Una fattispecie di corretta imputazione  giudiziale degli oneri probatori per demansionamento e mobbing

 

Trib. Roma, sez. lav., 8.4.2006 - Giud. Buonassisi – ** ** ** (avv. Vallebona) c. Tim Italia  SpA (avv. Pessi)

 

Dequalificazione professionale e azioni ostruzionistico-persecutorie mobbizzanti - Risarcimento danni - Sussistenza.

 

Il “mobbing” si verifica allorché il datore di lavoro tiene una condotta sistematica e protratta nel tempo, che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, garantite dall’art. 2087 cod. civ.; tale illecito, che rappresenta una violazione dell’obbligo di sicurezza posto da questa norma generale a carico del datore di lavoro, si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del datore di lavoro indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato. La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze dannose deve essere verificata considerando l’idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specialmente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza di una violazione di specifiche norme di tutela del lavoratore subordinato. Il riferimento  nell’art. 2087 c.c. alla necessaria tutela anche della personalità morale e della dignità umana da parte del datore di lavoro consente di qualificare come illecito contrattuale (art. 2087 c.c.) ogni comportamento che cagioni ingiustificatamente al lavoratore un pregiudizio alla sua personalità umana e dunque appronta una tutela all’uomo in sé, sanzionando con il risarcimento ogni atteggiamento che travalichi il diritto ad ottenere del lavoratore una corretta prestazione, nel presupposto, ovvio, che si tratti della parte più debole del rapporto e quindi, in astratto, disposta (o costretta) a subire pressioni od umiliazioni pur di mantenere la sua fonte di reddito.

Intesa in tal modo, la norma codicista (supportata dal disposto costituzionale) appronta un diaframma ben preciso fra gli obblighi contrattuali inerenti al sinallagma ed ogni manifestazione di supremazia datoriale che a quel sinallagma non sia funzionale e che, nell’immanente squilibrio fra le due parti, consenta a chi offre il lavoro di pretendere da chi lo presta qualcosa in più rispetto alla corretta prestazione od addirittura, una sorta di partecipazione totale al momento imprenditoriale, se non addirittura di devozione.

La regola, dunque, impedisce ogni forma di pressione rivolta al lavoratore che sia estranea all’esecuzione della prestazione e sconfini nella pretesa di fagocitare all’impresa la persona del dipendente, che tale rimane, ancorché necessariamente inserita nel contesto della sua azienda, dovendo a quest’ultima nient’altro che una prestazione lavorativa.

Alla luce dei più recenti orientamenti della Suprema Corte (v. Cass. n. 6326/2005) non rileva peraltro la qualificazione giuridica dei fatti.

Perdono valore così anche le tradizionali disquisizioni circa l’elemento soggettivo nel mobbing.

Giova evidenziare come l'elemento finalistico che costituisce l'anello di congiunzione dei singoli episodi non debba essere necessariamente ricondotto all'elemento soggettivo del dolo, inteso quale elemento costitutivo della fattispecie, da provarsi a carico del mobbizzato in analogia a quanto è posto a carico del danneggiato dall'art. 2043 c.c.  ma possa essere sufficientemente riscontrato nell'obiettiva idoneità lesiva, rispetto ai beni protetti, del comportamento posto in essere in modo consapevole e volontario dal datore, purché emerga l'oggettiva concatenazione degli episodi mobbizzanti, anche se posti in essere congiuntamente da diversi soggetti appartenenti al contesto aziendale.

Per ciò che concerne l’onere della prova anche in materia di dequalificazione deve affermarsi l’applicabilità del principio secondo cui: «allorquando da parte di un lavoratore sia allegata una dequalificazione o un demansionamento o comunque un inesatto adempimento dell’obbligo del datore di lavoro ex art. 2103 c.c. è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l’una o l’altro siano state giustificate dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari ovvero, in base al principio generale di cui all’art. 1218 cod. civ., comunque da una impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile»(Cassazione Sezione Lavoro n. 4766 del 6 marzo 2006).

In conclusione, nella fattispecie,  si è in presenza non solo di una grave dequalificazione professionale, ma di una complessiva condotta illecita che ha progressivamente umiliato, isolato, emarginato e distrutto la dignità morale e professionale dell’ing. ** ** **, attuata con il decisivo contributo di personale intermedio per ragioni che non sembrano essere diverse dalla mera affermazione di una volontà di potenza e del gusto di attuare una sistematica persecuzione morale, e perciò ancora più gravi.

La società va condannata alla riassegnazione in mansioni corrispondenti al suo livello di inquadramento e al bagaglio di professionalità acquisito o ad equivalenti, e in ragione delle conseguenze subite,  alla ricorrente va risarcito il danno alla professionalità con il parametro del 50% della retribuzione per i 40 mesi circa di demansionamento (per l'importo di euro 50.000), il danno biologico da disturbo depressivo maggiore (15%, equitativamente liquidato in euro 50.000), il danno morale (½ del biologico, quindi euro 25.000) e il danno esistenziale (euro 50.000).

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 

Con ricorso depositato il 9.5.2005 ** ** ** esponeva di essere dal 16.3.2001 dipendente della Tim Italia  s.p.a. con inquadramento nel 7° livello del ccnl e che la convenuta, a partire dalla fine del 2001, la aveva sottoposta ad una ingiusta dequalificazione e persecuzione, integrante un vero e proprio mobbing, esautorandola da ogni mansione con grave lesione della propria dignità morale e della propria integrità psico-fisica.

Chiedeva pertanto al giudice del Lavoro di Roma la condanna della convenuta, previa dichiarazione di nullità/illegittimità della condotta della predetta società, ad adibirla alle mansioni proprie del suo livello, al risarcimento del danno alla professionalità in misura pari ad € 2.500,00 mensili per ciascun mese di dequalificazione, biologico e alla salute da invalidità permanente (pari ad € 200.000,00) e temporanea, morale (euro 112.000,00), esistenziale, all’immagine e alla reputazione (€ 200.000,00) subito, nonché al pagamento dell’ulteriore somma di € 3.638,31 a titolo di retribuzioni o di risarcimento per la relativa perdita della retribuzione dal 7 febbraio 2005 al 7 maggio 2005, oltre accessori, vittoria di spese e onorari.

La Tim Italia  spa si costituiva contestando il fondamento delle domande attrici e chiedendone il rigetto.

Esperito inutilmente il tentativo di conciliazione e assunta prova testimoniale, veniva autorizzato il deposito di note illustrative.

All’udienza del 28.3.2006 si costituiva la (TL) spa in qualità di successore a titolo universale di  Tim Italia  spa chiedendo il rigetto della domanda.

La causa veniva quindi discussa e decisa come da dispositivo in epigrafe.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

** ** ** lamenta di essere stata vittima di una “ingiuriosa e persecutoria” dequalificazione professionale perpetrata nei suoi confronti da Tim Italia  spa a partire dalla fine del 2001.

Giova premettere una disamina dei fatti per cui è causa.

Al momento dell’assunzione del marzo 2001 la *** ,  inquadrata nel 7° livello contrattuale, era stata inserita nella linea Sviluppo Servizi Internazionali diretta dal dott. (N) all’interno del settore denominato “Supporto alle operazioni”, diretto ad interim dallo stesso dott. (N), che si occupava di favorire e coordinare l’adozione all’estero, in particolare presso Tim Italia net.com e presso altre partecipate Tim Italia  in Sud America, delle opzioni commerciali e tecnologiche della convenuta, con particolare attenzione alle problematiche tecniche ed economico-finanziarie connesse all’espansione dei servizi di W-VAS (Wireless Value Added Services), ossia di quei servizi innovativi che consentono di offrire ai clienti le opzioni internet su telefono cellulare (doc. 2 della produzione attrice).

Le mansioni dell’ing. *** consistevano nello studio del mercato e delle tecnologie W-VAS nel contesto internazionale, nell’analizzare le soluzioni tecnologiche sviluppate da Tim Italia  attraverso incontri con i responsabili dello sviluppo nei diversi ambiti aziendali (Rete, Servizi Informatici), nello studio dei vincoli tecnologici esistenti in ambito internazionale, nella ricerca sul mercato di soluzioni innovative attraverso incontri con le società fornitrici di contenuti e tecnologia (come CISCO e ACOTEL), dovendo a tal fine tenere i contatti con le figure chiave di queste società. La ricorrente si occupava anche di dare supporto alla Tim Italia net. com che avrebbe dovuto erogare i servizi W-VAS in Sud America, monitorando l’andamento del business e valutando lo scostamento dei ricavi, promuovendo l’adozione dei servizi sviluppati da Tim Italia net. com verso gli altri operatori, mantenendo i contatti con le controllate allo scopo di analizzare i requisiti commerciali da sviluppare (tariffazione dei servizi, promozioni e pacchetti commerciali) e tecnici da acquisire (interfacce, piattaforme di fatturazione, infrastrutture di rete) monitorando altresì l’andamento dei servizi presso le consociate (cfr. sintesi presentata allo staff meeting del marzo 2001, doc. n. 3 della produzione attrice).

L’ing. *** ha descritto in ricorso le varie tappe che hanno portato alla sua progressiva emarginazione professionale a partire dalla fine del 2001, in coincidenza con l’inserimento dell’intera Linea Sviluppo Servizi Internazionali nel settore Marketing e ha precisato che dal mese di luglio 2001 la Tim Italia  le aveva riconosciuto un aumento mensile di lire 650.000 (doc. 4) e nel corso del mese di dicembre 2001 un premio di lire 15.000.000 (doc. 5).

Dalla lettura del ricorso e della stessa memoria di costituzione si evince che sul finire dell’anno 2001 la linea Sviluppo Servizi Internazionali veniva ristrutturata ed il settore Supporto alle Operazioni, cui era addetta la ricorrente, diveniva Plug & Plav, con attività e obiettivi sostanzialmente invariati, la cui responsabilità era affidata a un quadro, (R), che di lì a poco veniva promosso dirigente (docc. 6 e 7).

Successivamente l’intera linea Sviluppo Servizi Internazionali veniva inserita nel settore Marketing (doc. 8).

Da questo momento la ricorrente è stata “solo formalmente” assegnata ad alcuni progetti, quali Billing per partecipate Tim Italia, servizi M - services, MMS. EMS offerta di servizi ai roaming partners, architettura e interfaccia per Tim Italia net.com (cfr. presentazione del dott. (R) delle attività del settore, doc. 9) ed in realtà, come è stato confermato dai testi (Z) e (Y), non è stata coinvolta in nessuna di tali attività neppure nell’interfaccia per Tim Italia net.com svolta nell’anno precedente, svolgendo nell’intero periodo unicamente le seguenti attività:

— partecipazione come mero uditore ad una presentazione di due ore di un nuovo progetto, alla quale non poteva prendere parte nessun altro per problemi di tempo, con il solo compito di rigirare la presentazione al (R) (doc. 10);

— una missione di due giorni in Turchia nel febbraio 2002;

— preparazione di slides per una presentazione, neppure mai avvenuta, attività che occupava la ricorrente per soli sette giorni lavorativi.

La ricorrente si è a questo punto (per la prima volta) lamentata con il (R) per la quasi totale esclusione dall’attività del suo ufficio; in ricorso si legge che avrebbe ricevuto per tutta risposta la minaccia di essere trasferita alla Funzione Servizi Informatici, dove si svolgeva attività di mera elaborazione dati e non di marketing.

Nell’aprile 2002 il superiore (R) consegnava alla ricorrente la scheda di valutazione delle prestazioni per l’anno 2001 da lui predisposta (doc. 11).

Nella scheda risultava una ottima valutazione e il suggerimento “come risorsa in ambito internazionale” di seguire i corsi di aggiornamento linguistici di spagnolo e/o di inglese, organizzati dalla Tim Italia  spa. La scheda, però, non conteneva la descrizione delle attività effettivamente svolte dalla ricorrente, sicché la stessa non la sottoscriveva e chiedeva di discuterla con il dirigente della funzione (N).

