Benefici amianto: passato, presente,
futuro
L’art.
47 della collegata alla Finanziaria 2004 (D. L. 30 settembre 2003, n. 269) è
intitolato «benefici previdenziali
ai lavoratori esposti all’amianto».
Questo
scritto esamina in modo critico la nuova normativa che nella sostanza cancella
la possibilità di poter godere nel futuro di questi benefici; si sofferma sugli
aspetti di novità contenuti nella norma e soprattutto sulla questione
dell’efficacia nel tempo.
La norma
interviene pesantemente nella delicata materia allo scopo dichiarato di
ribaltare l’edificio interpretativo che ― pur fra tantissimi ostacoli
― era stato eretto a sostegno dell’applicazione dell’art. 13 comma 8
della L. 257/1992.
Il
decreto legge opera anzitutto un salto nei confronti del Parlamento dove da
mesi in Commissione Lavoro si discuteva sulla materia su svariati disegni di
legge; soprattutto delude legittime aspettative di migliaia di lavoratori, tra
i più disgraziati, gettandoli nello sconcerto e suscitando allarme e
mobilitazioni in ogni dove, da Siracusa a Trieste.
Più che
una modifica della precedente disciplina la norma opera infatti la sostanziale
abrogazione dei benefici previdenziali; tanti e tali sono le novità e le
condizioni dettate per la loro fruibilità da potersi dire che da qui in
avanti (dall’1 ottobre 2003) questi diritti non potranno essere più
riconosciuti a nessun lavoratore (senza una “benevolenza” della pubblica
amministrazione).
È
evidente anzitutto che le sirene del contenimento della spesa previdenziale
hanno trovato facile ascolto nel legislatore–governativo, che ha operato
anzitutto una maxi-riduzione di ben il 50% del beneficio in vigore (art.
47, comma 1); si tratta dell’ennesima stretta pensionistica che trascura la
dimensione costituzionale del beneficio (notava già la Corte di Cassazione n.
4913/2001 che questi sono benefici che «vengono attribuiti in attuazione dei
principi di solidarietà di cui è espressione l’art. 38 Cost. in funzione
compensativa dell’obiettiva pericolosità dell’attività svolta»).
Ancor
più corposa ed incisiva è la modifica che la stessa norma introduce in
relazione all’ambito di operatività del beneficio (modifica di cui è pure
evidente la rispondenza all’interesse e alle sollecitazioni di “tenerli al
lavoro più a lungo possibile”).
Il nuovo
ridotto beneficio infatti non si applica più ai fini del conseguimento delle
prestazioni pensionistiche (della maturazione del diritto di accesso alle
stesse) ma solo ai fini dell’importo delle prestazioni; la norma
precedente non faceva invece differenza ed agiva in tutte le direzioni sia per
il conseguimento sia per l’incremento della prestazione, senza alcuna
sterilizzazione contributiva; con l’unico illogico sbarramento per chi alla
data dell’entrata in vigore della precedente legge 257/1992 si trovasse in
pensione di vecchiaia o di anzianità (e non di invalidità); dal momento che i
più ritenevano che questo beneficio fosse incompatibile con lo stato di
quiescenza (ed avesse anzi l’esclusiva “funzione di far conseguire la
pensione”).
Oggi la
norma (ribaltando anche la ratio sottesa a quella pretesa
incompatiblità) congela l’effetto dei contributi maturati in virtù
dell’esposizione all’amianto e prevede che essi non possano operare più ai fini
dell’accesso alla pensione (contenendone di riflesso anche l’effetto di
incremento sull’importo della pensione); diventa necessario quindi che il
lavoratore rimanga in servizio fino a quando non maturi autonomamente i
prescritti requisiti di anzianità contributiva (oltre che anagrafica) per
accedere al pensionamento di anzianità o di vecchiaia, per poter poi godere dei
benefici amianto ai soli fini della misura della prestazione (e nei limiti in
cui a quel punto il beneficio può ancora esercitare effetti d’aumento su questo
unico aspetto).
