Benefici contributivi per esposizione ad amianto in ragione del solo requisito dell'esposizione qualificata decennale
 

Corte d'Appello di Firenze, sez. lav., 18 maggio 2004 - Pres. Drago - Rel. Bronzini - Vari ricorrenti c. Inps

 

Esposizione ad amianto e benefici di maggiorazione contributiva - Conseguono da esposizione qualificata di durata decennale, senza ricorrenza di limiti di soglia rinvenibili in fonti normative coeve alla l. n. 257/1992.

 

Il beneficio previdenziale di cui si discute è strettamente correlato al divieto assoluto di impiego ed utilizzazione di prodotti contenenti amianto e “conserva la finalità di incentivare l’esodo dal mondo del lavoro” (v. Corte cost. 31.10.2002, n. 434), senza alcuna distinzione circa il livello di rischio sopportato da ogni singolo lavoratore “esposto all’amianto”.

Ciò posto — a giudizio della Corte - non può condividersi la tesi secondo la quale, ai fini di cui al citato art. 13, comma 8°, si dovrebbero ricercare i valori soglia di concentrazione dell’amianto aerodisperso in fonti normative coeve.

Ne può condividersi la tesi secondo la quale la legge avrebbe posto addirittura una “doppia soglia”, comprensiva cioè del limite minimo delle otto giornaliere come affermato da Cass. sez. lav. 11.6.2003 n.  9399, in quanto una tesi siffatta - prima delle innovazioni legislative del 2003 - non trovava alcun sicuro ed effettivo riscontro normativo.

In proposito, infatti, non può trascurarsi che, per esempio il d.lgs. 15.7.1991, n.  277, (richiamato anche da Cass. sez. lav. 23.1. 2003, n.  997), è destinato ad operare sul ben diverso piano della indispensabile prevenzione in tutte le opere di bonifica, di trattamento e di smaltimento dell’amianto (non certo ultimate), che necessariamente sono imposte dalla diffusa permanenza del minerale nel più diversi prodotti e manufatti.

In questa ottica, e in base al testuale tenore delle fonti del 1991 (e successive modifiche), risulta evidente che, per il futuro, il legislatore ha posto dei livelli di “allarme”, al dl sopra dei quali devono essere adottate specifiche misure dl protezione o devono interrompersi le attività di bonifica.

Una diversa interpretazione (come quella che valorizza eccessivamente l’ assai ambigua espressione di “fibre dl amianto respirabili” dl cui alla legge n.  257/1992 citata) indurrebbe alla paradossale conseguenza per cui il legislatore, nel momento in cui poneva l’assoluto divieto dell’impiego dl prodotti contenenti amianto, ne avrebbe stabilito il carattere innocuo in concentrazioni medio-basse.

Nel quadro sopra delineato, appare dunque più conforme al dato letterale e sistematico, l’interpretazione del citato art. 13, comma 8°, che attribuisce il beneficio previdenziale ai lavoratori che, oltre al requisito temporale decennale, diano prova - come nella specie - di una esposizione “qualificata” all’amianto, imposta cioè da specifiche mansioni, svolte in postazioni ed ambienti nei quali il minerale non soltanto era impiegato in forme diverse e in quantità significative, ma era anche soggetto a facili e frequenti casi di aerodispersione, (per erosione, sfarinamento o sfilacciamento, etc.), in una situazione di gran lunga più rischiosa rispetto a quella che è data alla generalità delle persone.

La conclusione ora enunciata, del resto, non contrasta con quanto stabilito da Corte cost. 10/12.1.2000, n. 5, la quale, giudicando infondata la questione di illegittimità costituzionale del ricordato art. 13, comma 8°, (in relazione art.3 Cost.), si è limitata a precisare che il nostro ordinamento del lavoro ivi compresa la normativa in materia di malattie professionali) fornisce sufficienti parametri, che, coordinati con il requisito temporale, consentono di stabilire, nel caso concreto, quali siano i lavoratori effettivamente “esposti all’amianto”, in base ad una ragionevole applicazione ed interpretazione.

La normativa sopravvenuta nel corso del presente giudizio — che denota di aver contemplato tutta la complessa tematica ora illustrata - fornisce ulteriore e sicura conferma alla soluzione sopra accolta (art. 47 D.L. 30.9.2003, n.  269 convertito con modifiche in legge 24.11.2003, n.  326 e art. 3, commi 132 e 133, legge 24.12.2003, n. 350, in GU 27.12.2003,n.  299, suppl. ord. n.  196).

Infatti, per la prima volta, il legislatore, fra l’altro, ha stabilito che, a decorrere dal 1.10.2003, il beneficio contributivo in esame spetta “esclusivamente” ai lavoratori esposti all’amianto per un periodo decennale “in concentrazione media annua non inferiore a 100 fibre / litro come valore medio su otto ore al giorno” (ed è in questa fonte che, fra l’altro, si trova un collegamento, prima inesistente, tra la “rivalutazione contributiva” e le otto ore giornaliere).

Ed è evidente che la fissazione di un siffatto e specifico limite minimo di concentrazione non sarebbe stata necessaria ove fosse già stata prevista dall’ordinamento ai fini previdenziali che ci occupano.

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE DI APPELLO DI FIRENZE

Sezione lavoro

composta dai magistrati:

Dr. DRAGO Fabio Massimo    Presidente

Dr. BARTOLOMEI Luigi         Consigliere

Dr. BRONZINI Giovanni        Consigliere rel.

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Sentenza 555/2004

 

nella causa iscritta al n.  266 del Ruolo Generale anno 2004, discussa all’udienza del 18 maggio 2004, promossa

da

vari ricorrenti tutti dipendenti della B.C.F., rappresentati e difesi dall’Avv. I.V. ed elettivamente domiciliati in Firenze, Via S. Gallo n.  80 nello Studio dell’Avv. A.V. per mandato a margine del ricorso in appello

appellanti

contro

ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE — I.N.P.S.  in persona del legale rappresentante pro tempore, con sede centrale in Roma, Via Ciro il Grande n.  21, rappresentato e difeso dall’Avv. M.M., per procura generale alle liti 19.06.1998 n.  66729 a rogito Dott.ssa L.B. e dall’Avv. L.F., per mandato generale alle liti n.  227841 del 7.10.1993 in Notaio F.L.,

appellato

Conclusioni delle parti

Per gli appellanti: “Piaccia all’Ecc.ma Corte, in totale riforma della sentenza impugnata,  riconoscere e dichiarare che gli appellati hanno diritto al beneficio previdenziale previsto dall’art. 13, c. 8, della Legge 27.3.1992 n.  257 e quindi condannare l’Inps a rivalutare il periodo contributivo corrispondente, e per ciascuno di essi, al numero di giornate di esposizione all’amianto indicate nel prospetto nel fascicolo d’ufficio del giudizio di primo grado, richiamato nel verbale della udienza 05.07.2001 e che nuovamente si deposita agli atti (doc.2).