Solo nel luglio 2002 la ricorrente otteneva un incontro con i suoi superiori (R)  e (N), nel corso del quale il (R) prendeva l’impegno di coinvolgere effettivamente la ricorrente nei progetti del Plug & Play e si concordava altresì di riscrivere la scheda di valutazione con le prestazioni effettivamente svolte nel 2001 e descritte dalla ricorrente (doc. 12).

Dall’agosto 2002 (doc. 13) la linea Sviluppo Servizi Internazionali veniva spostata nella funzione VAS e Business Development e veniva affidata al dirigente (M) al posto del (N).

Nel settembre 2002, protraendosi la situazione di pressoché totale inutilizzazione e dopo molte lamentele, la ricorrente otteneva un incontro con il (M) nel corso del quale, però, il dirigente le avrebbe detto di non apprezzare le sue proteste e che, se fossero continuate, lui ed il (R) le avrebbero reso la vita impossibile costringendola a lasciare l’azienda.

La ricorrente ne avrebbe parlato con un collega il quale le confidava di avere anche lui avuto, per motivi diversi, un’analoga risposta.

In conseguenza della grave dequalificazione subita la ricorrente, che in precedenza aveva sempre goduto di ottima salute (doc. 14), accusava gravi sintomi di ansia e depressione di cui in precedenza non aveva mai sofferto, come insonnia, cefalee, dorsalgia, sudore eccessivo, difficoltà di concentrazione, tic, tremore nelle mani, polifagia incoercibile con conseguente aumento del peso e problemi funzionali tiroidei (docc. 15, 36, 40). Anche la sua vita affettiva e sentimentale diventava difficile e problematica, con rifiuto anche di vedere gli amici e di uscire di casa la sera (come confermato dal teste (J) ).

Dall’ottobre 2002 la ricorrente veniva esclusa dai corsi di lingua spagnola organizzati da Tim Italia  spa, ai quali in precedenza aveva sempre partecipato. La ricorrente si lamentava più volte a voce e per iscritto (doc. 15 bis) con i suoi superiori per tale esclusione, sottolineando che era stato lo stesso (R) in sede di stesura della scheda di valutazione (doc. 11) a segnalare l’esigenza per la ricorrente “come risorsa in ambito internazionale” di seguire corsi di aggiornamento linguistico. Le lezioni di spagnolo, però, continuavano solo per altri colleghi e la ricorrente restava esclusa.

Con e-mail del 5 novembre 2002 (doc. 15 ter) la ricorrente segnalava all’Ufficio del Personale della convenuta “la spiacevole condizione di lavoro maturatasi, ai miei danni nel settore” segnalando che “il protrarsi della mia condizione di esclusione da tutte le attività di settore, alla lunga potrebbe condurre alla squalifica del mio profilo professionale” e “un comportamento gestionale rivolto a danneggiare anche il mio sviluppo professionale”. L’Ufficio del Personale rispondeva chiedendo alla ricorrente un curriculum  “per farlo vedere a qualche altra funzione”.

Nonostante il preciso impegno assunto dal (R) di coinvolgere la ricorrente nei progetti dell’ufficio da lui diretti,  la ricorrente continuava ad essere esclusa dalle riunioni di lavoro cui partecipava la funzione Plug & Play. Nel novembre 2002 la ricorrente chiedeva spiegazione di tali esclusioni (doc. 16), ma non otteneva alcuna risposta.

Con e-mail 21 novembre 2002 (doc. 17) la ricorrente si lamentava ancora con la signora (B) dell’Ufficio del Personale del comportamento dei suoi superiori “che dimostra la precisa volontà di questi di escludermi da tutte le attività del settore” e preannunciava la volontà di rivolgersi al Capo della Gestione del Personale dott. (F).

Con due e-mail del 29 novembre e 16 dicembre 2002 (docc. 18 e 19) la ricorrente si lamentava con il dott. (F) per la sempre più pesante dequalificazione subita, degli atteggiamenti vessatori dei suoi superiori, delle minacce di trasferimento ai “Sistemi Informativi”.  Il successivo 18 dicembre 2002 la ricorrente veniva ricevuta dal dott. (V), collaboratore del (F), che assicurava alla ricorrente che presto sarebbe stata coinvolta dai suoi superiori nelle attività della linea. La ricorrente, pertanto, comunicava ai suoi superiori la disponibilità ad un incontro in tal senso (doc. 20), che, però, non ebbe mai luogo.

Nel mese di aprile 2003 la convenuta avviava nei confronti dei propri dipendenti la consueta procedura di valutazione delle prestazioni per l’anno 2002, ma la ricorrente, nonostante ripetute sollecitazioni orali e scritte (doc. 21) ai propri superiori e al responsabile del personale (F), non veniva convocata, unica tra tutti i dipendenti del settore, per la discussione della sua scheda di valutazione.

All’inizio di maggio 2003 tutti i colleghi della ricorrente della linea VAS venivano spostati dal sesto al primo piano della palazzina A di Via Pietro de Francisci, ognuno con una propria stanza (doc. 22, v. comunque le conformi deposizioni dei testi (….) ), mentre la ricorrente veniva lasciata completamente sola senza lavoro al sesto piano. La ricorrente chiedeva spiegazioni all’Ufficio del Personale (doc. 23), ma non otteneva, tanto per cambiare, alcuna risposta.

Alla fine di giugno 2003 nell’ufficio ancora occupato dalla ricorrente arrivarono i dipendenti del settore pubblicità i quali si stupivano di trovare lì ancora qualcuno del Plug & Play.La ricorrente veniva allora spostata nella palazzina F in una stanza adibita a “segreteria di punto delega”, presso la quale veniva raccolta la modulistica relativa a straordinari, permessi, ferie, malattia, rimborsi spesa relativi al personale della linea VAS, dividendo tale stanza con la segretaria  (F) (v. doc. 24,  nonché anche in questo caso le deposizioni dei testi (…..) e persino quella del teste (M) citato dalla resistente). La ricorrente restava ancora completamente inutilizzata.

Si noti: proprio la singolare decisione di emarginare e isolare la ***  (“non è normale che un impiegato direttivo divida la stanza con una segretaria”, così il teste  (….) dimostra che si è in presenza non già di una semplice (comunque illegittima)  dequalificazione professionale ma di qualcosa di più grave, al punto che lo stesso teste (M) non ha potuto fare a meno di ammettere “può essere che da che da questo momento (giugno 2003) la ricorrente sia rimasta inutilizzata”.

Nell’estate 2003 la convenuta avviava un nuovo progetto globale di gestione, valutazione e sviluppo delle prestazioni individuali denominato Performance Management, progetto che coinvolgeva il personale di Tim Italia  spa (doc. 25). La ricorrente ne veniva esclusa, sicchè si rivolgeva al capo del personale per lamentare tale esclusione e per protestare ulteriormente per l’esclusione da tutte le attività proprio settore e per la mancata valutazione delle prestazioni anni 2001-2002 e 2002-2003 (doc. 26).

La ricorrente veniva anche esclusa dalle attività volte all’aggregazione del personale Tim Italia  spa , come ad esempio in occasione dell’incontro di Natale del 2003 organizzato da Risorse Umane e linea Internazionale (doc. 27 e 28). La ricorrente, avendo appreso che tutti i colleghi Plug & Play erano stati invitati, chiedeva a (R) se doveva ritenersi invitata ottenendo una secca risposta negativa (doc. 29)

Con e-mail 18 dicembre 2003 (doc. 30) la ricorrente chiedeva aiuto anche al capoarea (V), al quale esponeva la situazione di disagio per la esclusione da tutte le attività del settore. Nel successivo incontro il (V) avrebbe comunicato alla ricorrente di non essere riuscito a convincere i suoi superiori a farla lavorare.

Anche nell’anno 2004, nonostante la sua richiesta (doc. 31), la ricorrente veniva esclusa dai corsi di lingua e la convenuta ha affermato (v. comparsa di costituzione) in sostanza che ciò è avvenuto perché non tutti potevano essere ammessi, causa ragioni economiche.

Negli anni 2002 e 2003 la ricorrente non veniva inserita in alcun corso di formazione. Solo nel 2004, dopo aver protestato per tale esclusione (doc. 32), veniva destinata non al corso richiesto di “Gestione dei gruppi di lavoro”, ma a quello di “Il gruppo di lavoro: l’integrazione della competenza per l’eccellenza dei risultati”, di nessun interesse per la ricorrente e al quale partecipavano segretarie ed impiegati di basso livello.

Anche nell’anno 2004 la ricorrente, essendo rimasta priva di lavoro nell’anno precedente, veniva esclusa dalla discussione della scheda di valutazione delle prestazioni. La ricorrente conseguentemente si lamentava per l’ennesima volta con il suo diretto superiore (R) per la esclusione dalle attività del settore e chiedeva nuovamente di essere coinvolta nel processo di assegnazione di attività individuale per il 2004 (doc. 33). Come al solito non riceveva risposta.

In ricorso si parla anche del fatto che la ricorrente diveniva anche oggetto di pesanti commenti da parte dei suoi superiori con riferimento ad eventi che, al contrario dei precedenti, non sono provati documentalmente e non sono stati confermati dai testimoni. Ad esempio nell’aprile del 2004, nel momento in cui la ricorrente passava vicino al dirigente della linea Internazionale (M), al dirigente del Roaming Internazionale (G) e al collega (N) e alla presenza di altri colleghi, il (M) guardando la ricorrente le avrebbe detto ad alta voce: “Ragazzi non sentite puzza di merda?” ed il (G), sempre guardando la ricorrente: “sì, c'e proprio una certa arietta”. Più volte nel corso del 2003 e del 2004 sempre il (M),   il (G) ed il (R) alla presenza di altre persone avrebbero parlato della ricorrente definendola: “risorsa immondizia”.

Nell’estate 2004 la ricorrente protestava per l’ennesima volta con i suoi superiori per l’esilio imposto presso la “Segreteria di Punto delega” e per l’esclusione dalle attività del proprio gruppo di lavoro (doc. 34), e con l’Ufficio Risorse Umane per le molestie e l’ingiusto demansionamento (doc. 35).

Nel giugno 2004, essendo andate peggiorando sempre di più le patologie che la affliggevano la ricorrente era costretta a iniziare una terapia a base di benzodiazepina e sonniferi (cfr. relazione medica giugno 2004, doc. 36).

Il giorno 16 giugno 2004 nell’ufficio di segreteria punto delega veniva allocata la segretaria (P) in sostituzione di una collega segretaria trasferita ad altro ufficio. Dopo pochi minuti e con un banale pretesto la (P) dava in escandescenze nei confronti della *** gettando per terra tutto quanto era sulla scrivania della ricorrente, scardinando i cavi del suo computer, ed inveendo contro la stessa.

L’episodio non è stato neanche contestato dalla Tim Italia  spa che ha solo cercato di ridurlo ad un diverbio tra colleghe.

Il giorno 23 giugno 2004, alla richiesta della ricorrente di avviare dei condizionatori d’aria dell’ufficio, la segretaria  (F) si sarebbe rivolta in modo offensivo alla ricorrente medesima, urlandole che era pazza, di ricoverarsi in ospedale, di non farsi più vedere nella stanza.

La ricorrente (doc. 37) riferiva all’Ufficio Risorse Umane i due episodi di cui sopra, secondo lei “diretta conseguenza della condizione di mobbing in cui mi trovo da tre anni”, e chiedeva un intervento “ai fini del ripristino del rispetto umano e professionale a cui ritengo di avere diritto”, senza però ottenere risposta.

Il 15 luglio 2004 il trasferimento della ricorrente alla funzione Servizi Informatici veniva di fatto attuato con la comunicazione dell’imminente passaggio a detta funzione, nel settore Datawarehousing della linea Sistemi di Datawarehousing.

