ma non una malattia limitante la
capacità di intendere e di volere”
della dipendente accusatrice.
- Le
attuali decisioni del Tribunale di Torino (rese in sede civile)
erano state precedute da un analogo interessamento della
magistratura penale rivolto nei confronti dei c.d. “confinati
all’inattività” nella palazzina Laf dell’Ilva di Taranto, ove
da sede dell’ex laminatoio a freddo - divenuta poi spettrale
ricordo di un’era finita - aveva ricominciato a ripopolarsi
dal maggio 1997 (raggiungendo il numero di oltre 70 presenze
all’inizio del 1998), tramite l’invio ad opera della Direzione
aziendale di
“impiegati” che non avevano accettato la richiesta di
“novazione” del rapporto di lavoro impiegatizio in quello di
“operaio”, a parità di stipendio. Quel gruppo di ex impiegati
era finito per diventare una folla di nulla facenti, vagolanti nei
lunghi corridoi o stanziale con gli occhi fissi sui muri degli
uffici spogli, ridefiniti “reparto confino” (di infausta memoria
ante Statuto dei
lavoratori) o “palazzina lager” o “ufficio spauracchio”, in
considerazione dell’attesa finalità aziendale di piegare per tal
via i riottosi alla
soluzione dequalificante della
“reformatio in peius”
del loro rapporto di lavoro, con trasformazione da impiegati in
operai. Fino a che, nel novembre 1998, il
locale procuratore della Repubblica Francesco Sebastio è
arrivato con i carabinieri, ha fatto uscire i 79 lavoratori presenti
e ha messo i sigilli sulla palazzina sequestrardola come possibile
corpo di reato. Come asserisce l’estensore dell’articolo “Professione
nullafacente: pagati per non lavorare”, pubblicato su
“Correre Lavoro” (supplemento del Corriere della sera) del 21
gennaio 2000, p. 3 – “era
quello il primo passo che ha portato il 15 dicembre 1999
all’apertura di un processo contro Emilio Riva, suo figlio Claudio
ed altri 10 dirigenti Ilva, con le imputazioni di tentata violenza
privata e di frode processuale. Un procedimento che per ora si è
fermato alle premesse e che verrà ripreso il 28 marzo 2000, ma che
sicuramente rappresenta il primo processo per “mobbing”, mai
intentato contro un imprenditore”. Naturalmente l’azienda
nega il “mobbing” collettivo e sostiene trattarsi di un “reparto
di attesa per dipendenti oramai privi di un posto di lavoro in Ilva,
l’unico modo per evitarne il licenziamento”(7 bis).
- 2.
Definizione
e caratteristiche del mobbing
- Con
l’evidenziazione delle statuizioni giuridiche e la
rappresentazione di realtà effettuali il lettore ha chiaramente
percepito il fenomeno del “mobbing”, ovverosia
di quella subdola violenza che viene attualizzata nei posti
di lavoro, eminentemente a danno di impiegati e personale direttivo
particolarmente qualificato, e perciò stesso inviso ed osteggiato
da coloro che intendono mantenere uno stile di vita aziendale
scadente, burocratizzato e deprofessionalizzato. Non
è tuttavia superfluo un approfondimento di carattere
scientifico e comparativo, al fine di mettere più chiaramente in
luce le caratteristiche di questa pratica vessatoria.
- Il
“mobbing” oramai è una realtà studiata ed assodata e si stima
che in Europa oltre l’8% dei lavoratori sia stato oggetto di
intimidazioni o soprusi da parte di persone in organico alla stessa
azienda. Tradotto in numeri ciò significa che i “mobbizzati”
sono stati circa 12 milioni nel vecchio Continente, di cui almeno un
milione in Italia, ove l’indagine sul fenomeno ha preso piede
molto più tardi.
