Controlli di malattia persecutori e risarcimento danni per aggravamento di sindrome depressivo ansiosa

 

Cass. sez. lav. 19 gennaio 1999, n. 475 - Pres.  Sommella - Est.  Miani Canevari - PM.  Buonajuto (concl. conf.)- Edilsalento S.rl. c. Carone.

 

Malattia del lavoratore - Visite di controllo - Richiesta dei datore di lavoro all'Inps di effettuare continue visite domiciliari di controllo - Illegittimità - Aggravamento della malattia con invalidità permanente e riduzione della capacità di lavoro - Diritto dei lavoratore al risarcimento dei danno – Sussistenza.

 

E’ risarcibile il danno derivato al dipendente da un comportamento illegittimo e persecutorio del datore di lavoro, consistito nella richiesta a più riprese, all'Inps dell'effettuazione di visite mediche domiciliari di controllo dello stato di malattia del lavoratore, attestato dal certificato del medico curante, nonostante la malattia fosse stata già accertata dai controlli precedenti.  Nella specie il S. C. ha confermato la sentenza d'appello secondo la quale il comportamento del datore di lavoro aveva causato un aggravamento della malattia del lavoratore tale da portare ad una invalidità permanente con riduzione della capacità di lavoro, riformandola, tuttavia per quanto attiene alla determinazione del risarcimento del danno morale e di quello patrimoniale derivante dalla ridotta capacità di lavoro.

 

Svolgimento del processo. - Con ricorso al Pretore di Lecce Giuseppa Carone, già dipendente della società Edilsalento, deduceva l'illegittimità del comportamento della datrice di lavoro che l'aveva sottoposta a continue vessazioni, tra l'altro con la richiesta sistematicamente ripetuta di visite di controllo del suo stato di malattia, determinando l'aggravamento dello stato patologico consistente in una sindrome ansioso depressiva di natura reattiva; chiedeva quindi, oltre all'accertamento del proprio diritto alle ferie e ai riposi, la condanna della convenuta al risarcimento dei danni, anche morali, subiti e subendi, da liquidarsi a prudente criterio del giudicante.

Il Pretore adito pronunciava su questa domanda condannando la convenuta al pagamento della somma di lire 45.375.000 a titolo di risarcimento del danno biologico, oltre a rivalutazione ed interessi.

Su appello proposto da entrambe le parti, il Tribunale di Lecce con sentenza del 9 agosto 1996 riformava parzialmente tale decisione, condannando la società convenuta in primo grado al pagamento di ulteriori somme a titolo di risarcimento dei danni alla capacità lavorativa, del lucro cessante in relazione alle retribuzioni perdute e del danno morale, oltre rivalutazione ed interessi.

Il Tribunale, dopo aver disatteso l'eccezione di nullità del ricorso introduttivo del giudizio, ha affermato la responsabilità della datrice di lavoro per il danno cagionato alla dipendente có , n l'aggravamento e la definitiva stabilizzazione della malattia (prima emendabile e derivata da disturbi della personalità), ravvisando un elemento scatenante della patologia riscontrata nelle continue visite fiscali cui la Carone fu sottoposta su richiesta della datrice di lavoro, con frequenza quotidiana; l'intento persecutorio della società era dimostrato anche dal fatto che questa aveva sistematicamente ignorato i risultati delle visite di controllo, con le quali era stata sempre confermata la persistenza della malattia, continuando a richiedere ogni giorno una nuova visita.

Il giudice dell'appello, dopo aver confermato la statuizione del Pretore in ordine alla liquidazione del danno biologico, affermava che la responsabilità risarcitoria si estendeva al pregiudizio conseguente alla parziale perdita della capacità lavorativa, al danno per lucro cessante e al danno morale.

Avverso questa sentenza la soc.  Edilsalento propone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.  Giuseppa Carone resiste con controricorso.