Il settore Datawarehousing, diretto da (O), svolge attività di reportistica e non di marketing, curando mediante specifici programmi di gestione dei dati aziendali (cd. applicativi software) l’elaborazione di reports relativi a determinati eventi di business (ad esempio numero di attivazioni nel periodo di Natale, andamento di una offerta, disponibilità di prodotti in magazzino, ricariche effettuate presso una banca, numero di messaggi SMS andati a buon fine, numero di telefonate dirette verso un dato paese). Tale attività è svolta principalmente attraverso società di consulenza esterna nei confronti delle quali il settore Datawarehousing svolge funzioni di interfaccia.

E’ pacifico che la ricorrente non aveva alcuna esperienza di datawarehousing e non ha molta importanza sapere se il trasferimento sia stato preceduto da un colloquio tecnico con i responsabili del settore di destinazione.

La convenuta nelle note autorizzate ha tuttavia espressamente invocato la deposizione del teste (B), secondo la quale “il dott. (L) disse alla mia collega (S)  (la ricorrente) non era profilo idoneo all’attività di progettazione di rete di telecomunicazioni”. 

La ricorrente a questo punto veniva colta da gravi crisi d’ansia e da una sindrome depressiva reattiva che la costringevano ad assentarsi per malattia dal 16 luglio al 29 luglio 2004 (doc. 38 e 39).

Il giorno 28 luglio 2004 la ricorrente veniva colta da un attacco di panico con tremori incontrollabili, sudorazione profusa, ansia libera con difficoltà nella loquela, tachicardia e ipertensione tanto da dover ricorrere a urgenti cure mediche (doc. 52).

Nel mese di settembre, nonostante un periodo di ferie, la sindrome ansiosa non recedeva, sicché la ricorrente rimaneva assente per malattia e inviava certificato medico per il periodo dal 1 al 10 settembre 2004 (doc. 41). La convenuta in data 8 settembre inviava visita fiscale di controllo, che confermava lo stato di malattia della ricorrente sino al giorno 10 (doc. 42). Ciò nonostante la convenuta nei giorni immediatamente successivi, 9 e 10 settembre, inviava nuove visite fiscali di controllo. Alla visita del giorno 9 la ricorrente risultava assente in quanto si era recata presso il proprio psichiatra per una visita urgente non effettuabile fuori fascia (doc. 43). La visita fiscale del giorno successivo confermava la prognosi già certificata solo due giorni prima (doc. 44).

In seguito, con lettera 21 ottobre 2004 (doc. 45), Tim Italia  spa contestava alla ricorrente l’assenza alla visita fiscale del 9 settembre. La ricorrente si giustificava con lettera 27 ottobre 2004 (doc. 46) rilevando la tardività della contestazione e giustificando l’assenza allegando la certificazione di visita della dott.ssa (Q). La convenuta, nonostante tali chiare giustificazioni, comminava alla ricorrente la sanzione della multa pari a tre ore di retribuzione (doc. 47). La ricorrente impugnava la sanzione chiedendo la costituzione del collegio arbitrale di cui all’art. 7 L 300/70 (doc. 48), che veniva rifiutato da Tim Italia  spa (doc.49).

La ricorrente restava malata anche nel periodo 11 - 30 settembre 2004 (doc. 50), secondo quanto certificato anche dal proprio psichiatra dott.ssa (Q), alla quale la ricorrente si era nuovamente rivolta, che riscontrava una grave sindrome ansioso - depressiva con ansia libera, somatizzazioni e insonnia tale da rendere inutile la lunga terapia psicofarmacologica cui era sottoposta (docc. 51 e 52). La convenuta in data 24 settembre 2004 inviava una visita fiscale di controllo che confermava la prognosi sino a tutto il 30 settembre 2004 (doc. 53). Ciò nonostante il giorno successivo la convenuta inviava nuova visita fiscale di controllo, che non poteva che confermare la malattia già certificata il giorno precedente (doc. 54).

La ricorrente a causa del grave stato di depressione si ritirava del tutto dalla vita sociale perdendo le relazioni affettive e amicali (teste (A) ).

La psichiatra della ricorrente, ritenendo tale stato di profonda depressione conseguenza immediata e diretta della lunga dequalificazione, rimuovibile solo con l’assegnazione di un lavoro adeguato alla sua professionalità (cfr. relazione medica doc. 52), consigliava alla ricorrente di rientrare al lavoro per tentare di ristabilirsi.

La ricorrente ascoltava il consiglio della psichiatra, facendo precedere il proprio rientro da una lettera alla convenuta del 28 settembre 2004 (doc. 55), nella quale oltre a “ribadire la gravissima dequalificazione da me subita e le altre vessazioni e persecuzioni che ho dovuto sopportare”, che avevano “causato gravissimi danni alla salute, all’immagine e alla professionalità” riferiva che “secondo il medico la mia salute potrebbe migliorare solo qualora cessasse la pregiudizievole situazione lavorativa sopra ricordata e mi venissero assegnate mansioni confacenti alla mia professionalità ed equivalenti a quelle da me svolte prima dell’inizio del suddetto demansionamento”. Conseguentemente comunicava che “al termine del periodo di malattia in corso rientrerò in servizio nella nuova collocazione con l’auspicio che mi sia assegnata una posizione rispondente a quanto sopra precisato, con l’avvertenza che in mancanza si aggraveranno le vostre responsabilità”.

La ricorrente rientrava dunque il 1° ottobre 2004 nel settore Datawarehousing, ove doveva constatare l’assenza di attività confacenti alla propria professionalità ed esperienza. La ricorrente, infatti, veniva assegnata al gruppo di lavoro denominato DWH Caring relativo alla elaborazione dei dati sulla assistenza clienti, c.d. customer care (ad es. numero di telefonate evase in un’ora dagli operatori dell’assistenza clienti, numero di pratiche e-mail evase in un giorno) sempre ricorrendo ad aziende di consulenza esterna (es. BO, TeleAp), con le quali l’ufficio teneva i necessari contatti.

In questa organizzazione i compiti richiesti alla ricorrente erano solo quelli di: inoltrare via e-mail alle società di consulenza le richieste di reports ricevute, sempre via e-mail, dai vari settori di Tim Italia  spa  (tipicamente il marketing); richiesta ai fornitori di aggiornamenti sullo stato del lavoro o chiarimenti su dati inesatti rilevati dagli uffici interessati (docc. 56 e 57); trasmissione via e-mail all’ufficio interessato dei reports ricevuti; aggiornamento della bacheca aziendale dei malfunzionamenti degli applicativi, come ad esempio in caso di anomalie o ritardi nella pubblicazione di dati (doc. 58); copiatura di alcuni dati dal loro formato nativo in formati più eleganti (doc. 59);  esecuzione materiale di procedure standard di aggiornarnento del software o di installazione di server (docc. 60 e 61). Tale attività veniva svolta dalla ricorrente in affiancamento della sig.ra (U), impiegata di 5° livello, che la ricorrente era destinata a sostituire perché trasferita al marketing.

La ricorrente svolgeva per qualche giorno il nuovo lavoro, ma la evidente inferiorità delle mansioni assegnate rispetto a quelle svolte prima della dequalificazione determinava un ulteriore peggioramento delle sue condizioni di salute (doc. 64), che la costringevano ad una nuova assenza per malattia a partire dal 13 ottobre 2004. La *** con lettera a Tim Italia  spa del 20 ottobre 2004 (doc. 62) rilevava questa situazione e preannunziava l’introduzione del presente giudizio. Quindi con lettera 21 ottobre 2004 (doc. 63) richiedeva alla DPL di Roma l’esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione.

Nel nuovo periodo di malattia dal 13 ottobre al 12 novembre 2004 (doc. 65) la convenuta inviava ripetutamente ben tre visite di controllo (16 e 29 ottobre, 1 novembre), che confermavano tutte la prima prognosi (docc. 66, 67 e 68).

Durante il periodo di assenza di cui al punto che precede la ricorrente veniva consigliata ed autorizzata dalla propria psichiatra di recarsi periodicamente dai propri genitori a Firenze per essere da questi accudita e supportata e non rimanere in un dannoso stato di solitudine che avrebbe portato un ulteriore aggravamento del suo stato patologico (docc. 69 e 70). Conseguentemente la ricorrente comunicava all’Ufficio del Personale che nel periodo dal 5 all’8 novembre il proprio recapito per eventuali controlli della malattia sarebbe stato presso l’abitazione dei propri genitori a Firenze (doc. 71).

Poiché la sindrome ansioso - depressiva della ricorrente, resistente anche alla terapia farmacologia, proseguiva (doc. 72), la ricorrente inviava un nuovo certificato di malattia per il periodo 13 novembre — 12 dicembre 2004 (doc. 73). Quindi, su autorizzazione del proprio psichiatra (doc. 74), comunicava all’Ufficio del Personale di Tim Italia  spa lo spostamento del domicilio in Firenze presso i propri genitori dal 18 novembre al 7 dicembre (doc. 75).

In data 20 novembre 2004 la convenuta inviava visita fiscale di controllo della malattia presso il domicilio fiorentino della ricorrente, che confermava la prognosi sino a tutto il 12 dicembre 2004 (doc. 76). Ciò nonostante la convenuta inviava ben due altre visite fiscali di controllo in data 6 e 7 dicembre, che confermavano la precedente certificazione (docc. 77 e 78).

Con lettera 7 dicembre 2004 (doc. 79) la convenuta contestava alla ricorrente di non aver prodotto alcuna documentazione medica di autorizzazione agli spostamenti dal proprio domicilio per i giorni dal 5 al 8 novembre e dal 18 novembre al 7 dicembre. La ricorrente si giustificava rilevando che tali spostamenti, regolarmente comunicati, erano stati consigliati proprio dal medico in conformità alle precedenti autorizzazioni solo ora per le prima volta richieste (doc. 80) e che contestualmente inviava (docc. 69, 70 e 74). Con lettera 21 dicembre 2004 (doc. 81) la convenuta, nonostante tali chiare giustificazioni comminava alla ricorrente la sanzione disciplinare della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per un giorno. La ricorrente impugnava anche questa sanzione richiedendo la costituzione del Collegio arbitrale ex art 7 L. 300/70 (doc. 82).

Dovendo il giudice limitare l’indagine ed esaminare solo i fatti accaduti sino al momento del deposito del ricorso occorre aggiungere che la ricorrente è stata ancora in malattia fino al 7 maggio 2005 (docc. 84 - 92) con  previsione di ripresa del servizio dal giorno 9 maggio (si noti: proprio il giorno del deposito del ricorso) nell’auspicio di ottenere una posizione confacente onde evitare ulteriori aggravamenti (cfr. certificati doc. 95).

Dal 7 febbraio 2005 al 7 maggio 2005 la ricorrente ha percepito solo il 50% della retribuzione pari a € 1.360,00, anziché la retribuzione normale piena di € 2.572,77 (cfr. buste paga gennaio - aprile 2005,  doc. 83), con una differenza complessiva di Euro 3.638,31.

Anche se la convenuta è riuscita a sostenere che la *** non avrebbe provato il danno biologico subito è documentalmente provato che, causa della grave dequalificazione subita, la ricorrente soffre di un disturbo depressivo maggiore ormai cronico e recidivo, che obbliga la ricorrente a cure a base di antidepressivi (doc. 93), e che ha determinato un  rilevante danno biologico ormai consolidatosi (cfr. relazione medico legale: doc. 94).

A causa della grave dequalificazione subita e allo stato di depressione in cui si trova, la ricorrente ha perso ogni interesse per la pittura, il nuoto e lo sci, attività che in precedenza aveva sempre svolto con passione.

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La ricorrente ha dedotto la lesione del diritto al lavoro e alla salute e ha dedotto di essere stata vittima di una dequalificazione professionale e anzi di un vero e proprio mobbing (o bossing).