- Si
definisce “mobbing” – dal verbo
inglese “to mob” (significante “assalto di gentaglia o
plebaglia”), e dal latino “mobile
vulgus” (che significa appunto “il movimento della
gentaglia”) – l’aggressione della gentaglia d’ufficio nei
confronti del novellino, del più bravo e del più ambizioso. Il
vocabolo “mobbing” è molto usato anche nel mondo animale per
descrivere il comportamento di aggressione del “branco nei
confronti di un animale o esemplare isolato”.
- Si
può quindi definire “mobbing” – quale violenza sul posto di
lavoro – la “aggressione” sistematica posta in essere dal
datore di lavoro o da un suo preposto o superiore gerarchico oppure
anche da colleghi o compagni di lavoro, con chiari intenti
discriminatori e persecutori, protesi ad emarginare progressivamente
un determinato lavoratore nell’ambiente di lavoro ed ad indurlo
alle dimissioni, per ragioni di concorrenza, gelosia, invidia o di
altro comportamento o sentimento socialmente deprecabile.
- Per
comprendere la violenza da “mobbing” bisogna rifarsi alle
indagini ed agli scritti del primo e del più autorevole studioso di
questa patologia: Heinz Leymann (nell’opera “Il
contenuto e lo sviluppo del mobbing sul lavoro”, risalente al
1990, cui ha fatto seguito, nello stesso decennio, “Il
mobbing sul lavoro e lo sviluppo delle malattie post-traumatiche da
stress”).
- Le
indagini furono effettuate inizialmente in Svezia negli anni ’80
ed evidenziarono come il “mobbing”
sul lavoro (che ha come corrispondente il “bullismo” tra
gli studenti ed il “nonnismo” nella vita militare) fosse una
incisiva forma di prepotenza, vessazione, molestia e di stress
sociale sul posto di lavoro, che si caratterizzava
sia nelle forme minori dell’isolamento sociale di una
persona, nel tenerlo
scientificamente all’oscuro delle informazioni aziendali
indispensabili per lo svolgimento del lavoro, nel chiacchiericcio o
dicerie inventate su di esso a fini di screditamento, sia nelle
manifestazioni più pesanti consistenti nel privarlo di lavoro e
lasciarlo inattivo e privo di ruolo, ovvero nell’assegnargli
compiti ed incarichi al disotto o al disopra della sua
qualificazione professionale a fini di porlo in difficoltà, nelle
minacce di cacciarlo dall’azienda o nelle violenze fisiche.
L’intento ed il risultato finale delle iniziative persecutorie da
“mobbing” era (e resta) quello di indurre la vittima a lasciare
l’azienda, tramite normalmente atto di dimissioni o pensionamento
anticipato in ragione dell’insostenibilità psicologica della
situazione stressante.
- Leymann
definisce il “mobbing” sul lavoro “una
forma di terrorismo psicologico che implica un atteggiamento ostile
e non etico posto in
essere in forma
sistematica - e non occasionale o episodica – da una o più
persone, eminentemente nei confronti di un solo individuo il quale,
a causa del mobbing, viene a trovarsi in una condizione indifesa e
fatto oggetto di una serie di iniziative vessatorie e persecutorie.
Queste iniziative debbono ricorrere con una determinata frequenza
(statisticamente: almeno una volta alla settimana) e nell’arco di
un lungo periodo di tempo (statisticamente: per almeno sei mesi di
durata). A causa dell’alta frequenza e della lunga durata del
comportamento ostile, questa forma di maltrattamento determina
considerevoli sofferenze mentali, psicosomatiche e sociali”.
- La
definizione di “mobbing” esclude dal suo campo i “conflitti
temporanei” e focalizza l’attenzione sul momento in cui la
durata e l’intensità del comportamento vessatorio determina
condizioni patologiche dal punto di vista psichiatrico o
psicosomatico. In altre parole – come dice Leymann -
la distinzione tra “conflitto” sul lavoro e “mobbing”
non consiste su “ciò” che viene inflitto alla vittima e sul
“come” viene
inflitto, ma piuttosto sulla “frequenza” e “durata” di
qualsivoglia trattamento vessatorio venga inflitto. Si distingue,
infine, dal “bullismo” studentesco
o dal “nonnismo” militare perché mentre queste ultime
forme di aggressione sono fortemente caratterizzate da atti
di violenza o minaccia fisica, il “mobbing” sul posto di lavoro
raramente sfocia in violenza fisica ma è caratterizzato da “comportamenti
subdoli e molto più sofisticati”.