Se si
pensa che, secondo quanto diceva il compianto prof. Maltoni, “la vita è
diminuita” in termini assoluti nella platea dei lavoratori esposti all’amianto,
anche il godimento di questo limitato beneficio potrà trasformarsi in molti
casi un’illusione scritta sulla carta…. dovendosi sperare che prima non arrivi
il peggio (e si sa che le malattie asbesto correlate sono caratterizzate da
periodi lunghissimi di latenza e da una virulenza che può condurre ad esiti
letali dopo pochi mesi dalla manifestazione clinica della malattia).
Il comma
2 dell’art. 47 introduce un’altra grave sperequazione ledendo espressamente la
situazione soggettiva di quei lavoratori che nel vigore della precedente
legge erano riusciti ad ottenere (l’agognato) certificato di esposizione
dall’Inail; la norma prevede infatti che sia la riduzione sia la
limitazione del beneficio, come stabilite nel primo comma, “si applicano
anche ai lavoratori a cui sono state rilasciate dall’Inail le certificazioni
relative all’esposizione all’amianto sulla base degli atti d’indirizzo emanati
nella materia dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali
antecedentemente alla data di entrata in vigore della legge”.
La
previsione va collegata a quella dettata nel quinto comma della stessa norma
con la quale questi stessi lavoratori vengono obbligati a presentare la domanda
all’Inail; a che pro, verrebbe da dire, visto che l’attestato di esposizione
Inail c’è l’hanno già?; e che per averlo hanno dovuto già presentare una
richiesta all’Inail? Per la norma evidentemente questo non basta sicché devono
ri-presentare domanda all’Inail se “intendano ottenere il riconoscimento dei
benefici” (ridotti).
Questa
norma apre un vulnus grave nell’ordinamento, assesta un duro colpo alle
fondamenta ed alla credibilità delle istituzioni.
Deve
ricordarsi infatti che con la legge 31 luglio 2002 n. 179 (art. 18 comma 8),
era stata espressamente riconosciuta la validità ― “ai fini del
conseguimento dei benefici previdenziali previsti dall’art. 13, comma 8 della
legge 27 marzo 1992 n. 257 e successive modificazioni ” ― delle
certificazioni amministrative rilasciate dall’Inail sulla base degli atti di
indirizzo emanati a seguito dei tavoli tecnici istituiti presso il ministero
del lavoro (un fatto già di per sé straordinario perché una apposita legge era
dovuta intervenire per garantire la validità di un atto amministrativo, in
qualche modo raddoppiandone il valore certificativo ed accrescendo la fiducia
riposta dai lavoratori); all’epoca la norma si era resa necessaria per far
cessare le resistenze frapposte dall’imprese e le controversie da esse
intentate sotto vari aspetti (ed in modo ostruzionistico e pretestuoso) contro
i provvedimenti ministeriali, impugnandoli davanti al Tar del Lazio e al
Consiglio di Stato, al fine di procrastinare la permanenza al lavoro dei
beneficiari (gettandoli nell’insicurezza, ostacolandone l’esodo al lavoro,
impedendo loro di potersi godere in santa pace i benefici di cui avevano
diritto da dieci anni in base alla legge 257/1992).
Oggi il
governo dice agli stessi lavoratori ―
molti dei quali hanno pure lasciato il lavoro dopo il sospirato
certificato Inail ― che quel
riconoscimento ministeriale e quel certificato, quelle battaglie processuali e
quella legge non sono serviti allo scopo; che essi devono tornare a lavorare;
il loro attestato di esposizione non serve per andare in pensione.
Ancora;
del tutto discriminatorio e sperequato risulta il disposto contenuto del terzo
comma dell’art. 47.
Si
prevede che il beneficio operi solo nei confronti dei lavoratori iscritti
all’Inail; mentre prima la legge non parlava di lavoratori iscritti ma di
periodi soggetti all’assicurazione obbligatoria Inail, tanto da consentire agli
interpreti di poter dire che la norma si applicasse anche ad altri lavoratori;
ed alla Corte Costituzionale (sentenza n. 127/2002) di poter dire che il
beneficio si applicasse ai Ferrovieri non iscritti all’Inail fino al 1996.