Il “mobbing” si verifica allorché il datore di lavoro tiene una condotta sistematica e protratta nel tempo, che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, garantite dall’art. 2087 cod. civ.; tale illecito, che rappresenta una violazione dell’obbligo di sicurezza posto da questa norma generale a carico del datore di lavoro, si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del datore di lavoro indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato. La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze dannose deve essere verificata considerando l’idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specialmente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza di una violazione di specifiche norme di tutela del lavoratore subordinato (Cassazione Sezione Lavoro n. 4774 del 6 marzo 2006).

E’ nota la distinzione tra "mobbing verticale" e "mobbing orizzontale", a seconda che il comportamento mobbizzante sia posto in essere dai superiori gerarchici di grado più elevato o dallo stesso datore di lavoro, oppure che esso sia tenuto dai colleghi di lavoro del mobbizzato.

Il "mobbing verticale" poi, nella maggior parte dei casi è discendente (appunto"bossing"), ma niente che esclude che possa anche essere ascendente, ossia posto in essere dal subordinato nei confronti del superiore (si pensi alle false e reiterate accuse di mobbing o di molestie sessuali cui può essere sottoposto per invidia, vendetta o altre ragioni un soggetto gerarchicamente sovraordinato) col concorso di altri fattori.

In linea generale è giusto quanto sostenuto dalla convenuta nella sua comparsa di costituzione.

L’illegittimità della condotta volta al progressivo esautoramento professionale di un lavoratore non equivale di per sé a mobbing e viene tutelata nel nostro ordinamento con la possibilità di ottenere il risarcimento dei danni subiti sotto vari profili (compreso il danno biologico).

Secondo un noto orientamento il mobbing consiste in una  violenta e sistematica reiterazione di condotte vessatorie da parte del datore di lavoro capace di determinare, proprio per la frequenza e la durata del comportamento ostile, sofferenza mentale, disturbi psicosomatici e disagio sociale (ciò che costituisce  mobbing, secondo l’opinione oggi più diffusa): attraverso le 4 fasi  (che divengono 6 per Harald Ege) di evoluzione del mobbing, della modificazione, dell’isolamento, dell’ufficializzazione e dell’epilogo (Leyemann), la condotta datoriale finisce per distruggere la struttura psichica del lavoratore. 

Alla luce dei più recenti orientamenti della Suprema Corte (v. Cass.n. 6326/2005) non rileva peraltro la qualificazione giuridica dei fatti.

Si è affermato in dottrina che il mobbing appartiene alla cultura giuridica del nostro sistema lavoristico già dal 1942 e trova una conferma – a livello costituzionale – nell’art. 42 Cost. dove, come è noto, si dice che l’iniziativa economica privata “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

Il riferimento alla necessaria tutela anche della personalità morale e della dignità umana da parte del datore di lavoro consente di qualificare come illecito contrattuale (art. 2087 c.c.) ogni comportamento che cagioni ingiustificatamente al lavoratore un pregiudizio alla sua personalità umana e dunque appronta una tutela all’uomo in sé, sanzionando con il risarcimento ogni atteggiamento che travalichi il diritto ad ottenere del lavoratore una corretta prestazione, nel presupposto, ovvio, che si tratti della parte più debole del rapporto e quindi, in astratto, disposta (o costretta) a subire pressioni od umiliazioni pur di mantenere la sua fonte di reddito.

Intesa in tal modo, la norma codicista (supportata dal disposto costituzionale) appronta un diaframma ben preciso fra gli obblighi contrattuali inerenti al sinallagma ed ogni manifestazione di supremazia datoriale che a quel sinallagma non sia funzionale e che, nell’immanente squilibrio fra le due parti, consenta a chi offre il lavoro di pretendere da chi lo presta qualcosa in più rispetto alla corretta prestazione od addirittura, una sorta di partecipazione totale al momento imprenditoriale, se non addirittura di devozione.

La regola, dunque, impedisce ogni forma di pressione rivolta al lavoratore che sia estranea all’esecuzione della prestazione e sconfini nella pretesa di fagocitare all’impresa la persona del dipendente, che tale rimane, ancorché necessariamente inserita nel contesto della sua azienda, dovendo a quest’ultima nient’altro che una prestazione lavorativa.

Il fenomeno del c.d. mobbing verticale si configura, allora, come obbligo del datore di lavoro di rispettare la personalità del suo lavoratore evitando ogni comportamento che, pur formalmente corretto, possa risolversi in una forma di pressione, di “accerchiamento”, sì che il lavoratore possa avvertire questa sorta di presenza costante, il fiato sul collo, con la consapevolezza che ogni manifestazione della sua personalità non gradita al datore possa comportare conseguenze pregiudizievoli sul piano del rapporto contrattuale.

In definitiva si può affermare che nel rapporto lavorativo è vietato ogni comportamento datoriale che realizzi una compromissione della personalità del lavoratore, posto che quest’ultima deve rimanere estranea alla prestazione e non è versata, in tutte le sue componenti nel sinallagma, ma mantiene la sua destinazione al patrimonio individuale, lontanissima del potere di sovraordinazione ed eterodirezione datoriale.

La norma codicistica, poi, impone al datore di lavoro un comportamento attivo: egli deve approntare le misure di sicurezza finalizzate a tutelare l’integrità fisica del lavoratore e deve porre in essere tutti gli accorgimenti necessari a tutelarne la personalità morale.

In tale contesto il datore di lavoro è tenuto a porre in essere, secondo il tradizionale criterio della “massima sicurezza fattibile” (che appartiene, come è noto, allo schema dell’art. 2087 c.c.), quanto necessario per impedire ogni attentato alla personalità morale.

Il rilievo non è senza importanza nel caso di specie considerando le numerose iniziative intraprese della *** per denunciare, in modo assolutamente corretto e rispettoso della realtà gerarchica in cui era inserita, la situazione che stava vivendo, nonché i numerosi solleciti che si sono trovati di fronte un vero e proprio muro di gomma.

In linea generale il mobbing vive e prospera in un contesto lavorativo complesso e organizzato secondo criteri verticistici (come era appunto quello della Tim Italia ) spa  nel quale la personalità individuale del singolo lavoratore soffre necessariamente di tutte le restrizioni connaturate appunto alla organizzazione del lavoro.

Se anche le difficoltà di comunicazione possono in parte dipendere da queste difficoltà di carattere oggettivo, non può essere giustificata la condotta del datore di lavoro che, pur se ripetutamente sollecitato, non si attiva per impedire la lesione della personalità morale del dipendente e non effettua i dovuti controlli su quel personale intermedio che può compiere abusi, facendosi scudo della propria posizione. 

Il mobbing può essere integrato anche da comportamenti di molestia morale, di carattere attivo od omissivo, purché connotati da carattere ripetitivo nel tempo che, unitariamente considerati, siano riconducibili ad un comune disegno strategico

Il mobbing può essere integrato ancora dall'irrogazione di sanzioni disciplinari illegittime e pretestuose, al solo fine di intimidire o manipolare il mobbizzato; dall'abuso dei controlli medici fiscali in caso di malattia (come è avvenuto per la ***); da comportamenti discriminatori o vessatori posti in essere per frustrare la dignità morale del lavoratore, che viene ad esempio privato della sua stanza, o dei relativi arredi, o tagliato fuori, senza ragione, dal godimento di benefits economici riconosciuti dal datore a tutti i suoi colleghi;  dagli attacchi volti ad impedire i contatti umani, ponendo il dipendente in una condizione di isolamento fisico e/o psicologico e di emarginazione dal contesto lavorativo aziendale ecc.

Non a caso è stato affermato che il reiterato manifesti del potere disciplinare, per ragioni del tutto pretestuose o di estrema fiscalità, può costituire una attività rivolta a compromettere la personalità morale del dipendente e quindi rappresenti una chiara violazione dell’art. 2087 c.c. nei termini sopra indicati e ciò a prescindere dal nesso di causa fra tale comportamento e la causazione di un eventuale danno biologico (così ad esempio Tribunale di Pisa sentenza n. 2219 del 3.10.2001).

E’ stato però anche affermato che: il mobbing è quel fenomeno di violenza morale posto in essere in modo reiterato per un apprezzabile lasso di tempo, da uno o più soggetti interni al contesto aziendale, superiori o colleghi del mobbizzato, con la finalità ultima di addivenire alla sua espulsione reale o estromissione virtuale dal contesto lavorativo, risultato perseguito mediante una serie di soprusi e di condotte tese a depauperare il suo valore professionale, ad umiliarlo e ad emarginarlo, inducendo nella vittima processi di autocolpevolizzazione e svalutazione delle proprie capacità e provocando un deterioramento delle sue condizioni lavorative e pertanto deve essere escluso nel caso in cui non sussistano fatti esorbitanti da una fisiologica conflittualità nei normali rapporti di ufficio.

In altre parole l’esistenza di una situazione di conflitto in azienda e la semplice violazione da parte del datore di lavoro di diritti individuali (ad es. in tema di orario di lavoro) e collettivi non integra di per sé questa figura tipica della nostra epoca esistendo nel nostro ordinamento specifici e autonomi strumenti di tutela.

La giurisprudenza ha pertanto escluso l’ipotesi del mobbing, in presenza di comportamenti illegittimi episodici pur se gravi, non caratterizzati da sistematicità e comunque di scarsa entità qualitativa e quantitativa (Tribunale di Milano 20/5/2000 in Lav. nella Giur 2001, 4,  pag.  367).

La Suprema Corte ha invece affermato che è configurabile alla stregua di illecito risarcibile il comportamento del datore di lavoro che si traduca in disposizioni gerarchiche rivolte al dipendente al fine di indurlo ad atti contrari alla legge, potendo integrare tale comportamento una violazione del dovere di tutelare la personalità morale del prestatore di lavoro, imposta al datore di lavoro dall'art. 2087 del codice civile. Tale profilo, è appunto riconducibile al fenomeno del mobbing” (Cass.  Sez. lav., 08/11/2002, n.15749).

Di mobbing si parla in alcune recenti pronunce della Corte di Cassazione con riferimento a quelle fattispecie in cui il giudice abbia accertato non solo il demansionamento, ma anche un “globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro”, consistito in una serie di comportamenti ed episodi, verificatisi nell’ambito lavorativo, denunziati, non contestati o comunque confermati dagli accertamenti istruttori (vedi Cass. n. 6326 del 23.3.2005).

La Corte ha ribadito che la responsabilità del datore di lavoro non può essere esclusa per il fatto che le condotte siano state poste in essere da dipendenti o collaboratori, e non dai responsabili aziendali richiamando l’art. 2087 c.c., che obbliga l’imprenditore ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, sia in base ai principi di cui agli artt. 117, comma secondo, 2 e 3, comma primo, Cost., con particolare riguardo alla salvaguardia sul luogo di lavoro della dignità e dei diritti fondamentali del lavoratore.

Sul punto la Corte ha richiamato la sentenza della Corte Costituzionale in data 19.12.2003 n. 359 la quale – dopo aver osservato che la giurisprudenza ha prevalentemente ricondotto la concrete fattispecie del “mobbing” nella previsione dell’art. 2087 c.c. – ha affermato che “la disciplina del mobbing, valutata nella sua complessità e sotto il profilo della regolazione degli effetti sul rapporto di lavoro, rientra nell’ordinamento civile (art. 117, comma secondo, Cost.) e, comunque, non può non mirare a salvaguardare sul luogo di lavoro la dignità ed i diritti fondamentali del lavoratore (artt. 2 e 3, comma primo, Cost.)”.

Perdono valore così anche le tradizionali disquisizioni circa l’elemento soggettivo nel mobbing.

Giova evidenziare come l'elemento finalistico che costituisce l'anello di congiunzione dei singoli episodi non debba essere necessariamente ricondotto all'elemento soggettivo del dolo, inteso quale elemento costitutivo della fattispecie, da provarsi a carico del mobbizzato in analogia a quanto è posto a carico del danneggiato dall'art. 2043 c.c  ma possa essere sufficientemente riscontrato nell'obiettiva idoneità lesiva, rispetto ai beni protetti, del comportamento posto in essere in modo consapevole e volontario dal datore, purché emerga l'oggettiva concatenazione degli episodi mobbizzanti, anche se posti in essere congiuntamente da diversi soggetti appartenenti al contesto aziendale.