Vittoria di spese diritti e onorari dei due gradi di giudizio da distrarre a favore del sottoscritto difensore che se ne dichiara antistatario.”.

Per l’appellato Inps: “Rigettare l’avverso ricorso. Con vittoria di spese, diritti ed onorari del giudizio.”.

Oggetto: Rivalutazione contributiva per lavoratori esposti all’ amianto

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato il 24.2.2004, i ricorrenti proponevano appello avverso la sentenza 22.1/26.2.2003, n. 41 del Tribunale d Pistoia- giudice del lavoro, che aveva respinto la loro rispettiva domanda dl rivalutazione di periodi contributivi per esposizione all’amianto ex art. 13, comma 8°, legge 27.3.1992, n. 297.

In particolare gli appellanti deducevano che - alla stregua della c.t.u. espletata in primo grado, delle testimonianze acquisiti, degli atti amministrativi  ricognitivi del rischio - doveva considerarsi provata la loro esposizione ultradecennale all’amianto, alle dipendenze della B.C.F. e concludevano quindi per la riforma della sentenza impugnata.

Con memoria depositata il 26.4.2004, l’ INPS chiedeva il rigetto del gravame sottolineando la mancanza di prova circa i requisiti necessari per attribuire il beneficio previdenziale.

La causa è stata decisa oggi con pubblica lettura del dispositivo.

Motivi della decisione

Gli appellanti hanno prestato attività alle dipendenze della  B.C.F. con mansioni di impiegati tecnici.

Le circostanziate prove testimoniali assunte dal Tribunale (dep. C.G., B.A., M.G.) hanno dimostrato che A.S. e i suoi litisconsorzi nell’espletamento delle loro mansioni, trascorrevano circa il 50% della giornata lavorativa in officina, essendo addetti agli impianti e agli allestimenti delle carrozze, tutte attività che richiedevano, sia in fase di progettazione che di realizzazione, un coinvolgimento diretto con le pratiche attività di costruzione affidate agli operai.

L’indagine tecnica affidata al collegio peritale (L. A, F. C, A. M.,) ha accertato che nel reparti in cui operarono gli appellanti vi fu aerodispersione di fibre di amianto in concentrazioni significative fino al 1990:

si veda il prospetto relativo al settore « allestimento ferroviario” e “carpenteria ferroviaria” e livelli dl concentrazione evidenziati nella tabella 4.6.1, dove al grado “basso” è posto un valore da 10 a 100 fibre litro e a quello “medio” il valore da 100 a 200 fibre litro.

A ciò sia aggiunga che, con provvedimento 8.3.2001, prot. 500, diretto all’ INAIL, il Ministero del lavoro e della previdenza sociale, esaminati gli atti di provenienza della USL, ha riconosciuto l’esposizione all’amianto degli addetti alle officine ferroviarie della B.C.F. fino a “tutto il 1990 compreso”, al sensi e per gli effetti della legge n.  257/1992.

Risalta dunque provato che, i ricorrenti nell’espletamento delle loro mansioni e per causa specifica della loro attività lavorativa, dalla data di rispettiva assunzione e fino al 31.12.1990, furono esposti all’amianto in maniera di gran lunga superiore rispetto alla generalità della popolazione.

In diritto, si osserva:

il beneficio previdenziale di cui si discute è attribuito dall’art. 13, comma 8°, legge 27.3.1992, n.  257 (come modificato con d.l. 5.6. 1993, n.  169, convertito con modifiche dalla legge 4.8.1993, n. 271) “ai lavoratori che sono stati esposti all’amianto per un periodo superiore a dieci armi”. In base al suo testuale tenore, la norma non stabilisce — oltre al requisito temporale- alcun valore limite, in piena coerenza con l’acquisita consapevolezza scientifica che non esistono soglie al dl sotto delle quali la esposizione all’amianto sia innocua.

Ne può condividersi la tesi secondo la quale la legge avrebbe posto una “doppia soglia”, comprensiva cioè del limite minimo delle otto ore giornaliere come affermato da Cass. sez. lav.. 11.6.2003, n.  9399.

Ed è appunto per tale consapevolezza, maturata soltanto in anni recenti, che l’art. 1, comma 2°, legge n.  257/1992 citata, ha vietato (dal 28.4.1993) il’estrazione, la produzione, la commercializzazione, la importazione, la esportazione dl amianto o di “prodotti contenenti amianto”.

Va quindi sottolineato che - a partire dall’entrata in vigore della legge n.  257/1992 — venne introdotto nel nostro ordinamento il principio secondo il quale l’amianto, sotto ogni forma e In qualsiasi concentrazione aerodispersa, è dannoso per la salute, anche perché idoneo a cagionare non soltanto le patologie fino ad allora conosciute (come l’asbestosi), ma anche una varietà di forme tumorali, la cui eziologia è stata più recentemente diagnosticata.

Del resto, la normativa in materia di malattie professionali, prima e dopo il 1992, non ha fissato alcun limite di concentrazione del materiale dannoso nell’aria, ma ha inteso tutelare gli addetti a lavorazioni che “comunque espongano ad inalazioni di polvere di amianto” (vedi la tab. 8 del d.p.r. 30.6.1965, n. 1124 e il d.m. 13.4.1994, n. 336).

Quest’ultimo aspetto ha posto il problema del significato da attribuire all’inciso contenuto nell’art. 13, comma 8, citato, secondo il quale il beneficio contributivo di cui si discute resta ancorato ai periodi lavorativi soggetti alla assicurazione contro le malattie professionali presso l’INAIL.

Al riguardo, il richiamo alla normativa del T.U. del 1965 non può essere inteso come riferimento a “ valori soglia (che, come si è visto, non esistono in detta fonte), ma piuttosto a tutti i presupposti soggettivi ed oggettivi che il sistema assicurativo ha stabilito per accordare la tutela a fronte delle malattie professionali e a tutto il connesso apparato concettuale.

Ed è proprio tale apparato a costituire il principale parametro per l’interprete.

Del resto, se si tiene presente la giurisprudenza formatasi per la tutela delle c.d. malattie professionali non tabellate  (a seguito di Corte cost. 18.2.1988, n.  179), non possono nutrirsi sospetti di eccessiva genericità a fronte dell’art. 13, 8° comma, legge n.  257/1992. Ed è appunto questo il punto saliente dl Corte cost. 10/12.1.2000. n. 5, dove si ricorda all’interprete “il collegamento con il sistema generate dell’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali”.

Bisogna poi notare che il beneficio previdenziale di cui si discute è strettamente correlato al divieto assoluto di impiego ed utilizzazione di prodotti contenenti amianto e “conserva la finalità di incentivare l’esodo dal mondo del lavoro” (v. Corte cost. 31.10.2002, n. 434), senza alcuna distinzione circa il livello di rischio sopportato da ogni singolo lavoratore “esposto all’amianto”.

Ciò posto — a giudizio della Corte - non può condividersi la tesi secondo la quale, ai fini di cui al citato art. 13, comma 8°, si dovrebbero ricercare i valori soglia di concentrazione dell’amianto aerodisperso in fonti normative coeve.

