Dequalificazione professionale, visite fiscali
insistite, licenziamento vessatorio per supposta assenza ingiustificata e
obblighi datoriali di risarcimento danno
Trib. Pisa,
sezione lavoro (1° grado) – 13 marzo 2001 – Giud. Nisticò – AG (avv. Bellesi) c. M****SpA (avv. Del Punta, Marra)
Dequalificazione
professionale, visite fiscali insistite e licenziamento per supposta assenza
ingiustificata – Vessatorietà del comportamento aziendale, responsabilità per
danno biologico – Illegittimità del
licenziamento – Obbligo di reintegrazione
e risarcimento per il recesso ingiustificato – Ulteriore responsabilità
risarcitoria datoriale per il danno, in
re ipsa, alla professionalità e all’immagine conseguente a dequalificazione
e per il danno biologico da pregiudizio
allo stato di salute.
Secondo le
dichiarate intenzioni del capo del Personale della Società M****rassegnate alle
RSA, per cui “le verifiche fiscali a fronte di certificati medici sarebbero state
inviate a tappeto”, le visite fiscali rispondevano non già all’esigenza di riscontro di veridicità della malattia ma
ad una chiara volontà di “stare con il fiato sul collo al lavoratore assente
per malattia”.
Va tuttavia
pienamente condiviso l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo
cui:“E’ risarcibile il danno derivato al dipendente da un comportamento
illegittimo e persecutorio del datore di lavoro, consistito nella richiesta, a
più riprese, all’Inps dell’effettuazione di visite mediche domiciliari di
controllo dello stato di malattia del lavoratore, attestato dal certificato del
medico curante, nonostante l’effettività della patologia fosse stata già
accertata da controlli precedenti (Cass. n.
475/1999).” Situazione, in
effetti riscontrabile nella fattispecie sottoposta all’esame di questo giudice,
in cui il datore di lavoro appare incredulo sulla psicopatologia del ricorrente
(affetto da sindrome depressivo ansiosa con somatizzazioni grastrointestinali).
Invero non è semplice stabilire quale sia il confine fra il disagio dell’umore
e la malattia psichiatrica e quando tale malattia comporti una assoluta
incapacità a svolgere l’attività lavorativa. Tuttavia occorre sgombrare il
campo dal pregiudizio ricorrente che confina l’affezione psichica alla mera
dimensione caratteriale, poiché spesso questo tipo di sofferenza, ancorché non
gravissima, rileva sul piano funzionale (e quindi della capacità anche
lavorativa) più di quanto spesso non rilevi una patologia di tipo squisitamente
fisico.
Circa la
richiesta di risarcimento del danno "biologico"ed alla dignità ed
immagine professionale derivante: a) dal licenziamento; b) delle numerose
visite fiscali; c) dal demansionamento, va detto che:
a) l’avvenuto
accertamento dello svolgimento di mansioni inferiori impone di ritenere
accertata la dequalificazione. Lo svolgimento di attività dequalificate
comporta, a parere di questo giudice, un autonomo danno alla professionalità,
ontologicamente distinto da ogni diversa conseguenza sul piano del pregiudizio
alla vita di relazione. Il datore di lavoro, infatti, ha l’obbligo di adibire
il lavoratore a mansioni proprie del livello di appartenenza od a quelle del
livello acquisito: l’inosservanza di tale obbligo rileva ex se sul piano
risarcitorio, come lesione diretta allo sviluppo professionale del dipendente.
Si tratta, dunque, di un danno avente contenuto patrimoniale nel momento in cui
al dipendente dequalificato viene precluso il corretto sviluppo di carriera
all’interno od eventualmente all’esterno dell’azienda. Una volta dequalificato,
infatti, egli non potrà più spendere la sua professionalità maturata sia presso
lo stesso datore di lavoro che presso datori di lavoro diversi: questo, dunque,
determina un danno potenzialmente patrimoniale, la cui quantificazione è
affidata alla valutazione del caso concreto;
b) in ordine al
danno c.d. biologico (cioè alla vita di relazione), il fondamento della
responsabilità datoriale è affidato dall’ordinamento alla regola di cui
all’art. 2087 c.c. che impone, fra l’altro, la tutela della personalità morale
del lavoratore. Trattandosi, dunque, di responsabilità contrattuale valgono, in
tema di onere della prova, le regole di cui all’art. 1218 c.c.
Nel caso di
specie non vi sono dubbi sulla sussistenza della malattia, ampiamente
dimostrata sulla base degli argomenti fin qui svolti. Ma non vi sono dubbi
neppure sulla sussistenza del nesso di causa fra l’insorgere della malattia ed
il comportamento, in alcuni casi, vessatorio, del datore di lavoro.