Provati pertanto dal mobbizzato sia la sussistenza di una serie concatenata di comportamenti materiali sintomatici di mobbing secondo l'id quod plerumque accidit, sia il nesso di causalità rispetto alla lesione della sua personalità morale, spetterà al datore di lavoro dimostrare di aver posto in essere le cautele doverose e ncessarie ad evitare la realizzazione del processo mobbizzante e che l'evento lesivo dipende da un fatto a lui non imputabile, ma abnorme ed imprevedibile poiché, ai sensi dell'art. 2087 c.c., grava sul datore di lavoro provare di aver ottemperato al dovere di protezione dell'integrità psico-fisica di chi lavora alle sue dipendenze (in tal senso Cass. n. 1307/00).

E’ il caso poi di rilevare come il fenomeno sia ufficialmente “entrato nella giurisprudenza costituzionale” con la sentenza n. 113 del 2004.

Con questa pronuncia la Corte ha stabilito che è incostituzionale l'art. 2751-bis, n. 1, c.c., nella parte in cui non munisce del privilegio generale sui mobili il credito del lavoratore subordinato per danni da demansionamento subiti a causa dell'illegittimo comportamento del datore di lavoro”.

Nella sentenza si legge in particolare che “nell'elaborazione dei giudici ordinari è incontroverso che dalla violazione da parte del datore dell'obbligo di adibire il lavoratore alle mansioni cui ha diritto possono derivare a quest'ultimo danni di vario genere: danni a quel complesso di capacità e di attitudini che viene definito con il termine professionalità, con conseguente compromissione delle aspettative di miglioramenti all'interno o all'esterno dell'azienda; danni alla persona ed alla sua dignità, particolarmente gravi nell'ipotesi, non di scuola, in cui la mancata adibizione del lavoratore alle mansioni cui ha diritto si concretizza nella mancanza di qualsiasi prestazione, sicché egli riceve la retribuzione senza fornire alcun corrispettivo; danni alla salute psichica e fisica.

L'attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori a quelle a lui spettanti o il mancato affidamento di qualsiasi mansione - situazioni in cui si risolve la violazione dell'articolo 2103 cod. civ (c.d. demansionamento) - può comportare pertanto, come nelle ipotesi esaminate dalle sentenze n. 326 del 1983 e n. 220 del 2002, anche la violazione dell'art. 2087 cod. civ.”.

La sentenza, quindi, al di là della specifica questione affrontata,  prende espressa posizione circa la tipologia di responsabilità civile derivante da mobbing, confermando anche la stretta correlazione sistematica del fenomeno con la dequalificazione professionale.

Il datore risponde di mobbing ad opera sua o dei suoi dipendenti per effetto della clausola generale di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c. che tutelando la salute del prestatore d’opera comprende anche le lesioni derivanti dal mobbing: il mobbing determina quindi  responsabilità contrattuale e solo in caso di danno prodotto dai colleghi di lavoro è ravvisabile la responsabilità ex art. 1229 c.c., ovvero per fatto degli ausiliari (cui è speculare, in via extracontrattuale l’art. 2049 c.c.).

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Ciò che rileva in questa sede, al di là delle presunte minacce e intimidazioni che avrebbe subito dal dott. (R) e dal dott. (M) che non sono state provate, è il fatto che la ricorrente a partire dal gennaio 2002 e sino al luglio del 2002  ha soltanto partecipato come uditore ad una presentazione di due ore di un nuovo progetto, con il solo compito di rigirare la presentazione al Fedi (doc. 10), ha effettuato una missione di due giorni in Turchia nel febbraio 2002 e ha svolto attività di preparazione di slides per una presentazione, nemmeno avvenuta, per soli 7 giorni.

Nonostante le singolari dichiarazioni rese dal dott.  (R), apparse ben poco attendibili e smentite dalla semplice lettura degli atti, che hanno cercato di imputare uno svuotamento di mansioni di solare evidenza all’atteggiamento non collaborativo della stessa *** nel tentativo più che altro di difendere se stesso, non seguito in questo atteggiamento dall’altro teste di parte resistente (M), che non ha saputo indicare alcuna specifica attività svolta dalla *** ,  né per il periodo gennaio-agosto 2002, né per il periodo successivo, l’istruttoria ha confermato l’esistenza della grave dequalificazione professionale e persecuzione morale subita dall’ing. *** ,  in buona parte risultante documentalmente.

Non richiedono particolari commenti e risultano assolutamente persuasive le dichiarazioni dei testi (…..)  che hanno diviso per un certo periodo la stanza con la ricorrente.

Il primo ha tra l’altro dichiarato: “sono tornato in Italia dalla Turchia alla fine del 2001…. mi sono trovato nella stessa stanza con la ricorrente…la ricorrente non era inserita nei vari progetti..non era integrata nelle varie attività”..

Il secondo a sua volta ha dichiarato: “dividevo la stanza con la ricorrente e (…) dalla fine del 2001…. Per ciò che concerne le attività svolte dalla ricorrente dalla fine del 2001 io la vedevo sempre a braccia conserte a non fare nulla e lei si lamentava per questo…vedevo spesso la ricorrente piangere perché mi diceva che veniva estromessa dalle attività del suo ufficio… non ho mai sentito la ricorrente rifiutare alcun lavoro…il mio responsabile diretto che era il Galli mi dava precisi incarichi di lavoro mentre il sig. (R)i che avrebbe dovuto essere il superiore della ricorrente non entrava mai nella stanza. Preciso che c’era un livello superiore affidato al dirigente (M) che era lo stesso per me e per lei. (M)  ogni tanto entrava per dare indicazioni a me. Non ricordo che o abbia mai fatto con la ricorrente”.

La situazione non è cambiata dopo l’agosto del 2002, allorché la Linea Sviluppo Servizi Internazionali veniva spostata nella funzione VAS e Business Development e affidata al dirigente (M) e anzi dopo il mese di ottobre la ricorrente è stata esclusa anche dai corsi di lingua spagnola ai quali in precedenza aveva sempre partecipato (si noti che nella scheda di valutazione delle prestazioni svolte dall’ing. *** nel 2001, non a caso priva dell’indicazione delle attività effettivamente svolte dalla ricorrente era contenuto l’esplicito  suggerimento di seguire i corsi di aggiornamento linguistici organizzati dalla Tim Italia  spa.

La stessa situazione si è andata poi ulteriormente aggravando e l’ing. *** veniva esclusa dalle riunioni di lavoro cui partecipava la funzione Plug & Play, non veniva nemmeno convocata per la discussione della sua scheda di valutazione per le prestazioni del 2002 nell’aprile del 2003 (unica tra tutti i dipendenti del settore), veniva successivamente lasciata sola senza lavoro della Palazzina della linea Vas (maggio 2003) e successivamente spostata nel mese di giugno nella palazzina F in una stanza adibita a segreteria di punto delega dove continuava a non fare niente.

Nulla cambiava anche dopo che era stato avviato il progetto Performance Management che pure avrebbe dovuto coinvolgere anche lei come tutto il personale Tim Italia  spa e alla fine (15 luglio del 2004) veniva disposto il suo trasferimento alla Funzione Servizi Informatici, nel settore Tatawarehousing della linea di sistemi omonima, in un settore di cui l’ing. *** non aveva alcuna esperienza.

L’ing *** assume di avere subito in conseguenza di questa situazione un grave danno biologico, consistente in crisi d’ansia e in una depressione reattiva che la costringevano tra l’altro ad assentarsi per malattia in alcuni periodi, fino all’attacco di panico da cui veniva colta il 28 luglio del 2004.

Solo nel mese di ottobre, a fronte di ripetute sollecitazioni, la ricorrente rientrava nel settore Datawarehousing dove veniva formalmente assegnata al gruppo di lavoro DWH Caring relativo all’elaborazione dei dati sull’assistenza clienti, c.d. “customer care”.

Di fatto le mansioni di mera reportistica assegnatele (punto 47 del ricorso), non a caso in affiancamento della sig.ra (U) impiegata di 5° livello che l’ing. *** era destinata a sostituire, erano inferiori a quelle proprie del suo livello di inquadramento.

L’illegittimità della condotta della convenuta per il resto risulta, come si vedrà, dalla stessa comparsa di costituzione.

In sostanza l’ing. *** è stata di fatto dapprima esclusa da tutte le attività proprie dell’unità di appartenenza, è stata esclusa da qualsiasi attività formativa, è stata consapevolmente isolata e umiliata anche di fronte ai colleghi ed è stata alla fine assegnata a mansioni palesemente dequalificanti.

Per ciò che concerne in particolare la dequalificazione è necessario ricordare che il dipendente è titolare di un diritto allo svolgimento effettivo delle mansioni proprie della qualifica di appartenenza, cioè ha un vero e proprio diritto soggettivo al lavoro, che costituisce non solo fonte di guadagno, ma soprattutto il mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, tanto che dal demansionamento può derivare non solo la violazione dell'art. 2103 c.c., ma anche quella del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli art. 2 e 3 Cost. (Cass. n. 2354/2004; Cass. n. 11045/2004; Cass. n. 10157/2004; Cass. n. 7980/2004; Cass. 25.2.04, n. 3772, Cass. n. 13719 del 27/6/2005, Cass. n. 3046 del 13 febbraio 2006,  e numerose altre).

Alla luce di un orientamento assolutamente consolidato della Suprema Corte il datore di lavoro non può, neanche in caso di colpa del lavoratore o per ragioni di carattere oggettivo ed organizzativo, assegnargli mansioni inferiori alla qualifica di appartenenza (Cass. n. 6856/2001, Cass. n. 1295/95, Cass. n. 10/2002, Cass. n. 7967/2002, Cass. n. 8018/2003, Cass. n. 16792/2003 ecc).

Ciò significa che il pregiudizio del c.d. diritto alla "professionalità" gode di una tutela autonoma tanto che l'interessato può anche rifiutare le suddette mansioni "degradanti", nei limiti del rispetto del principio di buona fede contrattuale (Cass. n. 8939 del 12/10/96; Cass. n. 8096 del 4/6/2002).

La stessa Corte ha chiarito che si ha dequalificazione o “svuotamento di mansioni” in tutti i casi di sottoutilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal lavoratore con riferimento alla qualità intrinseca delle attività, al grado di autonomia e discrezionalità del loro esercizio e alla posizione nell’organizzazione aziendale (per tutte Cass. n. 7789 del 14/7/93).

Anche la brevità del demansionamento non giustifica alcuna deroga all’art. 2103 codice civile (Cass. n. 3772 del 25/2/2004).

Si osserva inoltre che le ragioni organizzative e oggettive del datore di lavoro potrebbero consentire la modifica “in peius” delle mansioni solo in caso di consenso del lavoratore (così ad es. Cass. n. 11727 del 18/10/99 che conferma la necessità di una simile manifestazione di volontà dell’interessato nel caso di assegnazione di mansioni inferiori per evitare il licenziamento o la cassa integrazione; nonché Cass. n. 28 del 7/1/2004 che ribadisce il principio per la specifica ipotesi della crisi aziendale). 

La Suprema Corte ha più volte affermato che il c.d. “demansionamento” non viola solo l’art. 2103 cod. civ. ma anche, più in generale, il diritto alla libera esplicazione della personalità del lavoratore: si tratta quindi di un pregiudizio di natura patrimoniale e suscettibile nel giudizio di merito di risarcimento anche equitativo (ad es. Cass. n. 11724 del 18/10/99, Cass. n. 14443 del 6/11/2000 e Cass. n.16792 del 8/11/2003).

Quindi è esatto che l’esercizio dello “ius variandi” datoriale deve garantire il diritto del lavoratore non solo a conservare, ma anche ad accrescere la propria esperienza lavorativa (vedi Cass. n. 14150 del 2/10/2002).