Ne può condividersi la tesi secondo la quale la legge avrebbe posto addirittura una “doppia soglia”, comprensiva cioè del limite minimo delle otto giornaliere come affermato da Cass. sez. lav. 11.6.2003 n.  9399, in quanto una tesi siffatta - prima delle innovazioni legislative del 2003 - non trovava alcun sicuro ed effettivo riscontro normativo.

In proposito, infatti, non può trascurarsi che, per esempio il d.lgs. 15.7.1991, n.  277, (richiamato anche da Cass. sez. lav. 23.1. 2003, n.  997), è destinato ad operare sul ben diverso piano della indispensabile prevenzione in tutte le opere di bonifica, di trattamento e di smaltimento dell’amianto (non certo ultimate), che necessariamente sono imposte dalla diffusa permanenza del minerale nel più diversi prodotti e manufatti.

In questa ottica, e in base al testuale tenore delle fonti del 1991 (e successive modifiche), risulta evidente che, per il futuro, il legislatore ha posto dei livelli di “allarme”, al dl sopra dei quali devono essere adottate specifiche misure dl protezione o devono interrompersi le attività di bonifica.

Una diversa interpretazione (come quella che valorizza eccessivamente l’ assai ambigua espressione di “fibre dl amianto respirabili” dl cui alla legge n.  257/1992 citata) indurrebbe alla paradossale conseguenza per cui il legislatore, nel momento in cui poneva l’assoluto divieto dell’impiego dl prodotti contenenti amianto, ne avrebbe stabilito il carattere innocuo in concentrazioni medio-basse.

Nel quadro sopra delineato, appare dunque più conforme al dato letterale e sistematico, l’interpretazione del citato art. 13, comma 8°, che attribuisce il beneficio previdenziale ai lavoratori che, oltre al requisito temporale decennale, diano prova - come nella specie - di una esposizione “qualificata” all’amianto, imposta cioè da specifiche mansioni, svolte in postazioni ed ambienti nei quali il minerale non soltanto era impiegato in forme diverse e in quantità significative, ma era anche soggetto a facili e frequenti casi di aerodispersione, (per erosione, sfarinamento o sfilacciamento, etc.), in una situazione di gran lunga più rischiosa rispetto a quella che è data alla generalità delle persone.

La conclusione ora enunciata, del resto, non contrasta con quanto stabilito da Corte cost. 10/12.1.2000, n. 5, la quale, giudicando infondata la questione di illegittimità costituzionale del ricordato art. 13, comma 8°, (in relazione art.3 Cost.), si è limitata a precisare che il nostro ordinamento del lavoro ivi compresa la normativa in materia di malattie professionali) fornisce sufficienti parametri, che, coordinati con il requisito temporale, consentono di stabilire, nel caso concreto, quali siano i lavoratori effettivamente “esposti all’amianto”, in base ad una ragionevole applicazione ed interpretazione.

La normativa sopravvenuta nel corso del presente giudizio — che denota di aver contemplato tutta la complessa tematica ora illustrata - fornisce ulteriore e sicura conferma alla soluzione sopra accolta (art. 47 D.L. 30.9.2003, n.  269 convertito con modifiche in legge 24.11.2003, n.  326 e art. 3, commi 132 e 133, legge 24.12.2003, n. 350, in GU 27.12.2003,n.  299, suppl. ord. n.  196).

Infatti, per la prima volta, il legislatore, fra l’altro, ha stabilito che, a decorrere dal 1.10.2003, il beneficio contributivo in esame spetta “esclusivamente” ai lavoratori esposti all’amianto per un periodo decennale “in concentrazione media annua non inferiore a 100 fibre / litro come valore medio su otto ore al giorno” (ed è in questa fonte che, fra l’altro, si trova un collegamento, prima inesistente, tra la “rivalutazione contributiva” e le otto ore giornaliere).

Ed è evidente che la fissazione di un siffatto e specifico limite minimo di concentrazione non sarebbe stata necessaria ove fosse già stata prevista dall’ordinamento ai fini previdenziali che ci occupano. Del resto, la nuova legge contempla espressamente una normativa transitoria, evidentemente indispensabile a seguito della portata restrittiva della riforma del 2003.

Infatti, il sicuro carattere innovativo della citata normativa sopravvenuta è confermato dal fatto che l’art. 3, comma 132, legge 24.12.2003, n. 350, “fa salve le disposizioni previgenti alla data del 2.10.2003”, per coloro che, entro la stessa data, hanno avanzato domanda di riconoscimento all’ INAIL o che “ottengano sentenze favorevoli per cause avviate entro la stessa data”.

Quest’ultima platea di soggetti appare individuata con formula apparentemente complessa, ma l’averli accomunati a coloro che presentarono domanda amministrativa in epoca anteriore al 2.10.2003, conduce alla conclusione per cui la nuova (e più restrittiva) disciplina (compreso l’abbattimento del coefficiente a 1,25) non si applica ai giudizi in corso. Per i motivi sopra illustrati, la sentenza impugnata va dunque riformata. Tutti gli appellanti possono far valere un periodo altra decennale di esposizione come emerge dal “curricula” non contestati e dettagliati in atti.

Pertanto, ad essi va riconosciuta, rispettivamente, la rivalutazione contributiva per i periodi specificati in dispositivo. L’evoluzione giurisprudenziale e legislativa che ha interessato la materia, anche in epoca successiva alla pronunzia della sentenza di primo grado, fa ravvisare i giusti motivi dl cui all’art. 92 c.p.c. per la compensazione delle spese processuali, mentre quelle di CTU, come liquidate dal Tribunale, restano a carico dell’ INPS.

P.Q.M.

In riforma della sentenza impugnata, accerta che gli appellanti hanno diritto alla rivalutazione della contribuzione INPS, secondo il coefficiente 1,5, a norma dell’art. 13, comma 8°, legge n.  257/1992, per i periodi sotto indicati:

A.S. dal 1.9.1978 al 31.12.1990, B.C. dal 29.3.1977 al 31.12.1990, L.G. dal 16.1.1978 al 31.12.1990; T.E. dal 1.10.1979 al 31.12.1990: G.L. dall’ 11.9.1978 al 31.12.1990, C.S. dal 3.9.1979 al 31.12.1990, V.M. dal 1.12.1977 al 31.12.1990, M.O. dal 3.9.1979 al 31.12.1990; R.P. dal 1.1.1980 al 31.12.1990; B.C. dal 5.11.1979 al 31.12.1990; B.B. dal 1.1.1980 al 31.12.1990, G.F. dal 3.9.1979 al 31.12.1990, S.M. dal 1.2.1978 aI 31.12.1990, F.C. dal 10.2. 1977 aI 31.12.1990, G.F. dal 18.1.1978 al 31.12.1990; P.G. dal 1.10.1979 al 31.12.1990

dichiara compensate le spese processuali di entrambi i gradi e pone le spese di CTU a carico dell’INPS come liquidate dal Tribunale.