E’ altrettanto
pacifico che il ricorrente sia stato destinatario di una serie di "visite
fiscali", in alcuni casi connotate addirittura da illegittimità (come nel
caso della visita svolta il giorno successivo al primo accertamento
confermativo). E’, infine, pacifico che, sussistendo la malattia - secondo i
medici Inps - fino al 27 giugno, il datore di lavoro abbia utilizzato il
pretesto della errata compilazione del certificato per ottenere un ulteriore
motivo di licenziamento.
Non vi sono,
allora, dubbi, stante la coincidenza temporale, che la malattia psichica del
ricorrente sia stata determinata dal comportamento scorretto del suo datore di
lavoro, posto che, come risulta dalla certificazione e dalla CTU, non vi è
traccia di disagio psichico in epoca antecedente all’insorgere della vicenda
lavorativa esaminata.
Conseguentemente,
stante il licenziamento illegittimo per insussistente malattia ingiustificata,
il datore di lavoro va condannato a reintegrare immediatamente il lavoratore ed
a risarcirgli un danno per l’ingiustificato recesso calcolato in L. 60.403.871
oltre interessi e rivalutazione, così
come va condannato al pagamento di L. 10 milioni per danno alla professionalità
e all’immagine e di aggiuntive L. 10 milioni per danno biologico da pregiudizio allo stato di salute (da presumersi nel
frattempo regredito in ragione di una ripresa lavorativa del ricorrente).
TRIBUNALE DI PISA
SENTENZA 13 MARZO
2001
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
Il Giudice
addetto alle cause di lavoro del Tribunale di Pisa in composizione monocratica,
dr. Fausto Nisticò, ha emesso la seguente
SENTENZA
nelle cause di
lavoro iscritte ai nn. 505/99 e 615/98 riunite e decise all’udienza del
13.3.2001, promosse
DA
AG, elettivamente
domiciliato in Livorno presso lo studio dell’avv. Bellesi che lo rappresenta e
difende per procura nel ricorso introduttivo.
CONTRO
M**** s.p.a., in
persona del legale rappresentante, elettivamente domiciliata in Pisa presso lo
studio degli avv.ti Del Punta e Marra che la rappresentano e difendono per
procura nel ricorso notificato.
Oggetto: impugnativa
licenziamento.
Il procuratore di
parte opponente ha così concluso:"Dichiarare il licenziamento , così come
intimato, illegittimo, inefficace e, comunque, ingiustificato, ai sensi
dell’art. 13 s.l. e dell’art. 18 CCNL Addetti Industria Metalmeccanica Privata
e Installazione Impianti
(Confindustria), con ogni conseguenza di legge; per l’effetto, ordinare
alla M*** s.p.a., in persona del suo legale rappresentante pro tempore,
corrente in Pisa Loc. Mortellini, via Aurelia Sud, di reintegrare il sig. AG
nel posto di lavoro precedente occupato, condannando la società convenuta al
pagamento di una indennità, a titolo di risarcimento danni, commisurata alla
retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento al momento
dell’effettiva reintegrazione, in ogni caso non inferiore alle cinque mensilità
di fatto; accertare e dichiarare il diritto del ricorrente all’inquadramento
nella V categoria del CCNL in atti (o a quella che sarà determinata dal
giudicante in corso di causa) con ogni conseguente provvedimento di condanna in
ordine agli effetti economici, previdenziali ed assicurativi nascenti, con
interessi e rivalutazione, dal maturarsi del credito sino al saldo con
decorrenza 1.3.1996; condannare la M*** s.p.a. a risarcire al ricorrente i danni
tutti (biologico, alla dignità ed immagine professionale, come meglio in
narrativa evidenziati) sofferti a causa del licenziamento, delle numerose
visite fiscali effettuate dietro insistenti richieste dell’Azienda, nonché al
demansionamento che si indicano nella complessiva somma di L. 100.000.000,
ovvero nella misura maggiore o minore che risulterà di giustizia - previa CTU
medico legale, gravata di interessi e rivalutazione monetaria; in via
subordinata, dichiarare nulla e priva di effetto la sanzione disciplinare
irrogata con lettera del 28.1.1998 con ogni conseguenziale statuizione
economica; condannare la medesima convenuta al pagamento delle spese, diritti
ed onorari di causa, oltre Iva e Ca, munendo la sentenza di clausola di
provvisoria esecuzione come per legge".
Il procuratore
della Convenuta ha così concluso:"Per il rigetto delle domande tutte in
quanto infondate nel merito. Con vittoria di spese, diritti ed onorari di
giudizio".
Svolgimento del
processo
Con ricorso 27
settembre 1999 AG esponeva di essere stato assunto dalla M*** s.p.a. nel
febbraio del 1995 come operaio II liv. CCNL Confindustria. Dal marzo 1996 egli
veniva destinato, come liv. III al Reparto Manutenzione, in realtà con mansioni
di elettricista e di addetto alle macchine a controllo numerico, quale
programmatore sul software dei macchinari ed in tale veste aveva
partecipato a più di un corso di apprendimento e perfezionamento professionale.