Questa
limitazione affossa definitivamente i diritti dei lavoratori marittimi in
quanto lavoratori assicurati all’Ipsema e non all’Inail; pur essendo stata
questa (e forse lo è ancora) una categoria fortemente esposta all’interno delle
navi quasi per intero coibentate con amianto (anche fino a tempi recenti).
Trattasi pertanto di una previsione normativa che si pone in dichiarato
contrasto con il contenuto della sentenza n. 127/2002 della Corte
Costituzionale la quale ha affermato che quello che conta in questi benefici
non è tanto il tipo di assicurazione sociale (non si tratta infatti di
prestazioni assicurative), bensì il tipo di rischio; la ratio dei
benefici, aveva detto la Corte, è l’aver subito un rischio sul lavoro, quale
che sia poi l’ente presso cui è assicurato il lavoratore.
Iniqua e
del tutto arbitraria è poi la previsione che fissa il limite di soglia di
esposizione necessaria per aver diritto al beneficio.
Subordinare
l’applicazione di questi benefici alla dimostrazione, da parte del
lavoratore, dell’esistenza di 100 fibre litro per 8 ore per 10 anni, come
fa questa norma, è un concetto “impossibile”: a) cioè asistematico ed
irrazionale: quel limite è infatti dettato dal D. Lgs. 277/1991 in funzione
preventiva, per fissare un allarme ed impedire il protrarsi
dell’esposizione per più di otto ore; ed è assurdo che venga proiettato in una
dimensione temporale di dieci anni a fini previdenziali b) odioso
e vessatorio (fino all’incostituzionalità): perché rende assai improbabile per
il lavoratore poter raggiungere la prova del suo diritto; c) elusivo e
finto: perché significa soltanto affidare alla Contarp il diritto di stabilire
dove e quando riconoscerlo; d) fuorviante ed antiscientifico: perché non
esiste limite di salvaguardia per l’amianto (è una favola diceva il prof.
Maltoni), tanto più rispetto ad un’esposizione che per essere rilevante ai fini
della norma deve durare più di 10 anni.
Non c’è
Consulente Tecnico d’Ufficio (CTU) che possa oggi accertare il superamento di
quel limite, a più di dieci di cessazione dell’uso dell’amianto cui hanno fatto
seguito bonifiche e dismissioni; il lavoro, come l’ambiente nel quale viene
reso, non è un esperimento che si possa sempre ricostruire sotto una campana di
vetro (bisogna esserci quando si fanno certe lavorazioni per poter capire).
Si
tratta quindi di una formula che è stata escogitata per dire che il limite non
è stato mai superato… senza la “ benevolenza” della Contarp… come dimostra
l’esperienza fin qui effettuata (le cause condotte, le note tecniche emesse
dalla Contarp, le testimonianze rese dai tecnici Contarp che hanno partecipato
ai tavoli ministeriali).
E’ anche
vero comunque ― e qui occorre una chiara autocritica ― che il
governo ha trovato facile sponda sul punto in quella giurisprudenza che
ha fatto di tutto per frapporre ostacoli molteplici al riconoscimento di questi
benefici; manifestando una chiara idiosincrasia nei confronti della
normativa; non c’è sentenza (salvo eccezioni) in cui non si sia scritto che la
norma precedente non fosse fatta male sul piano tecnico;…in realtà alludendosi
da parte di molti, e nemmeno in modo tanto celato, che insomma si era stati di
manica troppo larga nei confronti di questi lavoratori esposti all’amianto!!
La
posizione più criticabile su questa questione l’ha assunta da sempre la sezione
lavoro della Cassazione (fin da quando scrisse che i lavoratori “pensionati”
non sono “lavoratori” ai fini del beneficio); e da ultimo anche la Corte
Cost. che con la sentenza n. 434/2002 è arrivata a scrivere (persino) che nel
1992 e nel 1993 il legislatore non conosceva i meccanismi di azione circa la
nocività dell’amianto… (sic!). Si tratta di pronunce che sembrano
avvolte in una cornice di splendida separatezza: rispetto alla drammatica
realtà del problema, rispetto ad alcune elementari ed inoppugnabili
acquisizioni scientifiche e mediche, rispetto al resto della giurisprudenza
civile e penale che quando si pronuncia sull’amianto dice sempre che non
vi sono limiti espositivi e soglie di salvaguardia, come tutti sanno da almeno
trenta anni.