- Non
è difficile per ciascuno di noi riscontrare nelle innanzi
sinteticamente riferite vessazioni la maggior parte delle forme di
prevaricazione, di sopruso e di aggressione tramite cui prende forma
quella tipica violenza nei posti di lavoro che va sotto il nome di
“mobbing”. Patologia che ha determinato nel nostro Paese una
serie di siti Internet (9) dotati anche di “forum” in cui le
vittime si scambiano le loro esperienze (ove emerge una realtà
drammatica nella Pubblica amministrazione, nel settore del credito
e, a scalare, nelle realtà industriali
e commerciali del Paese), la costituzione di un “Movimento
Italiano Mobbizzati Associati” (10), la fondazione di una
Associazione di ricerca sul
“mobbing”, con compiti anche di assistenza legale (11), l’attiva operatività del Centro di disadattamento
lavorativo operante presso la Clinica del Lavoro di Milano (12), ed
infine la presentazione di sei iniziative di legge sulla repressione
del “mobbing”, già citate in precedenza in nota 4. Queste
ultime iniziative (ancora insufficienti allo scopo repressivo, in
quanto non configurano, esclusion fatta per la p.d.l. n. 1813/’96
dell’On. Cicu e per la p.d.l. n. 6667 dell’On. Fiori, il
“mobbing” quale reato penalmente rilevante) prevedono in sintesi
(in particolare il d.d.l. n. 4265/1999 e n. 4512/2000): a) la
definizione di mobbing consistente, in piena aderenza con quanto
innanzi esposto, in “violenze
morali e persecuzioni psicologiche…poste in essere da colleghi o
superiori, con carattere sistematico, duraturo ed intenso”; b)
la tipologia esemplificativa delle pratiche strutturanti il
“mobbing, tra cui rientrano “gli
atti vessatori, persecutori, le critiche ed i maltrattamenti verbali
esasperati, l’offesa alla dignità, la delegittimazione
d’immagine, la rimozione da incarichi già affidati,
l’immotivata marginalizzazione (o esclusione) dalla normale
comunicazione aziendale, la sottostima sistematica dei risultati,
l’attribuzione di compiti molto al di sopra delle possibilità
professionali o della condizione fisica o di salute,in trasferimenti
non oggettivamente motivati ed in altri atteggiamenti di carattere
manifestamente vessatorio ed ingiustificato che modificano la
personalità del lavoratore e che possono indurlo ad abbandonare il
lavoro”(tramite le
dimissioni, n.d.r.);
c) la responsabilità del datore di lavoro, quale capo
dell’impresa, per gli atti di mobbing posti in essere dai
sottoposti; d) la sanzionabilità disciplinare degli atti di
“mobbing orizzontale” e il diritto del vessato al risarcimento,
dietro liquidazione equitativa giudiziale, del danno (morale,
biologico e professionale); d) l’impugnabilità entro 6 mesi dalla
cessazione del rapporto, ex art. 2113 c.c., delle “conseguenze
per gli atti derivanti dalle violenze psicologiche, ipotizzati nella
variazione delle qualifiche, nelle mansioni, negli incarichi, nei
trasferimenti nonché nelle dimissioni determinate da azioni di
violenza morale e persecuzione psicologica”.