 

Così deciso in Firenze il 18 maggio 2004.

Il Consigliere estensore

Giovanni BRONZINI

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Cass., sez. lav., 23 gennaio 2003, n. 997 – Pres. Ravagnani – Est. Evangelista – Bono (avv. Agostini) c. Inps (avv. De Lullo)

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 

La Corte d'appello di Torino, con sentenza depositata in cancelleria l'8 luglio 2000, confermando la decisione del Tribunale di Saluzzo, ha rigettato la domanda proposta, dal sig. Renato Bono e dagli altri assicurati qui ricorrenti, nei confronti dell'Inps e dell'Inail, per ottenere il riconoscimento del diritto alla rivalutazione, ai sensi dell'art. 13, comma 8, della legge n. 257/92, dei contributi versati nel periodo ultradecennale di attività lavorativa prestata con esposizione all'amianto.

La Corte ha, in particolare, ritenuto che il beneficio previsto dalla norma anzidetta si configura come uno strumento di tutela contro la disoccupazione involontaria, attribuito, quindi, ai soli lavoratori che, già impegnati in attività rischiose per esposizione alla menzionata sostanza nociva, abbiano sopportato, per effetto della forzata dismissione dei materiali pericolosi, un concreto nocumento di carattere occupazionale; e non, invece, ai lavoratori che, pur dopo tale dismissione, si siano trovati, come nella specie, nuovamente inseriti nel mondo del lavoro.

Ha, poi, rilevato che, nei confronti dell'Inail, sussiste un ulteriore motivo di rigetto della domanda, consistente nel difetto della sua legittimazione passiva.L'istituto, infatti, dovrebbe, eventualmente, nella sussistenza dei requisiti di legge, soltanto attestare l'esposizione all'amianto, in relazione alle situazioni di rischio parametrate: attestazione il cui rilascio non è di per sé solo idoneo a giustificare la proposizione di una domanda giudiziale.

Gli assicurati ricorrono per la cassazione di questa sentenza con due motivi di censura.

L'Inps e l'Inail resistono con controricorso.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

Il primo motivo di ricorso denuncia, in una con vizi di motivazione, la violazione degli artt. 101 e 112 cod. proc. civ., sul rilievo che la domanda giudiziale, avendo come presupposto (del rivendicato diritto alla sopravvalutazione della contribuzione) il requisito dell'esposizione ad un rischio che esorbita dalla copertura assicurativa dovuta dall'Inps, non può non essere rivolta anche nei confronti dell'ente competente ad assicurare siffatto rischio.

Il secondo motivo denuncia la violazione dell'art. 13, comma 8, della legge n. 257/92, assumendo i ricorrenti che è errata la interpretazione riduttiva accolta nella sentenza impugnata, scopo della norma essendo quello di agevolare il pensionamento non soltanto dei lavoratori ancora operanti nel settore dell'amianto ma, più in generale, di tutti i lavoratori che, per la prolungata esposizione alla sostanza nociva, abbiano subito un rischio capace di comprometterne la salute.

Il primo motivo di ricorso non è fondato.

La Corte si è già pronunciata sulla questione nella sentenza 28 giugno 2001 n. 8859 (ma vedi anche Cass. 25 febbraio 2002 n. 2677) affermando il principio che, quando il lavoratore abbia chiesto, come nella concreta fattispecie, l'accertamento giudiziale del diritto alla rivalutazione (per il coefficiente 1,5) del periodo lavorativo nel quale è stato esposto all'amianto, avvalendosi della disposizione di cui all'art. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992 n. 257 (come modificato dall'art. 1, comma 1, d.l. 5 giugno 1993 n. 169, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 1993 n. 271), l'unico soggetto legittimato a stare in giudizio è l'ente previdenziale tenuto ad operare la rivalutazione anzidetta, posto che la norma che dà veste al diritto azionato finalizza il beneficio da essa previsto (consistente nell'incremento dell'anzianità contributiva e assicurativa, attraverso il meccanismo della ipervalutazione del periodo di "esposizione" coperto da contribuzione) ad una più rapida acquisizione del diritto alle prestazioni pensionistiche e non già all'attribuzione delle (diverse) prestazioni oggetto del regime assicurativo che fa carico all'Inail.

Alle considerazioni già svolte nelle ricordate pronunce va aggiunto che, significativamente, la norma del comma 8 non prescrive - diversamente da quella contenuta nel comma 7 dello stesso art. 13 per i lavoratori che abbiano contratto malattie professionali - l'assolvimento di alcun incombente da parte dell'Inail, in particolare richiedendo, come in quel caso, che l'avvenuta esposizione all'amianto sia "documentata" dall'Istituto. Se pure, quindi, a quest'ultimo, nel procedimento amministrativo aperto dall'Inps a seguito della domanda di attribuzione dell'accredito contributivo di cui trattasi (come pure nella eventuale fase contenziosa) può essere chiesto di intervenire per attestare, quale soggetto dotato di specifica competenza tecnica, l'esposizione a rischio, ciò non significa che l'accertamento dallo stesso operato assuma carattere pregiudiziale e vincolante (rilevando solamente ed eventualmente a fini probatori), né che la sua (eventuale) partecipazione al giudizio gli faccia assumere la veste di soggetto passivo della domanda del lavoratore interessato, non avendo la legge n. 257/92 (come modificata e Integrata) innovato rispetto al principio generale di diritto processuale secondo cui la legittimazione alla causa è connessa con la titolarità del rapporto sostanziale.

Rispetto, pertanto, a una richiesta fondata sulla ripetuta disposizione dell'art. 13, comma 8, l'Inail difetta di legittimazione ("ad causam" in quanto soggetto del tutto estraneo al rapporto, di natura previdenziale, che dà titolo a una siffatta domanda.

 

Il secondo motivo è, invece, fondato nel sensi di cui alle considerazioni che seguono.

Le osservazioni contenute nella motivazione delle sentenze di questa Corte n. 6605 e 6620 del 7 luglio 1998, poste dal giudice "a quo" a fondamento della decisione, devono ritenersi superate dalla interpretazione che della disposizione dell'art. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992 n. 257 (nel testo modificato dall'art. 1, comma 1, d.l. 5 giugno 1993 n. 169 e poi dalla relativa legge di conversione 4 agosto 1993 n. 271) questa stessa Corte ha dato nelle sue decisioni più recenti (cfr., in particolare, Cass. 28 giugno 2001 n. 8859, 27 febbraio 2002 n. 2926), rese in epoca successiva alla pronuncia 12 gennaio 2000 n. 5 della Corte costituzionale, dichiarativa della non fondatezza delle questioni di costituzionalità della disposizione in oggetto, sollevate da alcuni giudici di merito con riferimento agli artt. 3 e 81 Cost.

