Confermato in appello il mobbing della Palazzina Laf dell’Ilva di Taranto
 
Condanne confermate. Sanzioni leggermente ridotte rispetto a quelle inflitte in primo grado, ma il verdetto per il caso della “palazzina LAF” dell'ILVA ha retto anche in appello. Niente da fare per il presidente dello stabilimento Emilio Riva e gli altri dieci imputati che speravano in una riforma del precedente verdetto. La decisione adottata ieri sera dalla Corte d'Appello non ha riservato clamorosi colpi di scena. Anzi. Uno dei reati per i quali era stata decretata l'assoluzione (si tratta di quello legato alla frode processuale) è stato ritenuto sussistente, così come sono stati ribaditi i risarcimenti dei danni alle costituite parti civili.
Riconosciuta altresì la lesione del ruolo del sindacato, disconosciuta in primo grado.
Anche i giudici d'appello hanno quindi ravvisato gli estremi per tenere ferme le condanne. Ma va detto che Riva, a fronte dei 2 anni e tre mesi del primo grado, si è visto comminare un anno e dieci mesi. E riduzioni sensibili ci sono state anche per il direttore dello stabilimento, l'ing. Capogrosso (da 2 anni e 3 mesi ad un anno e mezzo), e per altri funzionari del siderurgico. In particolare, per cinque inquisiti la pena detentiva dopo esser stata ridimensionata è stata sostituita da quella pecuniaria. Il tutto a suggello di un procedimento ruotato attorno alle drammatiche deposizioni dei dipendenti dello stabilimento che si videro dirottati nella palazzina. Sono stati quei racconti, quelle testimonianze a descrivere al meglio cosa sarebbe accaduto nel locale dell'Ilva. Sono stati quei racconti, quelle testimonianze a ripercorrere le mortificazioni e le umiliazioni che sarebbero state subite. Sono stati quei racconti, quelle testimonianze a far capire cosa si prova ad esser "costretti a non far nulla", cosa possa significare il termine "mobbing", come ed in che modo una simile situazione possa incidere sul piano morale e professionale. Come riconosciuto dalle sentenze di primo e secondo grado, quel "confinamento" provocò danni in tutti coloro che lo subirono. Danni che ieri anche la Corte d'Appello ha ritenuto di sanzionare affermando la responsabilità di chi ha seguito il procedimento nelle scomode vesti di imputato. I giudici non hanno avuto dubbi rispetto a quanto venutosi a concretizzare nel corso della vicenda. Il verdetto emesso dall'organo giudicante monocratico nel dicembre del 2001 ha trovato piena conferma. Solo qualche riduzione di pena, ma il caso della “palazzina LAF” non poteva essere definito in altro modo. Le precedenti undici condanne e l'obbligo al risarcimento dei danni dovevano trovare conferma e così è stato.
Alla luce della decisione che ieri sera ha suggellato il secondo processo, non ci dovrebbero essere dubbi sul fatto che quella struttura all'interno dello stabilimento sia stata utilizzata dalla dirigenza come un vero e proprio strumento. A far maturare quest'impressione sono stati proprio i passaggi che hanno caratterizzato l'intera vicenda. Facendo leva su non meglio specificate esigenze di ristrutturazione, i dipendenti furono collocati nella palazzina del Laminatoio a freddo, un immobile sprovvisto di mezzi idonei a portare avanti una qualsiasi prestazione d'opera. Stando alle testimonianze rese dagli ex lavoratori, sistemati lungo un corridoio di una quarantina di metri, quelli che avevano la pretesa di essere degli uffici erano muniti di una scrivania e di una sedia. Nient'altro. La situazione venutasi a creare avrebbe posto il personale "confinato" nella palazzina in una condizione tale da causare quella che dai giudici è stata considerata una chiara mortificazione umana, professionale e psichica. Un particolare evidenziato dai rappresentanti dell'accusa in occasione delle requisitorie tenute in primo e secondo grado. Per i magistrati, il declassamento dei soggetti destinatari del provvedimento aziendale sarebbe stata la conseguenza della mancata accettazione di precedenti disposizioni impartite dalla dirigenza. Che avrebbe assegnato al personale trasferito mansioni differenti da quelle inizialmente svolte senza comunque apportare alcuna variazione dal punto di vista economico e salariale.
Con il trascorrere del tempo, l'essere destinati alla palazzina "Laf" veniva considerato come una sorta di "punizione psicologica", come un efficace ammonimento per chi in seguito si fosse rifiutato di aderire a richieste aziendali. E fu a quel punto che in Procura furono fatte arrivare le prime denunce. In tal modo i lavoratori vollero sollevare una questione estremamente delicata, una questione che dopo non molto tempo sarebbe divenuta un vero e proprio caso giudiziario. La dirigenza fu messa sotto accusa per aver impiegato dipendenti in un luogo dove non avrebbero dovuto fare nulla. Una situazione che, come sottolineato dai pubblici ministeri, va contro il concetto di "lavoro” soprattutto se si fanno salvi concetti come quelli secondo cui il lavoro nobilita l'uomo, come quelli secondo cui il lavoro conferisce dignità all'essere umano. Concetti che pur essendo riconosciuti ed affermati non avrebbero trovato spazio nella “palazzina LAF”.
Il processo d'appello non ha ribaltato nulla di quanto già emerso in primo grado. Le condanne comminate ad Emilio Riva e agli altri dieci imputati sono state confermate. L'impianto accusatorio ha retto ed in più c'è stato il riconoscimento del reato di frode processuale (di questo rispondevano soltanto lo stesso Riva, Luigi Capogrosso e Angelo Greco), un reato per il quale nel precedente dibattimento si era registrata l'assoluzione. Anche il procedimento d'appello è stato chiuso con il risarcimento del danno a favore delle numerose parti civili, la UIL era rappresentata dall'avv. Sergio Torsella, i lavoratori da un nutrito collegio difensivo composto fra gli altri dagli avvocati Carlo Petrone, Adelaide Uva, Luca Balistreri, Massimo Saracino. Adesso, tutto passa in Cassazione.
 
(fonte: Corriere del giorno, quotidiano di Taranto del 13 aprile 2005)
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