 

Motivi della decisione. - 1. Con il primo motivo la società ricorrente denuncia i vizi di violazione e falsa applicazione dell'art. 414, nn. 3, 4 e 5 e dell'art. 164 c.p.c., nonché omessa insufficiente motivazione, censurando la statuizione di rigetto delle eccezioni di nullità del ricorso introduttivo.  Rileva l'assoluta inderminatezza della generica richiesta di risarcimento dei danni, in assenza di indicazioni sulle singole voci di danno e di una necessaria quantificazione del risarcimento richiesto (che non può essere demandata all'impulso dell'organo giudicante e ai risultati di una consulenza tecnica); deduce inoltre che l'attrice in primo grado non ha specificato gli elementi di diritto posti a fondamento della domanda, qualificando il titolo giuridico della pretesa responsabilità della convenuta (riferibile ad una responsabilità contrattuale o extracontrattuale) e prospettando, quanto al danno morale, la sussistenza di una fattispecie penalmente rilevante.

Il motivo appare infondato.  Nel rito del lavoro, per aversi nullità del ricorso introduttivo del giudizio, ai sensi dell'art. 414, n. 3 e n. 4, c.p.c., in relazione all'art. 156 dello stesso codice, occorre che il petitum, sotto il profilo sostanziale e processuale (ossia il bene della vita richiesto ed il provvedimento giudiziale invocato), nonché le ragioni della domanda siano del tutto omessi ed assolutamente incerti, al punto che non sia possibile rilevarli attraverso l'esame complessivo dell'atto, la cui interpretazione è riservata al giudice del merito; l'onere della determinazione dell'oggetto della domanda può ritenersi poi assolto anche in difetto di quantificazione monetaria della pretesa dedotta, quando di questa siano indicati i titoli (giurisprudenza costante: v. per tutte Cass. 17 marzo 1986, n. 4413; Cass. 14 febbraio 1987, n. 1654; Cass. 18 novembre 1987, n. 8456, Cass. 27 febbraio 1998, n. 2205).  D'altro canto, una volta dedotta la situazione di fatto che giustifica la garanzia attribuita dalla legge, la individuazione del fondamento normativo che la sorregge attiene ad una questione di qualificazione giuridica, che il giudice deve compiere - senza essere condizionato dalla formula adottata dalla parte - tenendo conto dei contenuto sostanziale della pretesa e del provvedimento chiesto in concreto (cfr.  Cass. 22 giugno,1995, n. 7080; Cass. 2 febbraio 1996, n. 900).

Nella fattispecie, le ragioni poste dall'attrice a fondamento della domanda sono identificate con l'allegazione di un danno alla persona dovuto ad un comportamento della datrice di lavoro, fonte di responsabilità risarcitoria; la richiesta del risarcimento dei «danni, anche morali,- subiti 'e subendi» «da liquidarsi a prudente criterio del giudicante» appare, così come formulata, certamente esaustiva, in quanto idonea a comprendere tutti i ' profili del pregiudizio subito (cfr.  Cass. 27 lugliò 1995, n. 8216) rilevanti ai fini della determinazione dell'oggetto della domanda.

 

2. Con il secondo motivo si eccepisce (per la prima volta in questa sede) il difetto di competenza del giudice adito, rilevandosi che la signora Carone non ha invocato l'applicazione dell'art. 2087 c.c., e che la sussistenza del rapporto di lavoro è stata «degradata... a mera occasione della commissione di un delitto»; la controversia doveva ritenersi quindi devoluta alla cognizione del tribunale secondo le regole ordinarie della competenza e non del giudice del lavoro.

Il motivo appare inammissibile, perché l'incompetenza per materia dei giudice del lavoro non può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità ove la relativa questione, ancorché non preclusa dal giudicato, implichi l'esame di elementi e profili di fatto non ritualmente prospettati nelle pregresse fasi di merito; né, comunque, sussiste l'interesse a sollevare la relativa questione, quando la parte non alleghi alcuno specifico pregiudizio processuale derivato dalla mancata adozione del diverso rito (Cass. 20 settembre 1996, n. 8368).