Nel settembre 1997 si verificava un inconveniente nel funzionamento di alcuni robots,
appurandosi una manomissione nel connettore interno ed in conseguenza di questo
episodio il datore di lavoro, evidentemente attribuendolo al ricorrente, lo
spostava dalla manutenzione alla catena di montaggio (dall’1.10.1997). Dopo un
periodo di cassa integrazione AG veniva colpito da una serie di provvedimenti
disciplinari: un primo provvedimento riguardava il collaudo di un numero di
pezzi inferiori rispetto al previsto (166 invece di 315) ed un secondo si
fondava sulla contestata scarsa produzione.
In seguito a tali
vicende AG si ammalava di depressione ansiosa.
Con ricorso
notificato il 31.3.1998 AG chiedeva al Pretore di Pisa il riconoscimento della
qualifica superiore di "addetto alle macchine a controllo numerico",
nonché i danni alla professionalità derivante dal demansionamento ed impugnava
la sanzione disciplinare comminata il 28.1.1998.
Seguiva, nelle
more del giudizio, una nuova sanzione disciplinare (giorni tre di sospensione)
per assenza ingiustificata, ancorché si fosse trattato di un giorno di assenza
in ordine al quale era stata chiesta preventivamente l’autorizzazione. La nuova
sanzione disciplinare aggravava le condizioni di salute di AG che rimaneva
assente dal lavoro dal 15.6.98 al 20.6.98. Il 20.6.98, in conseguenza di una
forte odontalgia, il ricorrente doveva ricorrere alle cure del Presidio
Ospedaliero di Livorno e risultava assente durante le c.d. fasce orarie.
Convocato a visita per il 22.6.98 in tale sede i sanitari dell’Inps lo
giudicavano idoneo a riprendere il lavoro, ma il ricorrente si muniva di una
ulteriore certificazione che giustificava la malattia dal 22.6. al 27.6.98. In
seguito ad una nuova visita fiscale AG veniva ritenuto idoneo a riprendere il
lavoro dal 21.6.1998. AG rimaneva ancora assente per malattia dal 28.6.98 al
4.7.98 e rientrava il 6.7.98. Con nota 13 luglio 1998 AG veniva licenziato
sulla base delle contestazioni contenute nelle note del 30.6.1998 e del
2.7.1998.
Ciò premesso e
sul presupposto che l’assenza dal lavoro fosse giustificata AG Giannelli impugnava
il licenziamento reclamando la tutela ex art. 18 s.l., chiedendo, altresì, la
condanna all’inquadramento al V livello con le differenze retributive ed il
danno alla professionalità e biologico in L. 100.000.000; subordinatamente
chiedeva dichiararsi la illegittimità della sanzione disciplinare comminata il
28.1.1998.
Resisteva in
giudizio il datore di lavoro contestando che AG Giannelli avesse mai svolto
incarichi diversi di quelli di un manutentore elettricista e soprattutto che
avesse svolto compiti di programmatore e spiegando che l’episodio dei
malfunzionamento dei robots era certamente attribuibile al ricorrente,
poiché la manomissione dei collegamenti risultava coeva ad una operazione
sicuramente effettuata dallo stesso. Quanto alle mansioni diverse dalla
manutenzione spiegava trattarsi di funzioni analoghe per contenuto
professionale.
Dato conto delle
regioni che avevano comportato l’esercizio del potere disciplinare, la M***
spiegava le ragioni del licenziamento sulla base della duplice contestazioni di
assenza ingiustificata ed assenza durante una c.d. visita fiscale e concludeva
per il rigetto di tutte le domande.
Fallito il
tentativo di conciliazione, dato ingresso alla prova orale e disposta una CTU
medico legale, il giudice autorizzava note scritte, dopo di che, all’udienza
del 13.3.2001 - previa riunione del procedimento n. 615/98 vertente fra le
stesse parti in ordine al quale il ricorrente rinunciava agli atti - decideva
la causa dando pubblica lettura del dispositivo.
Motivi della decisione
Il licenziamento
comminato dal datore di lavoro il 13 luglio 1998 si fonda su due distinte
contestazioni disciplinari portate nelle note 30 giugno e 2 luglio 1998 in
atti.
Nella prima si
contesta ad AG di essere rimasto assente dal lavoro senza giustificazione dal
22 al 26 giugno 1998 e di non essere stato trovato al domicilio alle h. 17,40
del 20.6.1998 in occasione di una "visita fiscale" relativa ad un
primo periodo di malattia (dal 15 al 20 giugno). Nella seconda si contesta l’assenza
non giustificata dallo stato di malattia per il periodo successivo , dal 28
giugno al 4 luglio, sul presupposto che non potesse ritenersi la
"continuazione" di una malattia già negata dai medici pubblici per un
periodo precedente.
In sostanza il
datore di lavoro ritiene che AG Giannelli non sia stato ammalato dal 22 giugno
al 4 luglio e lo fa sulla base degli esiti delle c.d. visite fiscali.