Questo giudice, facendo proprie le indicazioni ermeneutiche di cui alla ricordata pronuncia, ha osservato come l'avere la legge n. 271 del 1993 eliminato la specifica menzione - contenuta sia nel testo originario del comma 8 dell'art. 13, sia in quello sostituito dal d.l. n. 169 del 1993 - dei "dipendenti delle imprese che estraggono amianto o utilizzano amianto come materia prima, anche se in corso di dismissione o sottoposte a procedure fallimentari o fallite o dismesse "come unici soggetti destinatari dell'apprestato beneficio previdenziale sia significativo dell'intento del legislatore di evitare ogni selezione soggettiva che possa derivare dal riferimento alla tipologia dell'attività del datore di lavoro e di attribuire, piuttosto, centralità all'avvenuta ultradecennale esposizione del lavoratore all'azione morbigena delle fibre di amianto; così da attribuire il detto beneficio non solamente a coloro che siano occupati in imprese direttamente investite dall'intervento legislativo (quelle cioè che estraggono o utilizzano amianto) e che abbiano perso (o siano destinati a perdere) il posto di lavoro in conseguenza del divieto (art. 1, comma 2, legge n. 257/92) di ulteriore produzione e uso della sostanza, ma, più in generale, a tutti i lavoratori subordinati (è stata esclusa, infatti, l'applicabilità della ripetuta disposizione ai lavoratori autonomi: vedi Cass. 10 aprile 2002 n. 5082), indipendentemente dalla natura dell'attività propria dell'impresa datrice di lavoro, e senza che rilevino la circostanza della già avvenuta cessazione della esposizione alla data (28 aprile 1992) di entrata in vigore della legge n. 257/92 (non a caso l'art. 13, comma 8, usa espressioni al passato), come pure quella che il richiedente non abbia subito "contraccolpi" sul piano occupazionale; in tutti i casi ricorrendo la medesima situazione - del concreto rischio del manifestarsi, anche a distanza di anni, di malattie pesantemente invalidanti (se non addirittura mortali) a causa dell'impiego di una sostanza di constatata pericolosità per la salute come l'amianto - cui la legge n. 271 del 1993 ha voluto dare tutela offrendo ai lavoratori, che abbiano operato per un considerevole periodo di tempo in attività che li ponevano a (significativo) contatto con tale sostanza nociva la possibilità di abbandonare anticipatamente e definitivamente il lavoro attraverso un meccanismo che consente una più rapida acquisizione dei requisiti necessari alla maturazione del diritto ai trattamenti di pensione collegati appunto (come quelli di anzianità o di vecchiaia) alla definitiva cessazione dell'attività lavorativa.

Che la norma dell'art. 13 comma 8 della legge n. 257 del 1992 e successive modifiche sia volta a tutelare, in linea generale, tutti i lavoratori esposti all'amianto è stato, del resto, nuovamente ribadito dalla Corte costituzionale nella recentissima sentenza 22 aprile 2002 n. 127.

Il giudice delle leggi, scrutinando, ancora una volta, la legittimità costituzionale della ripetuta disposizione, dal giudice remittente considerata come non estensibile ai dipendenti delle Ferrovie dello Stato, ha ritenuto non fondata la questione, osservando come una interpretazione nei sensi sopra precisati sia la sola costituzionalmente adeguata e coerente con le finalità perseguite dal legislatore, che ha voluto tener conto della capacità dell'amianto di produrre danni sull'organismo in relazione al tempo di esposizione, così da attribuire il beneficio della maggiorazione dell'anzianità contributiva in funzione compensativa dell'obiettiva pericolosità dell'attività lavorativa svolta.

Alla luce delle considerazioni che precedono la disposizione denunciata si presta, dunque, ad essere interpretata in modo diverso da quello prospettato nella sentenza impugnata, consentendo di ricomprendere nel previsto beneficio previdenziale tutti i lavoratori dipendenti, beninteso in presenza dei richiesti presupposti, attinenti, segnatamente, all'esposizione ultradecennale all'amianto, alla soggezione all'assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dalla esposizione all'amianto e al rischio morbigeno.

A tale proposito questa Corte ha chiarito nella sentenza 3 aprile 2001 n. 4913 (cui si sono uniformate le successive decisioni, tra le quali quelle più sopra menzionate) che un rischio morbigeno rilevante ai sensi di legge è configurabile solo se si accerti la presenza, nell'ambiente di lavoro, di una dispersione di fibre di amianto in concentrazione che, per essere superiore ai valori limite indicati nella legislazione prevenzionale di cui al d.lgs. 15 agosto 1991 n. 277 e successive modifiche, rende concreta (e non solo presunta) la possibilità del manifestarsi delle patologie, quali esse siano, che la sostanza è capace di generare.

Non ignora il Collegio che in dottrina sono state mosse critiche alla ricostruzione in questi termini della nozione di "esposizione all'amianto", sostenendosi che una simile lettura dell'art. 13, comma 8, finirebbe per neutralizzare la portata precettiva delle norme sull'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, le quali (a partire dal d.p.r. 20 marzo 1956 n. 618, recante norme modificatrici della legge 12 aprile 1943 n. 455, istitutiva dell'assicurazione obbligatoria contro la silicosi e l'asbestosi) individuano le lavorazioni a rischio come quelle che "comunque" espongono all'azione di fibre di amianto (vedi, oggi, la tabella 8 allegata al d.p.r. n. 1124/1965 e la voce 56 della tabella 4 allegata allo stesso decreto) e alla cui stregua, dunque, l'incremento contributivo dovrebbe riconoscersi a tutti i lavoratori occupati in ambienti o in lavorazioni, nei quali (o a causa delle quali) si verifichi una qualche dispersione di tale sostanza.

Senonché le critiche suddette non considerano che è la stessa legge n. 257/92 a dare fondamento normativo alla esigenza di una esposizione superiore, per intensità, a una determinata "soglia", prevedendo con specifica disposizione (art. 3, poi sostituito dall'art. 16 della legge 24 aprile 1998 n. 128) - che richiama, e in parte modifica, i valori indicati nel d.lvo n. 277/91 - il limite di concentrazione al disotto del quale le fibre di amianto devono considerarsi "respirabili" nell'ambiente di lavoro (tanto da non obbligare all'adozione di misure protettive specifiche) e mostrando, così, di ritenere insufficiente, agli effetti dei benefici da attribuire ai lavoratori "esposti", la presenza della sostanza in quantità tale da non superare il limite anzidetto e da non rappresentare, per tale ragione, un potenziale pericolo per la salute.

Inserito e letto in tale contesto, l'art. 13, comma 8, della stessa legge non può essere interpretato altrimenti che nel senso di presupporre lo svolgimento di una delle lavorazioni specificate nel d.p.r. n. 1124/65 (artt. 1 e 3) e nelle relative tabelle (ovvero, secondo la più costante giurisprudenza di questa Corte, lo svolgimento di attività qualificate dal cosiddetto "rischio ambientale") e il superamento della "soglia" di rischio espressamente individuata dal legislatore, senza che ciò ne determini un contrasto con le regole del sistema assicurativo gestito dall'Inail (le quali, dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 179/88, consentono di ritenere la esposizione a rischio nonostante la mancata tabellazione della lavorazione e in presenza di una qualsiasi quantità di fibre di amianto), rispondendo tali regole alla esigenza - propria di tale sistema e non comparabile con quella sottesa all'attribuzione del beneficio previdenziale di cui si discute - di tutelare il lavoratore al verificarsi di una malattia professionale.