- Al
riguardo va detto che le proposte di legge n. 1813/1996, n.6667/2000
e n. 6410/1999 sono state assegnate congiuntamente all’esame della
XI Commissione Lavoro della Camera e n’è già iniziata la
discussione, che – peraltro e
com’era scontato – ha visto, nella seduta del 22 marzo
2000, prese di posizione “partigiane” e “frenanti” da parte
dei rappresentanti delle forze politiche di centro destra, ad opera,
prima, dell’On. le
“imprenditrice” Prestigiacomo (FI), che ha
asserito la necessità di evitare che “si introducano
delle normative che prestino il fianco ad un utilizzo strumentale da
parte dei lavoratori, legando le mani agli imprenditori e quindi
ostacolandoli nella loro funzione direttiva”, e, poi,
dell’On. le Lo Presti (AN) che, nell’associarsi alle
considerazioni dell’On. le Prestigiacomo, ha sostenuto che “bisogna
evitare di introdurre paletti eccessivamente rigidi di intralcio
alla gestione discrezionale dell’imprenditore” (13). Nel
rivendicare la
conservazione del potere direttivo e discrezionale per le imprese
unitamente all’esigenza di impedire un “uso strumentale”
dell’emananda normativa da parte dei lavoratori, le forze della
conservazione dimenticano che finora sono stati i lavoratori le sole
vittime di un “uso strumentale” delle pratiche di mobbing da
parte delle imprese, specie (ma non solo) di quelle impegnate in
fusioni e concentrazioni. Quest’ultime, infatti,
per privarsi di lavoratori “scomodi” e ridurre la
consistenza degli esuberi attraverso le dimissioni indotte, hanno
utilizzato le pratiche di mobbing come “strategia di riduzione del
personale”, ammettendo pubblicamente – come ha fatto il
Direttore Risorse umane della Zanussi nella trasmissione di Rai due
del 17 gennaio 2000, citata in nota 5 –
che l’emarginazione e l’accantonamento da mobbing doveva
considerarsi in una
certa misura fisiologico ed essere ritenuto ‘male minore’ in un
Paese come il nostro in cui i licenziamenti discrezionali (o
monetizzati) non sono consentiti (e per la cui regressiva
reintroduzione è stata approntata la consultazione referendaria
Radicale finalizzata alla soppressione dell’art. 18 dello Statuto
dei lavoratori, unitamente alle varie proposte di legge abolitrici
del diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro in caso di
licenziamento ingiustificato ed introduttive, in alternativa, della
soluzione monetizzante che ci riporterebbe indietro alla situazione
normativa degli anni ’60).
-
3.
I danni all’integrità
psichica ed allo stato di salute in generale
- Le
iniziative di aggressione psicologica comportano per le vittime del
“mobbing” una serie di danni alla salute che consistono
usualmente in: depressione, ansia, attacchi di panico (sindrome DAP),
ipertensione arteriosa, difficoltà di concentrazione,
dermatosi, tachicardia, tremori,
oppressione immotivata, mal di schiena, mal di testa o
sensazione di “testa compressa”,
sensazioni di “nodo alla gola” e di “fame d’aria”,
mani sudate, sensazioni di caldo e di freddo agli arti,
sensazioni di sbandamento e di difficoltà di deambulazione,
debolezza, disturbi
gastro intestinali, abbassamento delle difese immunitarie.
- Le
indagini di Leymann hanno portato ad accertare che in Svezia almeno
il 15% dei suicidi è riconducibile alle persecuzioni da “mobbing”.