La questione è
"ingarbugliata" ma non complicata e la confusione è ingenerata dal
susseguirsi frenetico di accertamenti pubblici sullo stato di malattia che
caratterizzano la vicenda all’esame di questo giudice, in linea con la
confessata politica aziendale di inasprire i controlli per malattia (v. memoria
di costituzione della M*** dove si dice - punto 33 - che "nel marzo
’98, da poco nominato responsabile del personale, il dott. S., nel primo
incontro avuto con la RSA, aveva preavvisato che le verifiche fiscali a fronte
di certificati di malattia sarebbero state inviate a tappeto. Le RSA
manifestarono la loro più completa accettazione").
Dunque è un dato
pacifico che il datore di lavoro si fosse determinato a porsi con severità (e
dunque con pregiudizio) di fronte al fenomeno della malattia certificata, al
punto che, come è risultato anche dall’istruttoria (ud. 23.2.2000,
dichiarazioni del legale rappresentante della convenuta) nel primo periodo di
malattia ad una visita fiscale ( 19.6.98, che accertava la sussistenza della
malattia) se ne è fatta seguire una seconda il giorno dopo ("per avere
una conferma", come dice il dr. S., incaricato di rappresentare il
datore di lavoro in questo giudizio). Ma se quello che conta è l’opinione del
medico pubblico (è questa la tesi che il datore di lavoro sostiene in questo
giudizio per giustificare il licenziamento) che motivo c’è di averne una
conferma , posto che il medico pubblico, in quella occasione, aveva confermato
la diagnosi e la prognosi del medico privato?
E’ evidente che
non di conferma si sia trattato ma, secondo le dichiarate premesse, di una
chiara volontà di stare con il fiato sul collo al lavoratore assente per
malattia.
E’ noto a tutti,
infatti, che lo scopo della c.d. visita fiscale sia quello di consentire al
datore di lavoro - tramite un organo pubblico - di accertare lo stato di
malattia: e dunque, quando questo è accertato (come nel caso di specie per il
primo periodo dalla visita fiscale del 19 giugno) non si vede il motivo per
procedere ad un nuovo accertamento. L’obbligo di rimanere in casa durante le
c.d. fasce orarie, infatti, non ha, contrariamente a quanto sembri al nostro
datore di lavoro, lo scopo di rendere la vita difficile al lavoratore assente
od addirittura punire la sua assenza, bensì quello limitato di porsi a
disposizione dell’accertatore durante un periodo ben determinato della
giornata; e qui AG aveva pacificamente consentito al suo datore di lavoro di
accertare ( e confermare) lo stato di malattia. Ne consegue la assoluta
irrilevanza dell’assenza di AG Giannelli il 20.6.1998 alle ore 17,40, fosse
tale assenza anche del tutto priva di motivazione.
Vero è, infatti,
che il lavoratore ammalato non ha più l’obbligo di starsene chiuso in casa una
volta che abbia consentito al suo datore di lavoro di accertare la malattia ed
in tale contesto è nel vero la S.C. Corte ( n. 475/1999) quando afferma che "è
risarcibile il danno derivato al dipendente da un comportamento illegittimo e
persecutorio del datore di lavoro, consistito nella richiesta, a più riprese,
all’Inps dell’effettuazione di visite mediche domiciliari di controllo dello
stato di malattia del lavoratore, attestato dal certificato del medico curante,
nonostante l’effettività della patologia fosse stata già accertata da controlli
precedenti" .
Né, ovviamente,
l’assenza, pure ingiustificata, durante la visita di controllo è ragione di
licenziamento qualora il fatto in sé non sia idoneo a smentire la sussistenza
della malattia, qui la legge, come è noto, prevedendo solo conseguenze
patrimoniali in ordine alla relativa indennità sostitutiva della retribuzione.
Dopo di che
occorrerà solo accertare se Giannelli è stato malato dal 22.6.1998 al 4.7.1998
e per farlo, naturalmente, non basterà, come propone il datore di lavoro,
"pesare" l’opinione del medico pubblico e quella del medico privato,
bensì occorrerà operare una valutazione di tipo medico legale, qui
concretamente risultante dallo svolgimento di una relazione di consulenza (dr.
F.).
Ove, comunque,
bastasse (come sostiene il datore di lavoro) l’opinione espressa dal medico
pubblico, si dovrebbe prendere subito atto del fatto che quest’ultimo ha anche
riconosciuto la sussistenza della malattia dal 21 al 27 giugno del 1998. Ma
ovviamente questo giudice non può, come qui ha fatto il datore di lavoro, una
volta prendere per buona l’opinione dell’accertatore ed una volta no: come si è
accennato in premessa , poiché il datore di lavoro sostiene che l’assenza non
era dovuta a malattia ed il lavoratore sostiene il contrario (e da questo ne è
derivato il licenziamento), occorrerà accertare con criteri di terzietà ( e
quindi sulla base dell’opinione espressa dal CTU) se AG sia stato veramente
malato.