Del resto, se si ha riguardo alle altre misure di sostegno apprestate nelle varie disposizioni dello stesso art. 13, appare più che giustificata la necessità, per i lavoratori semplicemente esposti, di una doppia "soglia" (riguardante cioè sia la durata che la intensità della esposizione) di accesso al beneficio previdenziale, tenuto conto della diversità del rischio che, nel caso considerato dal comma 8, è solo eventuale, mentre è certo e ormai verificato nel caso (della malattia professionale) previsto dal comma 7, mentre è ancora eventuale ma con probabilità massima di manifestazione nel caso (del lavoratori delle miniere o delle cave di amianto) descritto nel comma 6.

E' da rilevare, infine, che, nella già ricordata sentenza n. 5 del 2000, la Corte costituzionale ha ritenuto non fondata la questione di costituzionalità dell'art. 13, comma 8 anche sotto il profilo - evidenziato da alcuni giudici remittenti - che la mancata determinazione del fattore rischio, cioè della misura di esposizione rilevante, avrebbe portato, in violazione dell'art. 3 Cost., a trattare in maniera uniforme situazioni di concreto pericolo e non, proprio in base ad una interpretazione della norma che ne esclude l'intento di introdurre una indiscriminata rilevanza di qualsiasi tipo di esposizione, anche minima, purché protrattasi per oltre dieci anni, e ne presuppone, viceversa, il riferimento a una specifica soglia di rilevanza del rischio (quella appunto indicata dal decreto legislativo n. 277/91 e successive modifiche), in quanto tale da connotare le lavorazioni di potenzialità morbigene.

L'accertamento della esistenza di una esposizione significativa nel sensi sopra precisati deve essere compiuto dal giudice avendo riguardo alla singola collocazione lavorativa, verificando cioè - nel rispetto del criterio di ripartizione dell'onere probatorio ex art. 2697 cod.civ. (o, se del caso, avvalendosi dei poteri di ufficio ad esso riconosciuti nel rito del lavoro) - se colui che ha fatto richiesta del beneficio di cui all'art. 13, comma 8, dopo aver indicato e provato la specifica lavorazione praticata, abbia anche dimostrato che l'ambiente nella quale la stessa si svolgeva presentava una concentrazione di polveri di amianto superiore ai valori limite indicati (attraverso il rinvio al d.lvo n. 277/91) nell'art. 3 della legge n. 257/92. Il lavoratore, inoltre, sempre nell'ottica della necessaria personalizzazione del rischio, dovrà dimostrare la sussistenza dell'ulteriore requisito prescritto dalla legge, vale a dire di essere stato esposto a quel rischio "qualificato" per un periodo superiore a dieci anni; con l'avvertenza che, nel periodo in questione, dovranno essere computate le pause "fisiologiche" di attività (riposi, ferie, festività) che rientrano nella normale evoluzione del rapporto di lavoro.

All'accertamento giudiziale in questione non è di ostacolo il mancato rilascio (ovvero il contenuto) delle dichiarazioni che, in punto di durata e di intensità di esposizione del lavoratore all'amianto, l'Inail e il datore di lavoro sono chiamati ad effettuare nel corso della procedura amministrativa stabilita in sede congiunta da Inps, Inail, Ministero del lavoro e parti sociali ed esplicitata in una circolare Inps (la n. 304 del 13.12.1995). L'assolvimento delle menzionate incombenze, infatti, si inserisce - ed esaurisce i suoi effetti - nell'ambito della riferita procedura, conseguente alla richiesta del beneficio da parte del lavoratore interessato, senza acquisire per ciò stesso valenza di autonomo provvedimento lesivo di posizioni sostanziali del richiedente, né assumere carattere vincolante in ordine ai fatti attestati, che possono pur sempre formare oggetto di contestazione o di diverso accertamento in un eventuale successivo giudizio (vedi Cass. 25 febbraio 2002 n. 2677, in motivazione).

Alla stregua degli enunciati principi, la sentenza impugnata deve ritenersi non conforme a diritto, avendo la stessa respinto la domanda degli interessati sul presupposto, giuridicamente errato, della attribuibilità del ripetuto beneficio previdenziale ai soli lavoratori che, essendo inseriti in imprese operanti nel settore dell'amianto, abbiano subito il danno occupazionale a cagione degli interventi legislativi intesi a determinare la dismissione delle lavorazioni relative al materiale pericoloso.

Deve, quindi, disporsene la cassazione con rinvio della causa ad altro giudice di merito per l'accertamento relativo alla sussistenza (o non), nel caso concreto, dei requisiti, soggettivi e oggettivi, richiesti dalla legge per l'attribuzione della reclamata rivalutazione, l'essere stato cioè il richiedente adibito, per oltre un decennio, ad attività di lavoro dipendente comportanti una "esposizione" all'amianto superiore alla soglia di rischio come sopra individuata.

Al giudice di rinvio, che si designa nella Corte d'appello di Genova, si rimette anche il regolamento delle spese del giudizio di cassazione nel rapporti fra assicurati ed Inps. Viceversa, avendo qui termine, per effetto del rigetto del primo motivo di ricorso, la controversia nei confronti dell'Inail, la Corte rileva che non v'è luogo a condanna dei ricorrenti soccombenti al rimborso, in favore di quest'ultimo Istituto, di spese processuali, non ravvisandosi gli estremi della manifesta infondatezza della domanda e della sua temerità, ai sensi dell'art. 152 disp. att. cod. proc. civ.

 

P.Q.M.

 

La Corte rigetta il primo motivo di ricorso ed accoglie il secondo nei sensi di cui in motivazione. Cassa la sentenza impugnata, in relazione alle censure accolte, e rinvia la causa, per nuovo esame e per il regolamento delle spese del giudizio di cassazione, alla Corte d'Appello di Genova. Nulla per le spese nei confronti dell’Inail.

 

************

Trib. Arezzo, sez. lav.,  19 gennaio 2006 – Giud. Miraglia – Meucci Alberto (avv. Borri, Capponi) c. INPS (avv. Cristalli).