Eppure
l’art. 13 comma 8 l. 257/1992 è norma chiarissima; e di elevato contenuto
democratico, sotto molti aspetti; anzitutto basta leggerla per capirla (caso più
unico che raro): tutti i lavoratori che sono stati esposti all’amianto per
oltre dieci anni hanno diritto ad un beneficio previdenziale… (punto):
senza limiti di soglia; senza distinzione per categorie merceologiche; senza
distinguere l’esposizione diretta da quella indiretta; senza distinguere
disoccupati ed occupati; pensionati e non pensionati; abili ed inabili; contava
(e conta ancora come si vedrà) il rischio (concreto): non la presenza di
amianto in azienda (come alcuni cercano volutamente di equivocare), ma
l’accertata presenza dell’esposizione a fibre d’amianto disperse nell’aria e
soggette ad essere inalate dal lavoratore; ed a parità di rischio parità di
tutela; dieci anni di esposizione continuativa a qualunque limite di soglia
costituisce infatti una buona ragione per riconoscere a ciascuno un beneficio
compensativo del rischio che ha corso.
Ma il
nostro si sa è un Paese con la memoria corta, tende a dimenticare, ed allora
conviene di tanto in tanto ricordare qualche altra buona ragione che giustifica
l’erogazione di questi benefici. L’amianto ha mietuto e mieterà decine di
migliaia di vite umane (in massima parte lavoratori); le stime dell’Ispesl (non
dell’Associazione Esposti Amianto) parlano di altri 15000 morti solo per
mesotelioma pleurico per i prossimi 15 anni ed il picco deve ancor avvenire
(intorno al 2017); se si aggiungono i casi di cancro polmonare e l’altrettanto
mortale asbestosi, si arriva a numeri da ecatombe.
Si dirà
che vi sono anche molte altre malattie da lavoro; ed è vero; ed allora
occorrerà intervenire incisivamente anche in quei casi; ma il caso amianto è
unico e va ricordato.
Qui nel
1990 abbiamo avuto una condanna dello Stato Italiano in sede comunitaria per
inadempimento della direttiva CEE 1983/477 che mirava a proteggere la salute
dei lavoratori e che è stata recepita con otto anni di ritardo (D. Lgs.
277/1991).
Abbiamo
avuto, nonostante quella direttiva, il protrarsi di un impiego massiccio di
questa sostanza dovuto a una forte pressione del mondo imprenditoriale (come ci
ricorda un dibattito alla Camera dei Deputati del 12 luglio 1993); una
generalizzata e lunghissima omissione di misure di protezione e di doverose
informazioni in violazione di norme in vigore fin dagli anni 50 (D. P. R.
303/56; D. P. R. 457/55); misure che se attuate forse non avrebbero evitato con
certezza le morti, ma avrebbero con certezza allungato la vita (ossia diminuito
l’esposizione ed aumentato tempi di latenza e di insorgenza delle malattie).
Come
dimostrato nelle minuziose e documentate ricostruzioni contenute in decine di
sentenze penali (di merito e di legittimità), da decenni gli studi scientifici
avevano dimostrato la pericolosità dell’amianto, ai fini del mesotelioma, anche
a basse concentrazioni (con certezza questa correlazione era nota e diffusa dal
1965).
Abbiamo
avuto un generalizzato inadempimento dell’obbligo di denuncia all’Inail
dell’esistenza delle lavorazioni a rischio di esposizione (siccome non si
facevano rilevazioni di alcun tipo), con conseguente omissione nel pagamenti di
premi. Un sistema assicurativo ― sordo e retrogrado ― prevedeva
come malattia assicurata solo l’asbestosi (almeno in tabella fino al D.P.R.