Ciò non vuol dire, al di là delle considerazioni della convenuta sul carattere “dinamico” del principio di equivalenza delle mansioni, che il datore di lavoro non possa effettuare alcuno spostamento se le nuove mansioni rientrano nella qualifica del lavoratore.

Peraltro le mansioni assegnate devono rispettare la “professionalità acquisita“ e la specifica competenza del lavoratore, tanto che la dequalificazione può verificarsi anche all’interno dello stesso livello di inquadramento (Cass. n. 14150/2002 citata).

Giova inoltre ricordare che il diritto disciplinato dall’art. 2103 cod. civ. è indisponibile con conseguente invalidità di una eventuale rinuncia (ad es. Cass. n. 420 del 13/1/2001): lo svolgimento di mansioni inferiori, pur lungamente protratto, non può integrare quindi alcuna accettazione.

A fronte di quanto dedotto dalla ricorrente, e di quanto risulta dagli atti, la convenuta non ha contestato che l’ing. *** abbia svolto sino alla fine del 2001 le mansioni di un impiegato direttivo minuziosamente descritte in ricorso, caratterizzate da una precisa autonomia e discrezionalità, con responsabilizzazione primaria sui risultati attesi, e non ha provato di averle successivamente assegnato mansioni equivalenti.

Si è già detto che le ragioni di carattere oggettivo e organizzativo invocate dalla Tim Italia  spa non consentono di modificare in peius le mansioni del lavoratore.

La dequalificazione appare allora di tutta evidenza.

Appaiono singolari le affermazioni della Tim Italia  spa secondo la quale i testi (…..) avrebbero riferito “de relato” e si sarebbero limitati a dichiarare ciò che avevano visto (e cioè il fatto che la *** non faceva praticamente niente) senza sapere se di una simile condotta omissiva fosse responsabile la società o la ricorrente stessa.

Per ciò che concerne l’onere della prova anche in materia di dequalificazione deve affermarsi infatti la applicabilità del principio secondo cui: “in tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, ed uguale criterio di riparto dell’onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 cod. civ. (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, perché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l’altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell’obbligazione). Anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento”.

Pertanto, allorquando da parte di un lavoratore sia allegata una dequalificazione o un demansionamento o comunque un inesatto adempimento dell’obbligo del datore di lavoro ex art. 2103 c.c. è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l’una o l’altro siano state giustificate dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari ovvero, in base al principio generale di cui all’art. 1218 cod. civ., comunque da una impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.(Cassazione Sezione Lavoro n. 4766 del 6 marzo 2006).

Se le ragioni di carattere organizzativo non possono giustificare alcuna dequalificazione, appare analogamente contraddittoria e generica la difesa della convenuta che non ha neanche realmente contestato di avere di fatto emarginato professionalmente la ricorrente.

Il fatto che la *** sia stata frequentemente in malattia nel periodo incriminato (ed in particolare dopo il luglio 2004) non  rende certo meno grave la condotta di chi questa malattia ha causato, sapendo o dovendo sapere ciò che stava facendo.

Come si è detto la ricorrente ha dichiarato di essere stata solo formalmente assegnata ad alcuni progetti (quali Billing per partecipate Tim Italia  spa,   servizi M-Services etc) ma di non avere in concreto svolto alcuna attività.

La Tim Italia  spa ha dichiarato infatti che nel corso del 2002 all’ing. *** sarebbero stati affidati diversi progetti, e che la ricorrente sarebbe stata coinvolta nel progetto Man per lo svolgimento di attività di c.d. “scouting” nel febbraio 2002, svolgendo una vera attività di core business volta ad approfondire e studiare i nuovi servizi e i nuovi prodotti Tim Italia  spa esportabili anche nelle Local Company (M-Services e MS).

Nel successivo mese di aprile all’ing. *** , coinvolta nel lancio della carta Sim 64k Interatim, sarebbe stato affidato lo svolgimento di ulteriori attività di studio e di analisi di altri e nuovi servizi (punto 16 della comparsa di costituzione) e alla ricorrente sarebbero stati assegnati non solo compiti tecnici ma anche di marketing, specie nel campo dei servizi a valore aggiunto, consistenti essenzialmente nella preparazione di presentazione sui servizi offerti alle società controllate e nel trasferimento alle stesse di know how attraverso gruppi di lavoro ed attività di raccordo tra Tim Italia  spa e le società predette.

Appare allora evidente la contraddittorietà di queste affermazioni ove si consideri che la Tim Italia  spa  finisce per ammettere che questi non meglio precisati compiti di marketing che costituivano l’essenza della nuova struttura non sono stati mai in concreto svolti dall’ing. *** che si sarebbe rifiutata perché non voleva accettare che il settore di appartenenza abbandonasse le attività in ambito internazionale (e la funzione internazionale verrà invece definitivamente soppressa nel maggio 2005).

Non si comprende cosa di equivalente abbia mai fatto la ricorrente ed in realtà l’unica cosa certa è che l’ing. *** è stata privata pacificamente di qualsiasi possibilità di partecipazione attiva alla vita della società (e non ha neanche molta importanza sapere se sia questa la ragione della sua esclusione dai corsi di formazione e linguistici).

Del resto, per ciò che concerne il significato dell’espressione “mansioni equivalenti” la Suprema Corte (v. per tutte la recente Cass. n. 425 del 12 gennaio 2006) ha più volte ribadito che, al fine di valutare se lo jus variandi, tuttora attribuito al datore di lavoro entro i limiti indicati dall’art. 2103 cod. civ., sia stato esercitato secondo correttezza e buona fede, non è sufficiente verificare se le “nuove” mansioni assegnate al dipendente siano comprese nel livello contrattuale nel quale questi è inquadrato, essendo necessario accertare altresì l’equivalenza in concreto di tali mansioni con quelle in precedenza da lui svolte alla stregua del contenuto, della natura e delle modalità del loro espletamento, atteso che l’equivalenza presuppone che le “nuove” mansioni, pur se non identiche a quelle in precedenza svolte, corrispondano alla specifica competenza tecnica del dipendente, ne salvaguardino il livello professionale e siano, comunque, tali da consentire al lavoratore l’utilizzazione del patrimonio di esperienza acquisita nella pregressa fase del rapporto di lavoro.

Al contrario nessuno dei testi escussi è riuscito a indicare una qualche concreta e specifica attività “equivalente” che la *** avrebbe svolto sino al luglio 2004, epoca in cui si è definitivamente ammalata.

Le affermazioni della Tim Italia  spa tese a denunciare il comportamento ostruzionistico della ricorrente sono sorprendenti, contraddittorie e sono soprattutto smentite documentalmente.

Ed invero, per quanto la società abbia sanzionato disciplinarmente l’ing. *** in diverse occasioni, non è mai stato contestato alla ricorrente alcun rifiuto di svolgere le sue mansioni.

Né si comprende a chi mai la ricorrente avrebbe dichiarato di non volere svolgere i compiti inerenti il marketing come pretestuosamente e genericamente affermato dalla Tim Italia  spa  al punto 20 della comparsa di costituzione.

Peraltro la stessa descrizione di questi nuovi compiti (v. comparsa di costituzione, p. 19) fa comprendere l’inconsistenza di queste eccezioni ove si consideri che si sarebbe trattato della preparazione (?) di presentazione di servizi offerti da Tim Italia  spa alle controllate e nel trasferimento alle stesse di know how attraverso gruppi di lavoro ed attività di raccordo.

Anzi risulta dagli atti che l’ing. *** si è preoccupata della situazione e ha subito cercato di contattare i suoi superiori (R) e (N).

Né si comprende come la Tim Italia  spa  possa affermare (punto 29 della comparsa di costituzione) che la ricorrente avrebbe continuato ad occuparsi di marketing anche nel corso del 2003 dopo avere in precedenza affermato che in realtà l’ing. *** nel 2002 non le aveva svolte e senza peraltro essere in grado di specificare cosa avrebbe in concreto fatto dopo il trasferimento nell’ambito della funzione “Vas & Sviluppo Business” affidata a (V).

Anche per ciò che concerne il successivo passaggio nel luglio 2004 alla funzione Servizi Informatici non ha molta importanza sapere se questo sia stato o meno preceduto da un colloquio con (…..).

Ove si consideri peraltro che detto colloquio sarebbe avvenuto il 15 luglio del 2004 è evidente che si è trattato di un colloquio avvenuto quando ogni decisione era già stata presa.

Peraltro poiché la *** si è immediatamente dopo (a far data dal 16.7.2004) assentata per malattia rispetto a detto ultimo periodo il problema non è tanto quello di accertare se l’ing. *** sia rimasta sostanzialmente inattiva, quanto quello di accertare se lo stato di malattia che dette assenze hanno provocato sia stato determinato dalla condotta datoriale.

Come riferito dallo stesso teste (….) citato dalla convenuta ancora nel novembre del 2005 la *** si trovava in una fase di affiancamento, alla quale avrebbe dovuto far seguito quella del coordinamento, ossia della piena gestione del progetto.

Quindi è certo che la *** non ha svolto sino al deposito del ricorso nel maggio 2005 mansioni realmente corrispondenti al suo livello professionale, e, tantomeno, corrispondenti allo specifico bagaglio di professionalità acquisito sino alla fine del 2001.

In conclusione si è in presenza non solo di una grave dequalificazione professionale, ma di una complessiva condotta illecita che ha progressivamente umiliato, isolato, emarginato e distrutto la dignità morale e professionale dell’ing. *** , attuata con il decisivo contributo di personale intermedio per ragioni che non sembrano essere diverse dalla mera affermazione di una volontà di potenza e del gusto di attuare una sistematica persecuzione morale, e perciò ancora più gravi.

Ciò è dimostrato non solo dalla dinamica degli eventi risultante dalla documentazione in atti ma anche dalla successiva e singolare condotta vessatoria della Tim Italia  spa che ha continuato ad effettuare illegittimamente visite di controllo per il medesimo periodo di malattia già confermato dalla prima visita fiscale (per l’illiceità di una simile condotta, ripetuta nel caso di specie per 4 periodi di malattia consecutivi, tipica ipotesi di mobbing, vedi tra le altre Cass. n. 1942/90; Cass. n. 4940/94 e Cass. n. 475/99), nonostante le numerose lettere con cui la *** aveva avvertito il suo datore di lavoro di ciò che stava succedendo, irrogando alla lavoratrice sanzioni disciplinari per assenze che non erano affatto ingiustificate.

La convenuta non ha  neanche cercato di giustificare la sua singolare condotta (e non si vede come avrebbe potuto farlo) e ha solo dedotto che la *** avrebbe violato la disposizione del ccnl che obbliga il lavoratore  a trasmettere in via anticipata l’autorizzazione del medico curante in caso di variazioni di domicilio intervenute in corso di malattia.

Al contrario ciò che rileva è solo il fatto che la visita fiscale deve essere effettuato allo scopo di accertare l’esistenza della malattia e non per altri fini.

Con riferimento ad una fattispecie analoga alla presente la Suprema Corte (Cass. n. 475/99) ha affermato che: “è risarcibile il danno derivato al dipendente da un comportamento illegittimo e persecutorio del datore di lavoro, consistito nella richiesta, a più riprese, all'Inps dell'effettuazione di visite mediche domiciliari di controllo dello stato di malattia del lavoratore, attestato dal certificato del medico curante, nonostante la malattia fosse stata già accertata dai controlli precedenti”.

Particolarmente pretestuosa risulta la sanzione di cui alla lettera del 21/12/2004 considerando che tutte le visite di controllo hanno confermato la prognosi mentre risulta dagli atti che tutti gli spostamenti di domicilio sono sempre stati comunicati alla Tim Italia   spa.

Non si è in quindi in presenza di una semplice dequalificazione, magari dovuta a ragioni organizzative, ma di una condotta illecita attuata scientificamente e quindi proprio di un “globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro”, consistito in una serie di comportamenti ed episodi, verificatisi nell’ambito lavorativo, denunziati, non contestati o comunque confermati dagli accertamenti istruttori (vedi la già citata Cass. n. 6326 del 23.3.2005).