 

CONCLUSIONI:

Per Meucci Alberto, "L'Ecc.mo Tribunale di Arezzo, in funzione di Giudice del Lavoro, si compiaccia ... di accertare che il ricorrente è stato esposto al rischio determinato dall'amianto secondo i valori limite superiori a quelli indicati negli artt. 24 e 31 d. lgs. 277/91 ed ha diritto al riconoscimento della rivalutazione contributiva prevista dall'art. 13 co. 8 della legge n. 257/92 per il periodo di esposizione 2 novembre 1964-16 gennaio 1975; dichiarare il diritto del ricorrente alla rivalutazione della contribuzione versata per il periodo dal 2/11/1964 al 16/1/1975, o per quel diverso periodo ritenuto di giustizia, applicando il coefficiente nella misura di 1,50 fissata dall'ottavo comma dell'art. 13 della legge n. 257/92, secondo quanto previsto dal comma 6 bis dell'art. 47 del d.l. 30/9/2003 n. 269 convertito in L. 24 novembre 2003 n. 326, condannare l'INPS alla riliquidazione del trattamento pensionistico cat VOCOM n. 36030889 in godimento di Meucci Alberto, tenendo conto della rivalutazione contributiva di cui sub. 1, ed al pagamento degli eventuali ratei arretrati dal dì del dovuto nella misura di giustizia, con interessi e rivalutazione monetaria. Con ogni consequenziale pronuncia di ragione o di legge. Con vittoria di spese e di onorari, da distrarsi a favore del procuratore antistatario".

Per l'INPS, "Si conclude affinché il Tribunale di Arezzo, giudice del Lavoro, voglia respingere la domanda avanzata da Meucci Alberto nei confronti dellTNPS".

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato in data 7 maggio 2004 e notificato assieme al decreto di fissazione d'udienza, Meucci Alberto conveniva l'Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS) avanti Tribunale di Arezzo, in veste di giudice monocratico del lavoro, per ottenere il riconoscimento del diritto a vedersi moltiplicata, in base al coefficiente 1,5, la durata del periodo in cui, come dipendente della SACELIT S.p.a., era stato, in vari magazzini della stessa, esposto all'inalazione delle fibre d'amianto. Deduceva, infatti, di avere, dal 2 novembre 1964 al 16 gennaio 1975, svolto attività tecnico commerciali, che lo avevano tenuto a stretto contatto con l'esalazione delle fibre d'amianto (crocidolite), impiegato per la produzione di lastre, tubi, raccordi e cassoni serbatoio, movimentati ed, all'occorrenza, tagliati o adattati alle esigenze della clientela con la sua materiale collaborazione, in piazzali e depositi a stretto contatto con il proprio ufficio, con conseguente aspirazione delle polveri di amianto, di cui questi erano, in parte, costituiti, e che la protrazione di questo stato di cose per oltre dieci anni gli aveva fatto acquistare, ai sensi dell'art. 13, comma ottavo, della Legge 257/92 e successive modificazioni, il sollecitato beneficio. Aggiungeva che la domanda era già stata, con ricorso depositato il 7 novembre 1996, proposta avanti al Pretore di Firenze e che il giudizio, a seguito di successive impugnazioni, era pervenuto, avanti alla Corte di Cassazione, che, con sentenza n. 3151 del 7 marzo 2002, aveva annullato la favorevole pronuncia del Tribunale di Firenze, designando quale giudice di rinvio, per gli ulteriori accertamenti di fatto, la Corte d'Appello di Firenze, peraltro, non adita nei termini, con conseguente estinzione del giudizio.

Costituitosi in giudizio, l’INPS resisteva all'accoglimento della domanda, sostenendo che la Suprema Corte aveva, nella citata sentenza di annullamento enunciato il principio, in vincolante tra le parti anche dopo l'estinzione del primo giudizio, che il beneficio richiesto era attribuibile solo a chi, avendo provato la specifica lavorazione praticata per più di dieci anni, fosse stato in grado di dimostrare che tale ambiente aveva presentato una concreta esposizione al rischio delle polveri d'amianto, con valori limite superiori a quelli indicati dagli artt. 21 e 31 del Decreto Legislativo 15 agosto 1991, ma che il ricorrente non aveva assolto a tale gravoso onere probatorio.

Istruita con la produzione di documenti, l'interrogatorio libero del ricorrente e l'escussione di testi, la causa è stata ritenuta in decisione all'udienza di discussione del 25 ottobre 2005, sulle conclusioni come in epigrafe rassegnate.

Motivi della decisione.

Non è sostanzialmente contestato che il ricorrente abbia prestato, dal 2 novembre 1964 al 16 gennaio 1975, attività lavorativa, che lo esponeva alla inalazione di polveri d'amianto e, pertanto, appare pienamente integrato il presupposto delle durata utile di tale esposizione per la maturazione del diritto alla rivalutazione contributiva.

Del resto, i testi ascoltati hanno, tutti, sostanzialmente e concordemente confermato che le mansioni svolte dal ricorrente lo ponevano in contatto diretto e quotidiano con manufatti composti anche d'amianto ed hanno  spiegato  che tale materiale era,  all'epoca, trattato senza alcuna precauzione e senza la consapevolezza della sua nocitivà. In particolare, i testi Galletti e Bartoli hanno descritto l'ambiente di lavoro della Sacelit di Firenze, ove il Meucci ha trascorso due anni, dal novembre 1964 al 1966, ed ove giungevano tre o quattro autotreni di manufatti in amianto, con un carico di trentaquattro quintali ciascuno. La scarsezza del personale rendeva necessario che il geometra Meucci coadiuvasse, nonostante le sue mansioni impiegatizie, gli operai nello scarico delle lastre e dei tubi in cemento-amianto, che si veniva così a trovare in diretto contatto con le polveri sollevate, con picchi estremi quando si procedeva, nel magazzino o nei cantieri, al taglio dei prodotti con sega circolare. Tali attività si protraevano per tre o quatto ore al giorno, ma anche quando, si ritirava, nel suo ufficio, prossimo a queste lavorazioni, l'ambiente frequentato dal ricorrente era contaminato da amianto, a seguito della dispersione di cocci e di rottami, all'assenza di aspiratori e di adeguati mezzi di protezione.

Le stesse condizioni di lavoro sono state confermati, da altri, testi per tutte le sedi successivamente frequentate dal Meucci ed è particolarmente significativa la deposizione del teste Rasero Mario, che avendo lavorato in ben sei filiali della Sacelit (in una delle quali si sono verificati ben 3 decessi per asbestosi), ha avuto modo di descrivere la situazione di esposizione, che risultava simile ovunque ed era caratterizzata dal coinvolgimento anche del personale tenico-impiegatizio in operazioni di carico e scarico, nonché taglio dei materiali con sega circolare.

Naturalmente, a distanza di tanto anni dai fatti, avvenuti in un'epoca in cui non si aveva nozione della pericolosità delle polveri d'amianto e quindi non si faceva alcun specifico controllo, non è possibile fare alcuna misurazione diretta del superamento soglia di 0,1 fibre a metro cubo, che, peraltro, proprio a causa della pericolosità dell'esposizione, è stata fissata ad un livello alquanto basso.