 

3. Con il terzo motivo, che reca il titolo «violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2056 c.c., nonché degli artt. 2087, 1218, 1223, 1225, 1226 e 1227 c.c. ed altresì degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p. - omessa insufficiente e contraddittoria motivazione» la sentenza impugnata viene censurata sotto diversi profili, che devono essere analiticamente esaminati tenendo conto delle loro connessioni.

 

3.1. L'apprezzamento in ordine al nesso causale tra l'aggravamento della malattia della signora Carone e il comportamento della società datrice di lavoro viene criticato con i seguenti rilievi:

-   il Tribunale ha fondato il suo convincimento sulla deposizione del teste Schiavone, marito dell'attrice in primo grado, che non poteva essere ritenuto attendibile, anche perché riferiva su quanto appreso dalla moglie;

-     non era stato dimostrato l'intento persecutorio del datore di lavoro, né il suddetto nesso causale con le richieste all'Inps di visite di controllo; inoltre, il giudice dell'appello non ha tenuto conto della condotta dell'ente previdenziale, che avrebbe comunque dato un considerevole apporto alla determinazione dell'evento;

-   il danno risarcibile doveva essere limitato all'aggravamento riconducibile al comportamento datoriale, posto che (come riconosciuto nella sentenza impugnata) la signora Carone era già portatrice di una patologia stabilizzata.

 

3.2. Con riguardo ai criteri adottati per la liquidazione delle singole voci di danno, la ricorrente deduce che il risarcimento del danno biologico è stato determinato sulla base delle c.d. «tabelle milanesi» e quindi con riferimento ad una realtà socio economica che non corrisponde a quella dell'area territoriale del Mezzogiorno dove si è svolto il rapporto; che gli importi derivati dal calcolo tabellare sono stati «inspiegabilmente rivalutati» e che la valutazione è comunque eccessiva.

 

3.3. E poi sproporzionata la liquidazione del danno morale, calcolato in «poco più della metà del danno biologico»: la quantificazione al livello massimo rispetto ai criteri di solito seguiti è priva di motivazione, e potrebbe essere giustificata solo dalla commissione di gravi reati.

 

3.4. Quanto al danno alla capacità reddituale, si contesta che la signora Carone abbia subito un danno permanente rilevante sotto questo aspetto; non si -comprende poi in base a quali parametri il Tribunale abbia potuto rapportare l'importo spettante ad un terzo di quanto liquidato per il danno biologico.  Risulta del resto una duplicazione del risarcimento, perché nelle tabelle di liquidazione è compreso anche il danno,alla capacità lavorativa generica.

 

3.5. Quanto al risarcimento del lucro cessante, si deduce che l'attuale resistente «non è tornata al lavora per sua libera scelta» perché se avesse seguito le terapie indicate nella consulenza tecnica avrebbe potuto riprendere la sua attività; si prospetta così un «concorso del creditore nella produzione dell'evento».

Sotto il profilo della responsabilità contrattuale, si deduce poi che «nessun danno era ragionevolmente prevedibile» e che comunque il risarcimento doveva essere. proporzionalmente ridimensionato; doveva essere anche considerato il fatto che la patologia sofferta dalla dipendente non era stata sino ad allora conosciuta dalla società.

 

4. Le censure meritano accoglimento nei limiti qui specificati.  Il Tribunale, con un giudizio di fatto sorretto da adeguata e logica motivazione (che fa riferimento anche ai risultati dell'indagine peritale) ha accertato che la ricorrente in primo grado era affetta da «sindrome ansioso-depressiva in una organizzazione di personalità abnorme»; lo stato patologico connesso al disturbo della personalità era, fino ad una certa epoca, comunque compatibile con lo svolgimento normale dell'attività lavorativa, nonostante una situazione di equilibrio instabile.