- Una
delle sindromi che più colpisce la vittima del “mobbing” é la
sindrome DAP o d’attacchi di panico (con o senza agorafobia). E’
una sindrome che determina improvvise paure immotivate, con attacchi
di panico violentissimi, con sensazione di morte imminente e
contemporanea perdita del controllo di se stessi, attacchi che
si esauriscono nel giro di 10 o 20 minuti (con frequenza
giornaliera o settimanale) ma che lasciano la vittima
spossata e scossa al punto tale da fargli temere con terrore
la probabile reiterazione degli stessi e da indurlo a comportamenti
di evitamento di luoghi aperti o affollati (quali strade, piazze,
supermercati, ristoranti e simili) o di mezzi di locomozione (auto,
treni, aerei, bus, ascensori) dai quali all’approssimarsi dei
sintomi della crisi di panico non può allontanarsi e trovare
un’agevole via di fuga. L’evitamento di questi usuali presidi
per lo svolgimento di una normale vita di relazione portano la
vittima a restringere il proprio ambito di spostamento urbano che,
divenendo sempre più circoscritto, lo inducono ad una condizione di
c.d. “arresti domiciliari”, in dipendenza diretta della
preferenza per la permanenza nella propria abitazione che gli
garantisce sicurezza. Il soggetto può disimpegnare un minimo di
incombenze di vita sociale solo con l’accompagnamento da parte di
una persona (familiare, domestico, ecc.) che gli trasferisce
sicurezza e che lo rassicura con la sua presenza durante le crisi di
panico, nel corso delle quali la sensazione della vittima è quella
di impazzire improvvisamente con perdita del senso della ragione e
del controllo su di se. La
conseguenza disastrosa di tale sindrome (per lo studio e la cura
della quale è sorta una Associazione: Lidap Onlus (14) è che il
paziente perde totalmente la sua autonomia e versa – in assenza di
una persona di supporto – in difficoltà anche per il disimpegno
delle normali attività di sussistenza (fare la spesa, recarsi
all’ufficio postale, in banca, ecc.), cosicché la sindrome
risulta fortemente invalidante. Il motivo per cui il
“mobbizzato” viene colpito dalle crisi di panico si spiega con
il fatto che, per effetto delle iniziative persecutorie ed
emarginanti poste in atto nella sede di lavoro, il “mobbizzato”
inizia a macerarsi, pensa a cosa può aver fatto di male per
meritarsi l’emarginazione, comincia a bussare a tutte le porte
cercando di trovare ragioni che non esistono e così facendo contrae
o si induce inconsapevolmente ed a livello subliminale dei sensi di
colpa, perde il senso dell’autostima e diventa vulnerabilissimo,
incapace di sostenere il confronto o
addirittura il colloquio con un proprio simile che inizia a
temere considerando ognuno “homo
homini lupus”, in ragione del
suo vissuto lavorativo.
- Non
è un caso che ad essere colpiti dal mobbing (e conseguentemente
dalla sindrome DAP) siano il più delle volte lavoratori
professionali con un curriculum
di ottimo livello e dalle molteplici esperienze – normalmente
provenienti da aziende esterne e non assunti ab
initio dall’azienda ove si immettono, portatori quindi di una
professionalità altamente concorrenziale per gli interni in quanto
maturata in altri contesti più
evoluti organizzativamente – giacché proprio per questo motivo
meno di altri riescono ad adattarsi a
vetusti metodi di lavoro che non sono certamente i migliori
ed i più efficienti per l’azienda in cui si
vanno ad inserire. Queste
loro capacità, l’integrità morale di cui sono portatori e la
scarsa (o nulla) propensione al compromesso (o come si dice a
comportarsi da “uomini di mondo”) non li rendono particolarmente
simpatici ai componenti del c.d. “branco” dei
neo colleghi, che si coalizzano nell’aggredirli moralmente
e psicologicamente, con grave
offesa alla loro dignità
e pregiudizio per la loro salute. I colleghi gli fanno il vuoto
attorno, le comunicazioni e le informazioni aziendali vengono loro
precluse (anche tramite l’occultamento materiale di circolari e
veline o la mancata trasmissione di
altra documentazione di lavoro), vengono evitati quasi
fossero degli appestati, alla loro comparsa i discorsi si
interrompono, l’azienda (tramite indicazioni dei superiori
gerarchici alle segretarie in ordine alle modalità di
smistamento della posta aziendale di lavoro) li esclude dai
flussi informativi, tenendoli all’oscuro delle notizie gestionali.