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Per ciò che concerne le conseguenze risarcitorie  la *** ha diritto in primo luogo diritto al risarcimento del danno alla professionalità.

La convenuta ha eccepito che la domanda di risarcimento danni è generica e inammissibile.

In realtà la *** ha chiesto la condanna della Tim Italia  spa al risarcimento del danno alla professionalità, richiamando il parametro della retribuzione mensile e affidandosi in subordine alla valutazione equitativa del giudice.

La prova del danno alla professionalità può infatti essere fornita anche a mezzo di presunzioni relative alla natura, all'entità, alla durata del demansionamento ed alle circostanze del caso concreto (Cass. 13.5.04, n. 9129).

In altre parole il danno alla professionalità e alla personalità morale può essere accertato anche con presunzioni semplici, non essendo richiesti particolari accertamenti se non l’uso di nozioni di comune esperienza (Cass. n. 20240 del 13 ottobre 2004).

Si è già detto che dalla illegittima attribuzione ad un lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle assegnategli al momento dell'assunzione può derivare non solo la violazione dell'art. 2103 c.c., ma anche la violazione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli art. 2 e 3 Cost.; proprio da questa violazione deriva il diritto dell'interessato al risarcimento del danno patrimoniale conseguente al pregiudizio risentito nella vita professionale e di relazione, e la cui quantificazione può avvenire in via equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c.c., in quanto la liquidazione può essere operata in base all'apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio (Cass. 27.8.03 n. 12553; Cass. n. 16792  del  8/11/2003; Cass. n 10157/2004; Cass. n. 7980/2004; Cass. 25.2.04 n. 3772; Cass. n. 13719 del 27/6/2005; Cass. n. 18661 del 23 settembre 2005 e numerose altre).

Con la sentenza delle Sezioni Unite n. 6572 del 24.3.2006 ha però precisato che il danno alla professionalità può essere riconosciuto solo in presenza, come nel caso di specie, di idonee allegazioni da parte del lavoratore.

Infatti la *** ha dedotto e provato di avere subito una ingiusta persecuzione con effetti devastanti, tra l’altro, sul piano professionale.

Di fatto una brillante carriera iniziata nell’ambito della linea “Sviluppo Servizi Internazionali” è stata stroncata sul nascere attraverso una subdola persecuzione morale.

Come è stato confermato dai testimoni la *** è oggi una persona priva di una qualsiasi collocazione professionale.

La ricorrente è stata tra l’altro esclusa dal piano di valutazione individuale Performance Management e la Tim Italia  spa ha omesso di valutare le sue prestazioni per il periodo 2002/2003/2004, proprio perché lasciata senza lavoro.

Le sue prospettive di carriera e di sviluppo professionale sono state così azzerate.

Quindi, anche a volere aderire all’opinione secondo la quale il danno non può essere considerato in re ipsa (danno-evento), si devono però valorizzare gli evidenti ed univoci elementi indiziari che consentono di ritenere esistente la prova del danno e di procedere alla sua quantificazione in via equitativa.

Sotto questo profilo rilevano anche il livello di preparazione della *** (vedi l’ottima valutazione contenuta nella scheda relativa alle prestazioni del 2001), la lunga ed ingiustificata durata dell'inattività nonostante i suoi numerosi e vani solleciti (oltre 3 anni al momento del deposito del ricorso) e l’evidente lesione della personalità morale e della dignità, anche nei rapporti con i colleghi, di chi si è visto attribuire incarichi svuotati di qualsiasi reale contenuto.

La giurisprudenza ha peraltro ben evidenziato che il risarcimento del danno alla professionalità non può coincidere con l'intera retribuzione mensile ma deve essere commisurato a quella parte della capacità professionale effettivamente pregiudicata secondo criteri equitativi (Cass 13299/92; Cass. n. 9228/2001; Cass. n. 13033/2001; Cass. n. 14199/2001; Cass. n. 2763/2003; Cass. n. 7980/2004; Cass. n. 11045/2004).

La Suprema Corte ha anche individuato i criteri in linea generale utilizzabili affermando che deve essere attribuita rilevanza alla perdita della possibilità di carriera per le fasce medio alte, alla durata della dequalificazione, all’elemento psicologico del datore di lavoro e alla posizione ricoperta all’interno dell’impresa (Cass. n. 16792 del 8/11/2003).

Tenendo presente la retribuzione percepita dalla ricorrente, quale risulta dalla documentazione in atti, si ritiene di quantificare detto danno in via "equitativa" in euro 1250,00 mensili, pari a circa la metà della  stessa retribuzione, dal gennaio del 2002 sino al deposito del ricorso nel maggio del 2005 e quindi nella complessiva somma di almeno € 50.000,00 per i circa 40 mesi da prendere in considerazione.

Detto criterio di quantificazione tiene conto di tutte le circostanze ed in particolare della gravità e della durata della dequalificazione, delle vessazioni arbitrarie cui la *** è stata sottoposta, dell’intensità dell’elemento soggettivo del datore di lavoro, del valore delle mansioni sottratte in un settore come quello della telefonia mobile soggetto a rapida obsolescenza, e del comportamento, anche processuale, delle parti.

Sotto quest’ultimo profilo stupisce francamente, e deve essere negativamente valutato, il comportamento di una società che, benché ripetutamente sollecitata a effettuare indagini serie e approfondite con allegazione di specifiche circostanze di fatto da un dipendente onesto, ha preferito tenere una condotta, prima e dopo il giudizio, solo apparentemente pilatesca (ed in realtà scientificamente e contemporaneamente preordinata a colpire la *** e a coprire le responsabilità degli autori dell’illecito) sanzionando alla fine proprio la persona che aveva denunciato i fatti.

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Perciò che concerne il danno alla salute il lavoratore deve provare in modo specifico il danno subito e il nesso causale con la condotta datoriale (Cass. Sez. Un. n. 6572 del 24.3.2006).

In altre parole la responsabilità richiede, oltre all'elemento della colpa (cfr. Cass. 8 luglio 1992, n. 8325),  ossia la violazione di una disposizione di legge o di contratto, la prova, di cui è onerato il lavoratore stesso, della compromissione dell'integrità psicofisica.

La Suprema Corte (v. Cass. 18 aprile 1996, n. 3686) ha infatti più volte affermato  che  -  ove,  in  relazione ad un comportamento illegittimo del datore di lavoro, il prestatore di lavoro ne chieda la condanna al risarcimento del danno biologico - è necessario che lo stesso fornisca la prova della sussistenza in concreto di tale danno, inteso quale menomazione dell'integrità psicofisica  della persona.

Infatti, dopo le sentenze della Corte Costituzionale nn. 87, 356 e 485 del 1991, la tematica  del c.d.  “danno biologico" ha subito un notevole sviluppo: in particolare si è rilevato che il danno alla complessiva integrità psico-fisica ha natura contrattuale con la conseguenza che è il datore di lavoro a dovere dimostrare, ex art 2087 c. c, di avere adottato tutti gli accorgimenti necessari ad evitare l'evento lesivo.

Ne consegue che il lavoratore deve solo dimostrare il danno e il rapporto di causalità rispetto all'attività di lavoro espletata non rilevando la mancata specifica indicazione in ricorso dei criteri di liquidazione del pregiudizio in una materia in cui è lecito il ricorso a criteri equitativi (Cass. 5380/94).

Nel presente  giudizio la  pretesa è stata estesa appunto al  risarcimento del c.d. "danno biologico", avendo la ricorrente dedotto la violazione dello specifico obbligo di protezione dell'integrità psico-fisica dei dipendenti sancito dall'art. 2087 c.c., fonte di responsabilità contrattuale (Cass., 21.12.1998, n. 12763; Cass., 5.2.2000, n. 1307).

Come giustamente rilevato dalla convenuta la  natura della responsabilità datoriale invocata non comporta certo che essa si esaurisca, in senso oggettivo, sul mero riscontro del  danno biologico quale evento legato con nesso di causalità all'espletamento della prestazione lavorativa, presupponendo essa pur sempre l'elemento della colpa ossia la violazione di una disposizione di  legge o di contratto o di una regola di esperienza.

La necessità della colpa - che accomuna la responsabilità contrattuale a quella aquiliana  -  va poi coordinata con il particolare regime  probatorio della  responsabilità contrattuale che è quello previsto  dall'art. 1218  cod. civ. (diverso da quello di cui all'art. 2043  cod.  civ.) sicchè, mentre grava sul datore di lavoro l'onere di provare di aver ottemperato  all'obbligo  di  protezione  in  argomento,  spetta  al lavoratore  l'onere - logicamente anteriore  -  di  provare sia la lesione all'integrità psico-fisica, sia il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l'espletamento della prestazione lavorativa.

Quindi non è possibile addossare all'imprenditore rischi imprevedibili e indeterminabili, del  tutto indipendenti dalle esigenze della prestazione di lavoro e delle attività ad essa  connesse, e addirittura quelli che lo stesso lavoratore ha accettato di correre con scelte personali. 

In altri termini, danno risarcibile da parte del datore di lavoro è ogni lesione psico-fisica subita dal lavoratore sempreché verificatosi in una situazione di rischio in cui il lavoratore si trova in esecuzione degli obblighi a suo carico derivanti dal contratto di lavoro. Ne resta escluso ogni evento dannoso verificatosi in danno del lavoratore per cause estranee all'attività lavorativa, e non riferibili all'area dei c.d."rischio di impresa" in cui lo stesso lavoratore abbia intrapreso, senza alcuna disposizione da  parte del datore di lavoro, una iniziativa non giustificata dalla necessità di eseguire le proprie mansioni, nè  da  esigenze  di soccorso o di salvataggio nei confronti di persone o di impianti aziendali,  affrontando,  per  di  più,  una  ben  percepibile, e certamente evitabile, situazione di pericolo.

La Suprema Corte (v. Cass. n. 4231 del 28/4/99) ha più volte ribadito che il danno biologico è contenuto necessariamente nella lesione dell’integrità psico-fisica e non richiede quindi alcuna prova ulteriore.

La Corte ha anche affermato (Cass. n. 1307/2000) che “in ottemperanza al precetto costituzionale di cui all’art. 41 secondo comma Costituzione, il datore di lavoro non può esimersi dall’adottare tutte le misure necessarie, compreso l’adeguamento dell’organico,volte ad assicurare livelli compensativi di produttività senza tuttavia compromettere l’integrità psicofisica dei lavoratori soggetti al suo potere organizzativo di dimensionamento delle strutture aziendali…………”..

Anche lo stress da lavoro può essere considerato malattia professionale e la dipendenza da altri fattori non esclude il nesso causale (Cass. n. 1205 del 29/1/2001).

Se questi sono i principi, e se è stata provata la condotta illecita e quantomeno colposa della convenuta, appare sorprendente l’affermazione della Tim Italia  spa secondo la quale non vi sarebbe prova del danno biologico, e del c.d. “nesso causale”.

Come si è esposto la *** ha prodotto una copiosa documentazione medica, non solo  numerosi certificati, ma anche una prima relazione medica psichiatrica del 15.6.2004 (doc. 36), nonché una seconda relazione medico psichiatrica del 16 settembre 2004 (doc. 52), seguita da specifiche conclusioni medico legali in merito al danno subito dello stesso specialista,  (doc. n.94 che attesta un danno biologico del 15% per disturbo depressivo maggiore secondo la classificazione del DSM IV), nemmeno contestata e semplicemente ignorata dalla Tim Italia  spa, che provano non solo l’esistenza dello stato di malattia ma anche il fatto che si tratta di patologie di cui la ricorrente non aveva mai sofferto in precedenza che non possono quindi che essere ricollegate causalmente alla dequalificazione e alla persecuzione subita sul lavoro.

Peraltro dette malattie risultano proprio dalle stesse visite fiscali disposte ripetutamente dalla convenuta. 