Quando peraltro la signora Carone si assentò dal servizio per malattia, la società datrice di lavoro determinò l'aggravamento dello stato patologico con un atteggiamento persecutorio, consistente nella ripetuta richiesta di visite mediche di controllo; la sentenza parla in proposito di un continuo ed immotivato stillicidio di queste visite, che secondo un ordine di un dirigente della società dovevano essere eseguite continuamente e quotidianamente, anche di sabato e domenica (deposizione teste Colaci), senza alcuna giustificazione perché in ogni occasione era stata confermata la diagnosi relativa alla personalità riscontrata ed era stata formulata la medesima prognosi di durata dell'infermità.  L'intento persecut6rio era così chiaramente dimostrato, perché nonostante i risultati degli accertamenti la datrice di lavoro aveva insistito nelle richieste di controllo ignorando sistematicamente le certificazioni dei medici dell'Inps.  Tale comportamento aveva determinato un aggravamento della malattia, tale da portare ad una invalidità permanente corrispondente ad una riduzione della capacità lavorativa del 20 per cento: la datrice di lavoro è responsabile dello stato di definitiva stabilizzazione della malattia (con postumi permanenti) e quindi dell'intera percentuale di invalidità riconosciuta, dato che la situazione preesistente consentiva una normale vita lavorativa.

 

4.1. Queste valutazioni si sottraggono alle critiche riportate nel precedente punto 3.l., formulate in modo del tutto generico per quanto riguarda l'accertamento della responsabilità della datrice di lavoro (senza l'indicazione di specifiche circostanze insufficientemente esaminate); il convincimento espresso non si basa dei resto sulle dichiarazioni del teste Schiavone, alle quali non si assegna valore decisivo rispetto alle altre risultanze valutate.  Anche la deduzione relativa al mancato apprezzamento della condotta dell'ente previdenziale è formulata in termini del tutto generici, ed appare comunque priva di rilevanza giuridica in relazione alla identificazione della condotta dell'attuale ricorrente come antecedente necessario del fatto lesivo, in applicazione della regola generale della equivalenza delle cause che comporta l'inclusione nel risarcimento di tutti i danni che si presentano come effetto norti-iale di tale condotta, rientrando nella serie delle conseguenze ordinarie cui essa dà origine).

 

4.2 Ugualmente generica appare la censura di cui al punto 3.2., che attiene alla liquidazione del danno biologico effettuata dai giudici di merito secondo il sistema del c.d. punto di invalidità, nel quale - come precisato nella sentenza impugnata - la quantificazione del danno prescinde da qualsiasi parametro legato ad aspetti patrimoniali.  Secondo un costante orientamento giurisprudenziale (v. Cass. 13 luglio 1995, n. 4255; Cass. 8 ottobre 1996, n. 8784.  Cass. 2 luglio 1997, n. 5949; Cass. 16 luglio 1997, n. 6516; Cass. 22 maggio 1998, n. 5134) si tratta di un valido criterio di liquidazione equitativa, la cui adozione da parte del giudice del merito non è sindacabile in sede di legittimità, se sorretta da congrua motivazione in ordine all'adeguamento del valore medio del punto alle particolarità della singola fattispecie.  La ricorrente non formula alcuna critica specifica in ordine alla determinazione del parametro adottato nel caso concreto, e le deduzioni relative all'area territoriale da considerare non hanno alcuna rilevanza ai fini dell'applicazione del suddetto criterio, che prescinde dai riflessi della lesione subita sulla sfera patrimoniale.

Analogo rilievo vale per la deduzione secondo cui gli importi liquidati sarebbero stati inspiegabilmente rivalutati, pur essendo stati utilizzati nel computo parametri e coefficienti «attualizzati»: l'assenza di indicazioni in ordine agli specifici elementi che il giudice dell'appello avrebbe erroneamente utilizzato non consente di verificare in questa sede la fondatezza della critica.