336/1994 che vi ha inserito il mesotelioma alla voce 56) e subordinava il pagamento
di un premio da parte dell’imprese alla presenza di concentrazioni elevatissime
(migliaia di volte superiori a quelle richieste dopo il D. Lgs. 277/1991).
Ancora
nel 1997 la Commissione lavoro del Senato (c. d. Smuraglia) concludendo i
propri lavori osservava “benché sia noto che l’impiego di tale sostanza sia
all’origine dei tumori dell’apparato respiratorio e che l’utilizzo eccessivo
che se ne è fatto negli anni passati avrebbe determinato secondo una stima
approssimativa, circa 4000 casi di tumore di origine professionale all’anno, i
riconoscimenti di tumore come malattia professionale sono soltanto una decina
ogni anno”
Quindi
il sistema in vigore per lunghi anni non ha protetto la salute dei lavoratori;
non ha assicurato tutti i morti di amianto; ha consentito forti risparmi alle
imprese (sia per premi, sia per misure di prevenzione).
Sui
morti dell’amianto pesa un’enorme colpa collettiva anni 60–90: c’è un enorme
buco nero di più di trenta anni di omissioni.
Queste
sono le premesse di quelli che si continuano a chiamare benefici previdenziali
per l’amianto; e che bisognerebbe chiamare risarcimenti previdenziali: perché
un danno vi è comunque, per tutti i lavoratori dell’amianto, quantomeno di
natura esistenziale; perché non deve essere facile né bello vivere con
l’ipoteca di queste malattie tumorali che possono condurre alla morte nel
volgere di pochissimo tempo dalla loro insorgenza.
È poi
evidente la fretta del governo di chiudere al più presto questa partita fastidiosa
(che mobilita e fa discutere migliaia di persone “petulanti” che chiedono il
riconoscimento di un loro diritto e fanno pure le cause se non gli viene
riconosciuto); viene introdotto infatti un termine di decadenza di 180
giorni per presentare la domanda di riconoscimento all’Inail (a
proposito di che vengono in mente tutte le sentenze in cui si diceva che
l’Inail non era “legittimato passivo nelle cause relative all’accertamento
dei benefici”). Dunque decorso questo termine dalla pubblicazione del decreto
interministeriale attuativo (che dovrà avvenire entro 60 giorni), verrà messa
una pietra tombale su questa materia.
9.
Questione delicata e scottante all’interno di questa nuova normativa è
soprattutto quella che riguarda la sua efficacia nel tempo, essendo facile
prevedere che da questo versante passerà il tentativo di cancellare i diritti
acquisiti nel vigore della precedente disciplina ed ancora non definitivamente
accertati (essendovi cause pendenti e domande pendenti all’Inps); ovviamente
nessun problema potrà mai sollevarsi rispetto a giudicati ed a casi già
riconosciuti dall’Inps (perché giudicato e rapporto esaurito costituiscono un
limite alla stessa efficacia retroattiva della legge).
Si
tratta comunque di un tentativo destinato al fallimento perché niente può
autorizzare sul piano interpretativo una simile soluzione.
Tutti
sanno che come regola generale la legge dispone per l’avvenire; e non ha
effetto retroattivo; anche l’effetto estintivo abrogativo (totale o parziale)
di una norma opera ex nunc. Dunque una norma nuova non si può applicare
ai rapporti sorti (alle situazioni soggettive sorte, ai diritti maturati) nel
tempo anteriore alla sua emanazione; e per contro la norma precedente (anche se
abrogata o modificata) continua ovviamente a regolare i rapporti insorti
durante la sua vigenza.
Una
legge è retroattiva non solo quando dispone l’eliminazione di effetti già
prodotti (incida sui diritti già maturati e riconosciuti) ma anche quando
pretenda di incidere sugli effetti non ancora prodotti di diritti già maturati
(esercitati o non esercitati; riconosciuti o non riconosciuti): i diritti
quesiti. La legge nuova deve quindi rispettare anche questi diritti, quelli
la cui fattispecie acquisitiva si sia realizzata prima, anche se non sono
ancora concretamente fruiti.