E perché non si
dubiti di una sorta di ricezione "burocratica" della relazione di
consulenza, vale la pena spendere alcune parole sui contenuti della stessa.
Non è in
contestazione che la prima diagnosi di tipo psicopatologico che riguardi il
Giannelli cada in epoca non sospetta: è agli atti un certificato del 20.11.1997
nel quale il curante del ricorrente consiglia una visita specialistica avendo
riscontrato una "sindrome ansiosa con somatizzazioni viscerali di discreta
entità". Nel gennaio del 1998 viene confermata tale diagnosi da uno
specialista psichiatra ( dr. P.): "fenomenica di tipo
ansioso-depressivo". Tali certificazioni non sono state utilizzate da AG
per giustificare assenze lavorative.
Che, poi, tale
diagnosi corrispondesse al vero si ricava dalla terapia pacificamente seguita,
a base di due noti psicofarmaci ("Sereupin " ed "En") e di
un coadiuvante sintomatico delle somatizzazioni viscerali
("Levopraid").
Nel giugno del
1998 (e quindi sei mesi dopo) la malattia si ripresenta: AG rimane assente dal
lavoro (dal 15 al 20 giugno) con una certificazione sovrapponibile alla
precedente e che il datore di lavoro non contesta. A tale certificazione AG ne
ha fatto seguire un’altra (dal 22 al 27 giugno) con la medesima diagnosi
aggravata da una odontalgia (e che vi sia stato un episodio di odontalgia
risulta inequivocabilmente dal certificato del dr. A.B., doc. n. 25 di parte
ricorrente). Che le condizioni di sofferenza psichiatrica permanessero risulta
inequivocabilmente dalla certificazione in data 24 giugno 1998 del dr. P. -
specialista psichiatra - e della terapia prescritta, esattamente identica a
quella effettuata sei mesi prima.
Non vi sono,
dunque, dubbi sulla sussistenza della malattia in questo periodo.
Il datore di
lavoro, infine, dubita dell’ultimo periodo (dal 28 giugno al 4 luglio) sul
presupposto che non potesse continuare una malattia inesistente e sul pretesto
( perché di un vero e proprio pretesto si tratta) della omessa indicazione del
nome del lavoratore nel certificato del medico curante (v. nota di
contestazione 2 luglio 1998).
Questa seconda
contestazione la dice lunga - se ancora ce ne fosse bisogno - sulla
pretestuosità del rilievo, poiché come si ricava dalla lettura completa del certificato
del medico curante era certissimo che la certificazione si riferisse a AG (come
si legge nella "parte riservata al lavoratore"). Qui l’intento
addirittura cavilloso del datore di lavoro è di tutta evidenza ed è in linea
con l’atteggiamento di irrazionale diffidenza nei confronti del disagio
psichico del suo dipendente.
Che, poi, sia del
tutto verosimile che lo stato di malattia anche per quest’ultimo periodo sia
riferibile alla malattia pregressa è nella stessa natura della patologia di cui
AG era affetto: se è vero - come è stato ampiamente dimostrato - che fino al 27
giugno sussistessero le condizioni per la assoluta inabilità al lavoro, tenuto
conto della natura della patologica, della durata della terapia e dei tempi di
guarigione, non vi possono essere subbi sul fatto che sia del tutto verosimile
che la psicopatologia di cui AG era affetto avesse avuto una durata -
quantomeno nella fase di acuzie - di venti giorni, trattandosi, come tutti
sanno, di affezioni psichiche assai subdole e di lenta regressione.
D’altro canto-
rispetto alla certificazione medica presentata da AG - non vi è in atti alcun
elemento di segno contrario, tantomeno derivante da accertamenti eseguiti da
organi pubblici e sussiste , al contrario, certificazione medica redatta in
epoca successiva.
In tale contesto,
dunque, nessuno dubiterebbe dello stato di malattia per tutto il periodo di
assenza, se non chi voglia ignorare con disinvoltura la gravità sul piano
funzionale delle affezioni di tipo psichico o chi, nel preannunciato programma
di bonifica contro gli assenteisti (v. dichiarazione di intenti del capo del
personale di cui si è gi detto) abbia mostrato di dubitare tout court
della sussistenza di certe malattie.
Per completezza
si darà conto, infine, dei non pochi rilievi che il datore di lavoro ha operato
nei confronti della CTU medico legale, sostanzialmente ritenendo che il
sanitario incaricato si sia limitato ad una mera ricognizione burocratica della
certificazione e non abbia approfondito l’incidenza sul piano funzionale del
disagio avvertito da AG.