Si sparge la voce che è inutile rivolgersi al “mobbizzato”
perché non è – per sua colpa – in grado di fornire alcuna
spiegazione o ausilio, lo si accredita come un incapace o un
incompetente ed il gioco è fatto! Alle sue spalle ghigna e avanza
il “branco” o “gentaglia”
degli pseudo colleghi che come gli avvoltoi campa sulle altrui
disgrazie – che è riuscito felicemente
a determinare – guidati dal vecchio adagio “mors
tua vita mea”, convinti che la ruota non potrà mai girare
anche a loro danno. Come ben
ha detto un autore (15),“sarebbe
il caso di ricordare loro, casomai fosse necessario, che
le cose spiacevoli non capitano solo agli altri e che agli
odierni fiancheggiatori capiterà senz’altro di trovarsi, prima o
poi, dall’altra parte della barricata e di subire le vessazioni
degli allineati dell’ultima ora, scherani del potente di turno.
E’ a queste categorie di persone, sovente super pagate, che i geni
delle ristrutturazioni e i teorici degli esuberi a un tanto al chilo
intendono affidare il futuro delle aziende?”.
-
4.
Inutile
ironia degli insipienti
- All’apparire
della sindrome e alla denuncia del “mobbing” nel nostro Paese,
non sono mancate le ironie e le frecciate da parte di coloro che
hanno frainteso la fisiologica e stimolante “competizione” sul
lavoro con la patologia del sopruso e della vessazione, incidente
sull’integrità della salute.
- Soggetti
insensibili, miopi o sostenitori di ideologie imprenditoriali –
tra cui si colloca a pieno titolo il Direttore risorse umane della
Zanussi, come si desume dall’intervista della già citata
inchiesta di Rai 2, Teleanchio, del 17 gennaio 2000 -
ostili al diritto di salvaguardia della dignità dei
lavoratori, sono giunti ad asserire (16) che “l’ultima
trovata della filosofia buonista è il mobbing, il mal d’ufficio,
il malessere provocato dalle calunnie dei colleghi, dalle prepotenze
dei capetti e dei concorrenti, la maldicenza che ti ostacola la
carriera, le piccole sevizie subite quotidianamente sul lavoro, il
doppiogioco del compagno. Importata dagli Stati Uniti, questa
malattia è diventata subito di moda, la Uil ha aperto uno sportello
“mobbing”, i medici del lavoro rilasciano certificati
diagnostici e prescrivono cure, gli esperti di diritto comparato
ricordano che in Germania chi è vittima del “mobbing” può
chiedere il prepensionamento e in Scandinavia il “mobbing” è
addirittura un reato. Medici e sindacalisti, giornalisti e
professori vorrebbero che gli uffici italiani fossero dunque
finalmente purificati dal morbo del “mobbing”, niente più
calunnie o invidie… Benché sgradevole, stressante, doloroso e
maleodorante, il “mobbing” è anche uno straordinario strumento
di selezione, l’ordalia medievale che rende forti e seleziona i
migliori, la dura strada dell’apprendistato, della fatica, della
rabbia. In qualche modo il “mobbing” è la vita stessa di un
ufficio, perché la maldicenza e la calunnia, l’invidia e il
trabocchetto sono i “mob”, gli spasmi della violenza subalterna,
necessari al mediocre come alla seppia è necessario l’inchiostro
per nascondere e sfuggire nel buio all’attacco dell’animale più
feroce. Non esiste persona di successo che non abbia incontrato e
superato il “mobbing”, e che, subendo il “mobbing”, non si
sia forgiato. Ricordo bene un giovane giornalista che quando arrivò
nella redazione romana di un grande quotidiano fu subito sottoposto,
da capi e vicecapi, colleghi frustrati e vecchi inaciditi
dall’insuccesso, a uno stillicidio di violenze crasse e volgari,
sottili e raffinate. Lo ricordo sull’orlo del panico, con il viso
tirato e le mani sudate. Ma lo ricordo pure arrabbiato e combattivo.