Nel caso
dei lavoratori esposti all’amianto, il diritto esiste anche se chi ha fatto
domanda all’Inps prima dell’1° ottobre 2003 per ottenere la contribuzione
aggiuntiva ha ricevuto una risposta negativa; anzi chiedendo all’Inps di mettere
in atto un comportamento dovuto con il compimento di una attività puntuale e
temporalmente definita (liquidazione pensione, accreditamento contributivo,
maggiorazione) egli ha pure esercitato una sua facoltà per realizzare il
diritto.
L’obbligo
dell’Inps di provvedere sulla domanda prova non solo che il diritto è
già entrato nel patrimonio giuridico del lavoratore, ma che è pure iniziata la
sua fase di realizzazione.
Dunque
la nuova legge non può toccare la posizione soggettiva di chi ha maturato il
diritto e ne ha chiesto il riconoscimento avendone i requisiti alle condizioni
previste nella precedente disciplina. Le contestazioni e l’inadempimento
dell’Inps, il mancato accredito della contribuzione aggiuntiva, non possono
influire in alcun modo sull’esistenza del diritto se poi viene accertato in un
giudizio che quei requisiti sussistevano alle condizioni previgenti (questo è
il principio di irretroattività: tempus regit actum).
Il
problema sembra essere pertanto di agevole soluzione: la nuova legge dispone
per l’avvenire e non può essere applicata nei confronti di chi avesse già
richiesto l’accertamento del proprio diritto presentando domanda all’Inps
ovvero agendo in giudizio.
Nei
giudizi pendenti è infatti ovvio che non si possa applicare la normativa
sopravvenuta rispetto ad un fatto che si sia prodotto nel vigore della legge
precedente (ed il fatto è qui rappresentato sia dall’esposizione
ultradecennale, sia dall’aver agito per il riconoscimento dell’esposizione e
per l’erogazione del beneficio).
Ragioni
di non retroattività
Nessuna
applicazione retroattiva vi può essere di questa nuova normativa anche per
altri motivi.
Non solo
la norma non contiene alcuna clausola di diritto intertemporale, ma sopratutto la
legge è dichiaratamente non retroattiva; è dunque una applicazione alle
cause in corso sarebbe contraria alla legge stessa la quale dimostra invece di
aver voluto escludere dal proprio ambito le questioni pendenti; proprio allo
scopo si prevede infatti, e ripetutamente, che solo dal 1° ottobre 2003
il beneficio operi per il 25% e sempre dalla stessa data operi solo sull’entità
del trattamento e non ai fini del pensionamento; che solo dal 1° ottobre 2003
operi per gli iscritti all’Inail; solo dall’ 1° ottobre 2003 deve essere
presentata domanda all’Inail; solo dal 1° ottobre 2003 opera il limite delle
100 f/l .
Anzi per
quanto attiene quest’ultimo aspetto, sembra pure che con questa sottolineatura
il legislatore abbia voluto consapevolmente fare salve le diverse precedenti
interpretazioni, quelle contenute nelle sentenze che avevano ritenuto corretto
concedere il beneficio anche in presenza di un’esposizione qualificata da un
livello di fibre inferiore a quel limite (altrimenti il legislatore avrebbe
dettato una disposizione interpretativa oppure non avrebbe detto nulla per
ribadire il limite temporale); e dunque sul punto la giurisprudenza dovrà
rivedere il proprio orientamento per il passato anche alla luce di questa legge
(se è vero che il limita delle 100 fibre litro vale a partire dal 1° ottobre
2003).
C’è un
unico punto in cui la legge sembra avere invece una portata retroattiva:
quando dispone testualmente la sua applicazione anche nei confronti di chi
avesse già ottenuto l’attestato di esposizione all’Inail prima
dell’entrata in vigore della norma La norma così facendo travolge un atto
ricognitivo di una determinata situazione di fatto e sembra creare una
disparità di trattamento tra chi abbia solo l’attestato Inail e chi abbia
agito successivamente anche nei confronti dell’Inps (sui quali invece la
legge tace).
Questo
problema potrà essere risolto in vari modi, meno che, ovviamente, allargando
l’ambito della retroattività e cancellando tutte le altre posizioni che non
sono toccate da questa specifica previsione. .