 

4.3. Per quanto riguarda la condanna al risarcimento del danno morale, i presupposti della relativa statuizione ricorrono quando il giudice civile ravvisi nel fatto generatore del danno un'ipotesi di reato: nella specie, tale accertamento è stato compiuto dal Tribunale con il rilievo (non sottoposto a censura) della configurabilità di fattispecie di lesioni personali volontarie penalmente rilevanti.  Il Tribunale non indica peraltro le ragioni per cui il risarcimento è stato stabilito nella misura di metà di quanto attribuito a titolo di danno biologico; risulta così violato il principio secondo cui la liquidazione del danno morale da fatto illecito, pur rimessa alla valutazione equitativa del giudice, deve essere compiuta rispettando l'esigenza di una razionale correlazione tra l'entità oggettiva del danno e l'equivalente pecuniario, sicché solo nella effettiva considerazione di ogni aspetto del caso concreto (risultante dalla motivazione della sentenza) e al di fuori di ogni automatismo, può considerarsi legittimo il ricorso al criterio di determinazione della somma dovuta per il risarcimento in questione in una frazione dell'importo riconosciuto per il danno biologico (Cass. 21 maggio 1996, n. 467 1; Cass. 29 maggio 1998, n. 5366).

Sotto questo profilo è quindi fondata la denuncia di vizio di motivazione di cui al punto 3.3.

 

4.4. Merita poi accoglimento la successiva censura di cui al punto 3.4. Il giudice dell'appello, dopo aver correttamente distinto il danno alla salute inteso nel senso sopra indicato - dalla lesione della capacità di produrre reddito, riferita agli accertati postumi invalidanti, ha liquidato questa voce di danno (prendendo a base gli stessi calcoli effettuati per il danno biologico) nella misura di un terzo della somma riconosciuta per tale titolo.

La sentenza non indica le ragioni poste a base di questa statuizione, che si pone in evidente contrasto con la premessa enunciata e con gli stessi principi correttamente richiamati. Nella determinazione del danno alla persona il danno biologico e quello patrimoniale (considerato cioè per i riflessi della lesione sul piano economico reddituale) attengono a due distinte sfere di riferimento, dovendosi avere riguardo per il secondo alla riduzione della capacità di guadagno e, per il primo, prevalentemente alla gravità della inabilità; per la stessa ragione il danno patrimoniale derivante dalla riduzione della capacità lavorativa generica è risarcibile autonomamente dal danno biologico soltanto se vi è la prova che il soggetto leso svolgesse - o fosse presumibilmente in procinto di svolgere - un'attività lavorativa produttiva di reddito (v. per tutte Cass. 15 aprile 1996, n. 3539; Cass. 15 novembre 1996, n. 10015).  Non trova dunque alcuna giustificazione logica la liquidazione del danno alla capacita reddituale secondo un parametro del tutto eterogeneo, indipendente dal ruolo che i requisiti ed attributi biologici della persona sono in grado di svolgere sulle capacità di reddito, e collegato alla sfera di incidenza non patrimoniale di essi.

La Corte osserva che il risarcimento del danno in questione doveva essere invece stabilito accertando in concreto in relazione l'incidenza dell'invalidità, in relazione ai redditi conseguibili in assenza della menomazione subita; tale aspetto non è stato affatto esaminato, mentre non risulta neppure rispettato (data l'impostazione adottata) il criterio da applicare perché il risarcimento del danno sia completo e per altro verso non si traduca in un arricchimento senza causa.  A tal fine, secondo la costante giurisprudenza, le liquidazioni delle due distinte voci di danno devono essere tenute presenti contemporaneamente affinché la liquidazione complessiva sia corrispondente al danno nella sua globalità che costituisce l'oggetto del risarcimento, riferibile alla proiezione negativa nel futuro di un medesimo evento (v.  Cass. 19 aprile 1996, n. 3727; Cass. 22 aprile 1998, n. 4071).

 