Ad ogni “mob” che gli veniva sferrato diventava un po’ più
bravo: per superare le calunnie e violenze
doveva attrezzarsi, spostare il proprio limite, dimostrare,
nella professione, di essere più forte della piccola calunnia
mediocre e della meschinità dei colleghi frustrati. E infine senza
il “mobbing” né Kafka né Svevo avrebbero scritto i loro
capolavori e senza “mobbing” Dino Buzzati non avrebbe neppure
immaginato “Il deserto dei tartari”, quel romanzo sul
“mobbing” praticato (a quei tempi) al “Corriere della sera”.
Una storia che è un omaggio straordinario alla maldicenza, alla
calunnia, al dolore e alla miseria, insomma alla vita della
gentaglia d’ufficio”.
- Le
considerazioni sopra riferite meritano solo questi pochi ma caustici
commenti: non si deve certo auspicare o rimpiangere la “peste”
sol perché essa ha consentito al Manzoni dei “Promessi sposi”
di scrivere pagine di incomparabile bellezza. Anche i tentativi di
stupro consentono alle nostre donne di imparare l’aggressività,
apprendere le tecniche di reazione, temprare carattere e muscoli, ma
non per questo dobbiamo inneggiare
o tollerare la violenza sessuale! I sistemi per temprarsi
sono ben altri e debbono conformarsi ai principi della solidarietà
e del rispetto della dignità individuale.
- Nell’affermarsi
e diffondersi di queste pratiche di “emarginazione e vessazione”
dei lavoratori – solitamente i meno accondiscendenti a piegarsi e
quindi i più scomodi per le aziende -
anche il Sindacato ha le sue responsabilità attribuibili a
sottovalutazione e, conseguentemente, ad inerzia nell’assunzione
di iniziative finalizzate a contrastare il fenomeno del “mobbing”.
- In
un sito Internet della Fim-Cisl Liguria, nel corpo della Rivista
elettronica “Metallo pesante” (17)
ci siamo imbattuti in un
articoletto di un certo Bracco (delegato sindacale) dal titolo “Il
mobbing non esiste? (note
a margine di una polemica di costume),
in cui si legge: “Mobbing
designerebbe un comportamento emarginatorio (pesante o sottile a
seconda delle “scuole”) ai danni di qualcuno da parte del
principale o del capo o di qualche gruppetto rampante. Molestie
morali, insomma. Ora io dico una cosa: se è un fenomeno così
diffuso ed evidente come dicono avrei dovuto notarlo anch’io nelle
vicende e negli ambienti quotidiani del lavoro. Avrei dovuto
osservare che il mio capo, che è un dirigente giovane, dinamico,
moderno, formato a tener sempre nel massimo conto il sociale, lo
psicologico, l’organizzativo, pacifista tanto convinto quanto
discreto…si lascia andare a preferenze e a grossolanità
stilistiche.. ; la
mia personale conclusione su questa faccenda é
semplice e secca: il ‘mobbing’ non esiste. E’ soltanto
un’invenzione di giornalisti alla ricerca di argomenti nuovi per
muovere le acque della polemica di costume e di psico/sociologi
bramosi di spazio nei convegni su tanti altri (veri) problemi del
lavoro. O, più banalmente, di quei Cipputi, Fantozzi e Bean sempre
in cerca di un motivo per piagnucolare. Mi si potrebbe dire, poi,
che in America la cosa ha una sua forte appariscenza…Beh,
d’accordo:
là sono in tutto più
avanti…”.
- Chi
scrive dubita seriamente che con questo modo ironico e ilare di
affrontare i “problemi seri e reali”,
il Sindacato si attiri la simpatia dei lavoratori e dei
cittadini, anche se non vanno ignorate
iniziative – invero sporadiche, intraprese da
organizzazioni di categoria o strutture
territoriali – che invece dimostrano attivismo e
comprensione dell’incidenza deleteria
che le pratiche di “mobbismo” aziendale (verticali,
orizzontali o ascendenti) possono avere sulle condizioni di lavoro e
di vita (socio-familiare) dei prestatori di lavoro.
-