Auspicabilmente
occorrerà eliminare questa discriminazione in sede di conversione del d. l. o
in mancanza adendo la Corte Cost. (e ricordando cosa hanno dovuto subire questi
lavoratori prima di ottenere il riconoscimento in sede ministeriale ed in sede
Inail; v. sopra).
Certo
non può essere sufficiente quella previsione derogatoria per affermare che la
legge abbia generali effetti retroattivi e sia tale da travolgere anche la
situazione di chi dopo l’accertamento Inail avesse già fatto richiesta all’Inps
ovvero avesse comunque promosso un giudizio (ovvero abbia ottenuto una sentenza
di 1° grado o di 2° grado).
Deve
essere sottolineato che la necessità di consolidare e differenziare la
posizione di chi si trovi in questa diversa situazione discenda anche da
ulteriori considerazioni.
Anzitutto
la nuova legge non si limita ad abbassare l’entità del beneficio; qui la
normativa è stata riscritta in toto; non si tratta solo di una riduzione di
benefici e basta, di semplici modifiche dell’aspetto contributivo e basta; ma
di una nuova regolamentazione che muta sicuramente oltre al quantum del
beneficio (da 1,5 a 1,25), l’oggetto del beneficio (solo importo di prestazioni
già maturate e non diritto di accesso), i soggetti titolari (solo quelli che
sono iscritti all’Inail), presupposti e condizioni (100 f. l.); addirittura il
soggetto che deve concedere il beneficio (l’Inail); e si prevede pure un
termine di decadenza.
Una
generale applicazione retroattiva di questa legge, a prima del 1° ottobre 2003,
significherebbe travolgere tutta una serie di posizioni soggettive che prima
erano regolate diversamente; ed innanzitutto travolgere il diritto di chi
avesse ottenuto una prima sentenza favorevole e si trovi oggi legittimamente
a godere la pensione anticipata (pendente un appello o la Cassazione); cosa
che la nuova norma non gli consente più di ottenere come effetto del bonus
contributivo.
Deve
essere quindi fermamente negato che la legge abbia una implicita forza
retroattiva. La retroattività costituisce deroga alla regola generale e dunque
deve essere espressa e di stretta interpretazione; e questo già impedisce di
estendere in via interpretativa l’efficacia retroattiva di quella particolare
disposizione.
Ecco
quindi che - salvo problemi di costituzionalità rispetto all’esclusione dal
regime precedente di chi avesse ottenuto l’attestato di esposizione Inail -
all’interno di questa legge, sul piano dell’efficacia temporale, si deve
operare una netta distinzione tra la situazione di chi avesse già fatto una
domanda all’Inps (ovvero già iniziato una causa) e quella di chi avesse solo un
attestato dell’Inail e non avesse richiesto il beneficio contributivo all’Inps
(unico istituto a poterlo riconoscere nel precedente regime).
Di più,
si potrebbe anche affermare che in realtà nella legge non vi sia alcun aspetto
retroattivo; neppure laddove si nega l’applicazione della legge
precedente a chi avesse solo l’attestato Inail si potrebbe parlare di retroattività;
si potrebbe sostenere infatti che prima della domanda all’Inps il diritto del
lavoratore esposto ad ottenere la rivalutazione contributiva è solo potenziale,
vive allo stato di aspettativa; potrebbe essere esercitato o non esercitato; lo
stesso obbligo dell’Inps di corrispondere il beneficio è virtuale, potrebbe
essere adempiuto o non adempiuto; e dunque nemmeno sul punto la legge è
retroattiva bensì si limita a regolare gli effetti di una fattispecie che non
si era ancora perfezionata ai fini dell’acquisizione del diritto, nemmeno nel
vigore della legge precedente.
Mancherebbe perciò anche questo
limitato appiglio per poter argomentare in senso estensivo sul piano della
retroattività.
Ottobre 2003
(di
prossima pubblicazione sulla rivista “Diritto e pratica del lavoro”)
Giudice del lavoro nel Tribunale di Ravenna
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