Non è semplice
stabilire quale sia il confine fra il disagio dell’umore e la malattia
psichiatrica e quando tale malattia comporti una assoluta incapacità a svolgere
l’attività lavorativa. Tuttavia occorre sgombrare il campo dal pregiudizio
ricorrente che confina l’affezione psichica alla mera dimensione caratteriale,
poiché spesso questo tipo di sofferenza, ancorché non gravissima, rileva sul
piano funzionale ( e quindi della capacità anche lavorativa) più di quanto spesso
non rilevi una patologia di tipo squisitamente fisico: qui in concreto, come si
ricava dalla certificazione anche specialistica, AG era sicuramente affetto (
già da prima che fosse costretto ad assentarsi dal lavoro) da una affezione
psichica che aveva provocato anche fenomeni di somatizzazione rilevanti
(perdita di peso, ecc.) e che aveva comportato la necessità di eseguire un
protocollo terapeutico che, come è noto, è quello classico delle sindromi
depressive. Questo basta per ritenere senza dubbio che si sia trattato di una
patologia comportante la assoluta incapacità lavorativa nel periodo
considerato.
Il licenziamento
comminato ad AG è dunque privo di giusta causa e di giustificato motivo. Le
conseguenze sono quello dell’art. 18 s.l., trattandosi di rapporto
pacificamente assistito da stabilità reale. Va, pertanto, ordinata la reintegra
nel posto di lavoro, salvo specificare (v. infra) in quale livello
contrattuale.
Consegue anche,
ai sensi del 4° comma dell’art. 18, cit. la condanna del datore di lavoro al
"risarcimento del danno" mediante una indennità commisurata alla
retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento alla effettiva
reintegra ed al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali per il
medesimo periodo.
Sul punto parte
convenuta svolge alcuni argomenti fondati su Cass. 6042/2000 secondo cui, a
parte le cinque mensilità minime, il danno non coincide automaticamente con le
retribuzioni omesse, dovendo trovare applicazione anche il disposto dell’art.
1288 c.c., secondo cui il debitore non è tenuto al risarcimento del danno nel
caso in cui fornisca la prova che l’inadempimento consegue ad impossibilità
della prestazione a lui non imputabile; e sostiene che , a tutto voler
concedere, la determinazione per il recesso è stata ingenerata dall’errore
valutativo dell’accertatore pubblico.
Questo giudice
non condivide simile ricostruzione, in primo luogo perché l’opinione
dell’accertatore pubblico non vincola, ovviamente, il datore di lavoro; ed in
secundis perché, se anche così fosse, nel caso concreto l’accertatore
pubblico ha riconosciuto la sussistenza della malattia fino al 27.6.1998 e non
ha reso alcun parere per quanto concerne il successivo periodo fino al
4.7.1998. Dunque, seppure avesse rilievo la tesi della convenuta, in punto di
fatto questo licenziamento è stato determinato da una autonoma opinione del
datore di lavoro (come si è visto, infatti, la malattia è pienamente condivisa
dall’Inps dal 15 giugno al 27 giugno, mentre non vi è alcun accertamento
"fiscale" per il periodo successivo).
Il danno, dunque,
corrisponde alle mensilità omesse medio tempore, detratto il c.d. aliunde
perceptum. Sul punto l’ammontare del percepito in conseguenza di diversi
periodi lavorati è ammesso dallo stesso ricorrente: non trattandosi di
eccezione in senso stretto (Cass. 3345/2000), dall’ammontare complessivo delle
retribuzioni andrà detratta la somma indicata dallo stesso AG e non contestata
dalla convenuta (salvo quantificarla infra, una volta stabilito l’esatto
inquadramento del ricorrente, oggetto di autonoma domanda in questo giudizio).
Per quanto concerne, poi, il c.d. aliunde percipiendum, non vi sono
dubbi che l’onere di provarne l’ammontare gravi sul datore di lavoro, che qui
non ha indicato l’ammontare della indennità di disoccupazione non ancora
richiesta dal ricorrente. In assenza di allegazione e/o prova, questo giudice
non ne può tener conto.
La seconda
domanda svolta da AG ha ad oggetto il diritto all’inquadramento nella V°
categoria del CCNL con decorrenza 1.3.1996; al proposito il ricorrente sostiene
di essere stato assegnato nel marzo del 1996 al Reparto manutenzione inquadrato
in III° categoria, ma di aver effettuato mansioni di elettricista ed addetto
alle macchina a controllo numerico , quale "programmatore" sul software
dei macchinari. Il datore di lavoro nega la circostanza. In sostanza - e sul
punto le parti concordano - si tratta di accertare se (ed eventualmente da
quando) AG avesse svolto attività definibile di "programmazione".
Tutti essendo
profani , è sufficientemente chiaro che il discrimine fra attività di
programmazione informatica ed esercizio di attività di gestione avanzata dei
programmi risiede nella capacità di "incidere" sul programma mediante
il ricorso al linguaggio informatico, perché solo il linguaggio informatico
consente di operare sulla struttura del software.
Ebbene, il datore
di lavoro sostiene, e lo afferma per bocca del teste R. (ud. 13.7.2000) che
tale attività era iniziata dopo il corso a Milano presso la S***, pur
confermando che AG utilizzava - dopo tale data - linguaggio informatico. Il
corso in questione ( v. doc. n. 6 di parte ricorrente) si era tenuto dal
21.7.97 al 25.7.97. A tenore, dunque, delle dichiarazioni del teste R.