4.5 Le somme attribuite a titolo di lucro cessante sono riferibili ad una voce di danno diversa rispetto a quella da ultimo esaminata, cosi da escludere una duplicazione di risarcimento, in quanto il pregiudizio connesso ai riflessi proiettati nel futuro dell'invalidità permanente sulla capacità di guadagno sia concettualmente distinto da quello in concreto verificatosi a seguito dell'interruzione delle prestazioni della ricorrente in primo grado nell'ambito del rapporto di lavoro instaurato tra le parti e conclusosi con il recesso della signora Carone.  Di tale danno la sentenza impugnata ha tenuto conto riconoscendo il diritto della lavoratrice all'equivalente delle retribuzioni spettanti per l'intero periodo di assenza, sul rilievo che questa si era protratta per fatto e colpa dell'azienda stessa.  Tale statuizione sfugge alle critiche mosse (v. punto 3.5), in cui il dedotto concorso del danneggiato nella produzione dell'evento non trova alcun supporto nella ricostruzione della vicenda compiuta dai giudici del merito: l'accertata situazione di invalidità permanente esclude infatti l'emendabilità con terapie e la possibilità di.una piena ripresa dell'attività lavorativa senza riduzione di capacità di guadagno.  Gli ulteriori rilievi in ordine alla prevedibilità dell'evento lesivo e alla conoscenza della malattia trovano ugualmente confutazione nel medesimo apprezzamento di fatto (in particolare, per la circostanza della prosecuzione dei continui controlli quando i dati sulla situazione patologica erano già stati acquisiti); si deve d'altro canto rilevare che il criterio della prevedibilità di cui all'art. 1225 c.c. coincide tendenzialmente con quello della regolarità causale, nel senso di comprendere del danno risarcibile le conseguenze pregiudizievoli dell'inadempimento che di questo rappresentino effetti immediati e diretti o effetti mediati e indiretti rientranti comunque nella serie delle conseguenze normali ed ordinarie dell'inadempimento medesimo, in base ad un giudizio di probabile verificazione rapportato all'apprezzamento dell'uomo di media diligenza; ai fini dell'applicazione che limita il risarcimento a quello l'obbligazione, è sufficiente la consapevolezza di dovere una determinata prestazione ed omettere di darvi esecuzione intenzionalmente, senza che occorra altresì il requisito della consapevolezza del danno (Cass. 30 ottobre 1984, n. 5566; Cass. 25 marzo 1987, n. 2899).

 

5. Con l'ultimo motivo la ricorrente denuncia «inadeguatezza e nullità della c.t.u.», affermando la totale inadeguatezza dell'indagine peritale, che avrebbe dovuto offrire al giudice la possibilità di distinguere ed individuare in modo ben preciso la limitazione della responsabilità datoriale.  La consulenza tecnica «è nulla» perché la risposta ai quesiti posti dal giudicante è estremamente generica: il c.t.u. ha quantificato nella misura del 20 per cento il grado di invalidità determinatosi, senza specificare però «se la medesima invalidità fosse espressione di un danno biologico strettamente considerato, e se intendesse ricomprendere accanto al danno alla capacità lavorativa generica del soggetto anche quella specifica, ancora se abbia inteso quantificare il solo danno biologico, il solo danno alla capacità reddituale o entrambe le voci di danno».

La censura - che avrebbe dovuto essere rivolta direttamente alla valutazione da parte del giudice delle risultanze dell'indagine - non merita accoglimento, per quanto finora rilevato a proposito del terzo motivo di ricorso.

Il grado di invalidità permanente determinato nella consulenza tecnica costituisce infatti un parametro per l'accertamento del danno biologico, da riferire alla salute intesa come bene in sé, indipendentemente dalla capacità del danneggiato di produrre reddito ed a prescindere da questo; l'apprezzamento compiuto sul punto sfugge, come si è visto, alle critiche della parte ricorrente.  Lo stesso elemento fornisce d'altro canto la necessaria base per la determinazione dei riflessi pregiudizievoli della lesione sulla capacità reddituale; sotto questo profilo, l'errore rilevato nella decisione impugnata non riguarda l'utilizzazione del suddetto elemento, ma l'adozione di un criterio di liquidazione che non considera la concreta incidenza dell'invalidità sui redditi conseguibili con l'attività lavorativa.

La sentenza impugnata deve essere quindi annullata in relazione ai profili di censura accolti (v. punti 4.3. e 4.4.) con rinvio della causa ad altro giudice - designato nel Tribunale di Brindisi - che procederà a nuovo esame attenendosi ai principi sopra enunciati e provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

 

(pubblicata in Mass. giur. lav. 1999, 270 con nota di Rondo, E' illegittimo reiterare le visite mediche di controllo sulla malattia già accertata)

 

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