Ma gli studi versati in atti dal ricorrente ed anche la semplice intuizione dimostrano che operazioni, come il taglio con sega circolare e senza alcun accorgimento di manufatti in amianto, sollevi, per necessità di cose, un volume di fibre incomparabilmente superiore rispetto a questo limite e che in un giro di materiali così vorticoso come quello descritto le polveri accumulate in ogni dove (e mai trattate con gli opportuni sistemi di abbatrimento) si siano sollevate in modo massiccio anche ad ogni soffio di  vento, ad ogni calpestio e ad ogni passaggio degli innumerevoli mezzi di passaggio nei piazzali dei diversi magazzini. A tacer poi del fatto che, nello stabilimento di Sirone, la fibra di amianto arrivava allo stato puro in sacchi da trenta chilogrammi ciascuno (cfr. dep.Bonacina) e miscelata al cemento senza precauzione alcuna.

Anche senza far ricorso agli algoritmi accennati dal ricorrente nella sua memoria conclusiva (e che, peraltro, non mostrano niente di sbagliato), si può sicuramente affermare che la situazione ambientale dei luoghi frequentati per oltre un decennio dal Meucci era, dal punto di vista della contaminazione da fibre d'ambianto, talmente compromessa da raggiungere, sulle otto ore lavorative, una media necessariamente ben più elevata del minimo richiesto per il beneficio.

La domanda deve essere, quindi, accolta e le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Il Tribunale di Arezzo, decidendo, quale Giudice monocratico del Lavoro, sulla causa promossa, con ricorso depositato in data 7 maggio 2004, da Meucci Alberto contro INPS; ogni altra domanda, istanza od eccezione disattesa;

dichiara che il ricorrente ha, per il periodo dal 2 novembre 1964 al 16 gennaio 1975, diritto alla rivalutazione delle contribuzioni versate con l'applicazione del coeff. 1,5 e condanna l'INPS alla conseguente riliquidazione del trattamento pensionistico in atto ed alla corresponsione degli eventuali arretrati;

Condanna l'INPS a rimborsare al ricorrente le spese di lite, che liquida in complessivi €. 2.000,00=, di cui 1.100,00= per onorari, 600,00= per diritti ed il resto per spese.

 

Arezzo, lì 1° dicembre 2005 (depositato il 19.1.2006)

Il Giudice

Carlo Miraglia

*********

 

Corte d’Appello di Firenze  11 febbraio 2009 – Pres. Pieri – Est. Amato – Inps (avv. Imbriaci, Cristalli) c. Meucci Alberto (avv. Capponi)

 

PROCESSO e CONCLUSIONI

 

L’Inps impugna la sentenza del Tribunale di Arezzo che l'ha condannato a rivalutare ai sensi dell'art. 13, comma 8, L. 257/92 la contribuzione del signor Meucci per il periodo 2.11.64/16.1.75, criticando la decisione gravata per non avere valutato se l'esposizione a polveri di amianto determinata dal Tribunale in base alle prove testimoniali raccolte abbia raggiunto o superato la concentrazione prevista dagli arti 24 e 31 d.lgs. 277/91.

Conclude per la riforma dell'appellata sentenza e la reiezione della pretesa. L'appellato resiste all'impugnazione aderendo alla sentenza gravata.

La Corte ha disposto c.t.u. ambientale sui luoghi ove ha operato il signor Meucci come dipendente della Sacelit presso il deposito di Firenze e le sedi di Verona, Como e Milano. All'odierna udienza, la causa è stata discussa e decisa.

 

MOTIVI

 

Il gravame dell’Inps, all'esito dell'ampia, approfondita ed estremamente documentata consulenza espletata in questo grado, risulta infondato.

Nel confermare la trama interpretativa adottata per analoghe controversie in tema di benefici per prolungata esposizione a fibre aerodisperse di amianto ed in particolar modo l'interpretazione della S.C  che stabilisce la necessità di provare l'avvenuta esposizione oltre la soglia di rischio di cui al d.lgs. 277/91 (Cass. n. 16118/2005, Cass.n 15119/2005, Cass. n. 16256/2003, Cass. n. 10185/2002), che si ha comunque per accerta ta anche con criteri di rilevante probabilità (Cass. n. 16119/2005), il Collegio preliminarmente rileva che, contrariamente all'assunto dell'ente appellante, il dato testimoniale raccolto e la documentazione - anche fotografica - prodotta dall’odierno  appellante consentono di avere già netto il quadro di un'attività di lavoro del signor : Meucci, costantemente in presenza di molteplici manufatti contenenti amianto, oggetto specifico della produzione della sua datrice di lavoro, anche depositati per lungo tempo su piazzali scoperti e quindi alle intemperie ed alla conseguente probabilità di usura e sfarinamento e relativa dispersione di fibre del minerale tossico.

E’ incontrovertibile che Alberto Meucci, come impiegato operativo, ha sovrainteso anche al taglio delle lastre contenenti amianto ed alle operazioni di controllo della movimentazione della merce prodotta nei vari stabilimenti della Sacelit ed ammassati nei depositi.

Questi dati vanno anche collegati alle indicazioni del c.t.u. circa le plausibili presenze di fibre di amianto presso le varie sedi della Sacelit nonché quelle relative ad ex dipendenti della società datrice di lavoro di Alberto Meucci che hanno ottenuto il riconoscimento di malattie professionali da amianto.

Il consulente della Corte rileva altresì, in maniera appropriata, l'analogia tra talune mansioni/attività presso la Sacelit ed analoghi compiti lavorativi che hanno ottenuto per altri settori produttivi il riconoscimento dell'esposizione qualificata. Fa, infine, anche riferimento ad indagini sul territorio svolte dalla Asl locale, essendo per il lungo tempo trascorso del tutto inutile provvedere ad un sopralluogo diretto.

All’esito di tutta questa complessa indagine, appaiono pertanto ampiamente condivisibili, da un lato, le indicazioni circa la continuità dell'utilizzo dell'amianto presso tutti i luoghi ove ha lavorato l'appellato, nonché la sua presenza sui luoghi dell’impasto delia materia-prima rovesciata dai sacchi e sui piazzali dove avveniva anche la frantumazione e lo spezzettamento delle lastre con inevitabile fuoriuscita delle relative polveri, e, dall'altro, le conclusioni cui perviene l'ausiliare della Corte circa la "ragionevole probabilità" di essere state le esposizioni prolungate oltre il decennio, a fibre aerodisperse in quantità ampiamente superiore a quella di cui ai citati artt: 24 e 31: fino anche a 10ff/cc. e per talune operazioni anche di più.

Pertanto, si mostra ineluttabile - alla luce dì tale adeguata ed analitica indagine - confermare il diritto alla rivalutazione della contribuzione dell'appellato nel periodo sopra indicato. Le spese del grado seguono la soccombenza dell'Istituto.

 

P.Q.M.

 

rigetta l'appello e condanna l'Inps al rimborso delle spese del grado, liquidate in € 1.800,00 (€ 1.300,00 per onorari ed € 500,00 per diritti), oltre spese generali, IVA e CAP, con distrazione a favore del difensore, nonché di quelle di c.t.u., liquidate con separato decreto.

Firenze, 3 febbraio 2009 (depositato 11 febbraio 2009)

Il Presidente: dott. Giorgio Pieri

Il Consigliere estensore: Dott. Fabrizio Amato 

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