(superiore gerarchico di AG) il ricorrente avrebbe comunque svolto attività di
programmazione dall’agosto 1997. Dall’ottobre dello stesso anno, però, AG
veniva destinato ad altre mansioni.
Le affermazioni
del teste R. sono, tuttavia, smentite dalle stesse dichiarazioni del
ricorrente, dalla testimonianza di G. e da documenti.
Risulta, infatti,
incontestabilmente ( v. doc. n. 4 di parte ricorrente) che AG aveva partecipato
nel mese di luglio del 1995 ad un corso "per la programmazione e
manutenzione robot Bosch tipo Scara", ad un altro di contenuto analogo nel
giugno del 1995 presso la M*** e Co. S.p.a. ( doc. n. 5) ed, infine, ad un
altro corso presso la A*** s.p.a. nel giugno del 1996 per l’apprendimento e la
programmazione di avvolgitrici".
Dunque non è
affatto vero che il datore di lavoro non fosse interessato ad attività di
programmazione - demandata ad AG - prima del luglio del 1997.
A tali dati
oggettivi si aggiunge la testimonianza del teste G. (ud. 13.7.2000 e
20.12.2000) che ha lavorato insieme al ricorrente fino al febbraio del 1996 ( e
quindi riferisce sul periodo iniziale). Ci dice il teste che AG gli fu
presentato come persona esperta di informatica e che da subito ha
lavorato in coppia con il ricorrente alla attività di adattamento dei programmi
alle reali esigenze lavorative, utilizzando linguaggio informatico ed in
sostanza creando dei programmi applicativi.
Ha, infine,
aggiunto che sia lui che AG avevano dovuto modificare non solo quote del
programma ma a volte intere porzioni.
Non vi è, dunque,
dubbio alcuno sul fatto che il ricorrente abbia svolto attività di vero e
proprio programmatore, avendo anche partecipato, nell’interesse dell’azienda, a
corsi specifici.
Tale attività non
appartiene al III livello bensì, come si ricava dalla lettura della
declaratoria, al V livello professionale. Consegue la condanna al diverse
inquadramento dall’1.6.1996 (decorsi i tre mesi di cui all’art. 13 s.l.) ed al
pagamento delle differenze retributive dall’1.3.1996, con la relativa
contribuzione assistenziale e previdenziale.
Una terza domanda
riguarda il risarcimento del danno "biologico"ed alla dignità ed
immagine professionale derivante: a) dal licenziamento; b) delle numerose
visite fiscali; c) dal demansionamento.
Per quanto
concerne il terzo aspetto, l’avvenuto accertamento dello svolgimento di
mansioni appartenenti al V° livello professionale sin dal 1.3.1996 e la
pacifica adibizione a mansioni di terzo livello dall’1.10.1997 impone di
ritenere accertata la dequalificazione. Lo svolgimento di attività
dequalificate comporta, a parere di questo giudice, un autonomo danno alla
professionalità, ontologicamente distinto da ogni diversa conseguenza sul piano
del pregiudizio alla vita di relazione. Il datore di lavoro, infatti, ha
l’obbligo di adibire il lavoratore a mansioni proprie del livello di appartenenza
od a quelle del livello acquisito: l’inosservanza di tale obbligo rileva ex
se sul piano risarcitorio, come lesione diretta allo sviluppo professionale
del dipendente. Si tratta, dunque, di un danno avente contenuto patrimoniale
nel momento in cui al dipendente dequalificato viene precluso il corretto
sviluppo di carriera all’interno od eventualmente all’esterno dell’azienda. Una
volta dequalificato, infatti, egli non potrà più spendere la sua
professionalità maturata sia presso lo stesso datore di lavoro che presso
datori di lavoro diversi: questo, dunque, determina un danno potenzialmente
patrimoniale, la cui quantificazione è affidata alla valutazione del caso
concreto.
Tenuto, allora,
conto che l’avvenuto riconoscimento della superiore qualifica con il pagamento
delle differenze retributive dall.1.3.1996 ristora in parte tale pregiudizio e
tenuto conto della sensibile intensità della dequalificazione ( da
programmatore ad addetto alla linea di montaggio), tale danno può essere
quantificato nella somma complessiva attuale di L. 10.000.000.
Per quanto
concerne, invece, il danno c.d. biologico - e dunque alla vita di relazione -
il ricorrente muove dal presupposto di aver contratto una malattia psichica in
conseguenza delle subite vessazioni da parte del suo datore di lavoro
consistite nella stessa dequalificazione, nell’abuso degli accertamenti
fiscali, e nelle stesse modalità del licenziamento.
Il fondamento
della responsabilità datoriale in ordine al danno c.d. biologico (cioè alla
vita di relazione) è affidato dall’ordinamento alla regola di cui all’art. 2087
c.c. che impone, fra l’altro, la tutela della personalità morale del
lavoratore. Trattandosi, dunque, di responsabilità contrattuale valgono, in
tema di onere della prova, le regole di cui all’art. 1218 c.c.
Nel caso di
specie non vi sono dubbi sulla sussistenza della malattia, ampiamente
dimostrata sulla base degli argomenti fin qui svolti. Ma non vi sono dubbi
neppure sulla sussistenza del nesso di causa fra l’insorgere della malattia ed
il comportamento, in alcuni casi, vessatorio, del datore di lavoro. Intanto,
come si è visto, è pacifico che vi sia stata una profonda dequalificazione
dovuta, come è risultato dall’istruttoria, alla imputazione della manomissione
dei robots: qui il datore di lavoro, correttamente, avrebbe dovuto semmai
contestare sul piano disciplinare il fatto e, se accertata la responsabilità,
comminare la sanzione, e non dequalificare il lavoratore (cosa che è stata
fatta, evidentemente, nella mancanza di elementi certi di responsabilità
attribuibile al comportamento di AG).
E’ altrettanto
pacifico che il Giannelli sia stato destinatario di una serie di "visite
fiscali", in alcuni casi connotate addirittura da illegittimità (come nel
caso della visita svolta il giorno successivo al primo accertamento
confermativo).
E’, infine,
pacifico che, sussistendo la malattia - secondo i medici Inps - fino al 27
giugno, il datore di lavoro abbia utilizzato il pretesto della errata
compilazione del certificato per ottenere un ulteriore motivo di licenziamento.
Non vi sono,
allora, dubbi, stante la coincidenza temporale, che la malattia psichica del
Giannelli sia stata determinata dal comportamento scorretto del suo datore di
lavoro, posto che, come risulta dalla certificazione e dalla CTU, non vi è
traccia di disagio psichico in epoca antecedente all’insorgere della vicenda
lavorativa esaminata.
Tenuto conto
della durata della malattia (oggi da presumersi regredita, posto che dopo il
licenziamento il Giannelli ha anche ripreso a lavorare) e della sua entità, il
danno alla vita di relazione conseguente alla patologia accertata può essere
determinato nella ulteriore somma di L. 10.000.000.
Quanto, infine,
alla contestazione disciplinare il ricorrente lamenta che l’azienda l’abbia
revocata per il mancato rispetto del termine di cinque giorni e l’abbia poi
rinnovata senza una nuova contestazione. Il rilievo è infondato, poiché il
fatto contestato è sempre quello originario ed in ordine a questo il lavoratore
ha avuto la possibilità di svolgere le sue difese, sicché sarebbe stata del
tutto ultronea una nuova contestazione. Nella sostanza, dunque, appaiono
rispettati i contenuti ed i tempo della procedura disciplinare.
Il danno subito
dal lavoratore per l’ingiustificato licenziamento medio tempore è,
dunque, pari alle retribuzioni omesse sulla base della paga di V° livello,
detratto quanto lo stesso AG ammette di aver percepito da diversi datori di
lavoro. Il suo ammontare deriva da conteggi che il datore di lavoro non ha
contestato ed è, allora, pari a L. 60.403.871 (dal totale esposto dal
ricorrente è stato detratto quanto calcolato a titolo di TFR, posto che il
rapporto non si è interrotto).
Tutte le somme ,
ad accezione di quelle risarcitorie per danno biologico e danno alla
professionalità, andranno corrisposte con gli interessi sulla rivalutazione
(art. 429 c.p.c. , Corte Cost. n. 495/2000)
Le spese di lite,
liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Il giudice:
dichiara che il
licenziamento intimato ad AG non è assistito né da giusta causa né da
giustificato motivo e per l’effetto condanna parte convenuta a reintegrarlo
immediatamente nel posto di lavoro in mansioni di V° livello CCNL, nonché a
corrispondere ,a titolo di risarcimento del danno per l’ingiustificato recesso,
la somma di L.60.403.871 oltre interessi e rivalutazione ed a corrispondere la
contribuzione previdenziale omessa;
dichiara che AG
ha diritto ad essere inquadrato al V° livello CCNL dall’1.6.1996 e condanna la
convenuta a detto inquadramento ed a corrispondere le differenze di
retribuzione con gli interessi sulle somme rivalutate;
condanna parte
convenuta al risarcimento del danno alla professionalità e del danno alla vita
di relazione complessivamente liquidato in L. 20.000.000;
rigetta la domanda
di annullamento della sanzione disciplinare;
condanna parte
convenuta al pagamento delle spese di lite che liquida nella somma complessiva
di L. 11 684.800, di cui L. 5.106.000 per diritti, L. 5.370.000 per onorari, L.
161.2000 per spese imponibili e L.1.047.600 per spese generali, oltre Iva e
Cap.
Dichiara la
presente sentenza provvisoriamente esecutiva.
Pisa
li 13.3.2001
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