Dalla relazione medica del giugno 2004 risulta poi che questa situazione si è andata progressivamente aggravando, fino a consolidare un danno all’integrità psico fisica valutabile nella misura corrispondente ad un danno biologico del 15%, costringendo la *** a iniziare una terapia a base di benzodiazepina e sonniferi.

Le successive vicende (e gli attacchi di panico del 28 luglio 2004) non lasciano dubbi circa l’origine della sindrome ansioso depressiva con ansia libera, somatizzazioni e insonnia non adeguatamente contrastata neanche dalla terapia psicofarmacologica cui la *** veniva sottoposta (docc. 51 e 52).

Se le esposte considerazioni, e l’assenza di una specifica contestazioni relativamente al contenuto della documentazione medica prodotta, rende superflua la richiesta di disporre una ctu medica relativamente ad un disturbo depressivo maggiore ormai cronico e recidivo di chiara origine professionale (in tutto o in parte) è necessario rilevare che la gravità delle conseguenze della vicenda sull’integrità psico-fisica della *** è attestata anche dalla deposizione del teste (….).

Il teste ha confermato che a causa dello stato di depressione la ricorrente si è progressivamente ritirata dalla vita sociale perdendo di fatto anche le relazioni amicali.

Si è già detto che a fronte di una provata condotta illecita e vessatoria la convenuta non ha provato di avere adottato le cautele e gli accorgimenti necessari a evitare il danno ex art. 2087 cod. civ.

Si è anche rilevato che l’eventuale concorso di colpa della *** che avrebbe, secondo la resistente, rifiutato proposte professionali e di fornire al datore di lavoro una adeguata collaborazione, non potrebbe a sua volta escludere la responsabilità della Tim Italia  spa.

Dalla documentazione in atti emerge senza ombra di dubbio che la sindrome di depressione reattiva da cui la ricorrente è affetta è riconducibile all’attività lavorativa svolta dalla stessa ricorrente alle dipendenze della Tim Italia  spa ed in particolare alla grave dequalificazione professionale di cui la stessa è stata vittima.

Giova ricordare inoltre, a fronte delle contestazioni sia pur generiche della convenuta, che il danno biologico deve essere integralmente risarcito anche rispetto ad un soggetto “fisicamente predisposto alla malattia” (vedi Cass. n. 5539 del 9/4/2003).

Quindi è di per sé irrilevante, ed è comunque smentito dalla documentazione medica prodotta, la circostanza che la ricorrente già in precedenza potesse avere manifestato sintomi della stessa malattia.

Per ciò che concerne la liquidazione del danno, secondo un principio ormai consolidato nella giurisprudenza della Suprema Corte, il giudice deve procedere a due distinte liquidazioni per il danno biologico e quello patrimoniale (Cass. n. 4231/99), con la possibilità di scegliere il criterio di liquidazione ritenuto più idoneo alla luce delle circostanze, compreso quello  equitativo, escluso ogni astratto “automatismo”(Cass. n. 11892/98) .

Peraltro, mentre il danno biologico è contenuto necessariamente nella lesione dell’integrità psico fisica, il danno patrimoniale deve essere provato e questa prova si ha soltanto nell’ipotesi in cui sia dimostrato che il danneggiato, per effetto della lesione all’integrità psico-fisica subirà una perdita della sua capacità futura di guadagno (Cass. n. 4231/99; Cass. n. 15622 del 20/10/2003 e numerose altre).

In caso di illecito lesivo dell’integrità psicofisica della persona, la riduzione della capacità lavorativa generica, quale potenziale attitudine all’attività lavorativa da parte di un soggetto che non svolge attività produttive di reddito, né è in procinto presumibilmente di svolgerla, è risarcibile quale danno biologico, che ricomprende tutti gli effetti negativi del fatto lesivo che incidono sul bene della salute in sé considerato. Qualora, invece, a detta riduzione della capacità lavorativa generica si associ una riduzione della capacità lavorativa specifica che, a sua volta, dia luogo ad una riduzione della capacità di guadagno, detta diminuzione della produzione di reddito integra un danno patrimoniale. Ne consegue che non può farsi discendere in modo automatico dall’invalidità permanente la presunzione del danno da lucro cessante, derivando esso solo da quella invalidità che abbia prodotto una riduzione della capacità lavorativa specifica. Tale danno patrimoniale deve essere accertato in concreto attraverso la dimostrazione che il soggetto leso svolgesse – o presumibilmente in futuro avrebbe svolto – un’attività lavorativa produttiva di reddito, ed inoltre attraverso la prova della mancanza di persistenza, dopo l’infortunio, di una capacità di attendere ad altri lavori, confacenti alle attitudini e condizioni personali ed ambientali dell’infortunato, ed altrimenti idonei alla produzione di altre fonti di reddito, in luogo di quelle perse o ridotte. La prova del danno grava sul soggetto che chiede il risarcimento, e può essere anche presuntiva, purché sia certa la riduzione della capacità lavorativa (Cassazione Sezione Terza Civile  n. 20321 del 20 ottobre 2005).

Per la quantificazione del risarcimento del danno biologico subito dal lavoratore per mancato rispetto, da parte dell’impresa, degli obblighi di tutela previsti dall’art. 2087 cod. civ. non è obbligatorio fare ricorso alle tabelle in uso presso alcuni uffici giudiziari.

Come è stato affermato dalla Suprema Corte (per tutte Cass. Sez. Lav. n. 14645 del 1/10/2003) la liquidazione del danno biologico è necessariamente equitativa; è tuttavia necessario tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto e, specificamente, della particolare lesione dell’organismo e del grado di menomazione dell’integrità fisio-psichica, della gravità della lesione, degli eventuali postumi permanenti, dell’età e delle condizioni sociali e familiari del danneggiato; è poi necessario analizzare il danno biologico nei distinti momenti, dell’inabilità temporanea e dell’invalidità permanente, differenziandolo dal danno patrimoniale e dal danno morale. In questa valutazione, il giudice di merito può anche ispirarsi a criteri predeterminati e standardizzati, come le tabelle elaborate da alcuni uffici giudiziari, che assumono a parametro il valore medio del punto di invalidità, calcolato sulla media dei precedenti giudiziari; poiché le tabelle non rientrano nelle nozioni di fatto di comune esperienza di cui all’art. 115 cod. proc. civ., né sono canonizzate in norme di diritto, il giudice deve tuttavia dare congrua motivazione in ordine all’adeguamento del valore medio alla peculiarità del caso concreto. E pertanto queste tabelle, che forniscono solo il valore medio riconosciuto nei precedenti giudiziari, non solo non sono un parametro obbligatorio, bensì, avendo natura astratta e predeterminata, esigono effettivamente un supplemento di motivazione, sull’adeguamento del valore al caso concreto.

Inoltre il danno biologico temporaneo può essere liquidato insieme a quello permanente, non esistendo alcuna norma che imponga di differenziare le relative voci (Cassazione Sezione Lavoro n. 6586 del 29 marzo 2005).

Anche a prescindere dall’omessa specifica contestazione delle risultanze della documentazione medica prodotta dalla *** (Cass. S.U. n.761/2002; Cass. n. 1562/2003; Cass. n. 8202/2005) proprio il fatto che non è obbligatorio ricorrere al criterio di liquidazione tabellare esclude la necessità di una ctu al solo fine di quantificare i postumi di una patologia di chiara origine professionale.

Se la percentuale di invalidità permanente può essere stata ottimisticamente valutata nella misura del 15 % del danno biologico (ma nessuna contestazione specifica è stata sollevata sul punto dalla Tim Italia  spa si è visto che la liquidazione del danno biologico può dipendere anche  da altre circostanze diverse dai punti di invalidità che l’evento ha cagionato.

Se questi sono i principi nel caso di specie si deve tenere conto della gravità dei fatti, la cui rilevanza va ben oltre le conseguenze lesive subite dall’ing. *** , per la trascuratezza e il comportamento superficiale della convenuta.

Si deve inoltre tenere conto soprattutto del comportamento vessatorio della resistente che, pur essendo stata informata per iscritto delle condizioni fisiche della *** ha proseguito imperterrita nella sua illegittima condotta, non solo non facendo niente per impedire, ma addirittura aggravando le conseguenze lesive di un fatto illecito.

Appare allora equo liquidare alla ricorrente una somma non inferiore a quella liquidata per il danno professionale e pari quindi ad euro 50.000,00.

Non risultano invece, e non sono state dedotte, conseguenze sulla capacità lavorativa specifica della *** .

Detta somma deve ritenersi comprensiva anche della inabilità temporanea assoluta (Cass. n. 6586/2005).

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Merita accoglimento anche la domanda relativa al danno morale anche alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 233/2003, secondo la quale il danno morale è risarcibile anche in assenza di reato (ma nel caso in esame sono riscontrabili quantomeno gli estremi della lesione colposa) in presenza della lesione di interessi costituzionalmente garantiti, qualora la colpa dell’autore derivi, come nel caso di specie, da una presunzione di legge.

Per ciò che concerne la quantificazione del danno, da effettuarsi necessariamente in via equitativa, si ritiene di determinare l’ammontare, tenendo conto dell’entità delle sofferenze, del dolore patito e della lesione della dignità della persona (Cass. n. 10995/03) in una percentuale pari alla metà del danno biologico (euro  25.000,00).

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Un discorso a parte merita la domanda inerente il “danno esistenziale” (definito dalla difesa della ricorrente “danno alla dignità, all’immagine, alla reputazione ed esistenziale”).

Inizialmente la sezione lavoro della Suprema Corte, facendo applicazione di principi già affermati in materia di diritto di famiglia (vedi in particolare Cass. n. 7713/2000 in tema di mancanza dei mezzi di sussistenza che ha riconosciuto il diritto del figlio naturale al risarcimento danni nei confronti del proprio genitore) aveva affermato che anche le inadempienze del datore di lavoro possono produrre, oltre ad un danno non patrimoniale alla salute, anche un pregiudizio alla “dimensione esistenziale”.

Peraltro detto pregiudizio, non essendo automatico, doveva essere comunque provato dal lavoratore anche con presunzioni (così Cass. n. 9009 del 3/7/2001).

La Corte si riferiva in particolare a quelle inadempienze (ad es. quella retributiva) idonee a pregiudicare le attività realizzatrici della persona umana e cioè agli impedimenti alla serenità familiare, al godimento di una situazione salubre e di una situazione di benessere, al sereno svolgimento della propria attività lavorativa ecc…

Si tratta di beni che godono anch’essi di una specifica tutela costituzionale (in particolare gli artt. 2 e 29) e che concernono il libero dispiegarsi della persona umana nell’ambito della famiglia o di altre comunità.

Il relativo pregiudizio doveva essere liquidato in via equitativa tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto (compreso il comportamento dello stesso lavoratore).

Peraltro, come si è visto, il danno doveva secondo la Corte essere provato nei suoi caratteri naturalistici (e quindi era necessario dedurre e provare la concreta incidenza su di una consueta attività, pur non reddituale, ma non era sufficiente l’esistenza di un patema d’animo interiore).

Modificando in parte il proprio precedente orientamento la Corte ha invece successivamente affermato che il danno da dequalificazione lede il diritto all’identità personale e alla dignità tutelato dall’art. 2 Costituzione e produce un danno non patrimoniale che deve comunque essere liquidato dal giudice in via equitativa (Cass. n. 7980 del 27/4/2004).

Nella sentenza si legge quanto segue: “Sul piano generale, deve rilevarsi che danno patrimoniale e danno non patrimoniale furono disciplinati dal legislatore del 1942 rispettivamente agli artt. 2043 e 2059 c.c., norma, quest’ultima, che limitò il risarcimento ai soli “casi determinati dalla legge”: lettera della legge che ha indotto la Corte territoriale a negare nella specie il chiesto risarcimento. Il quadro normativo è, però, successivamente e profondamente mutato: l’art. 2 della Costituzione, di ispirazione democratica e liberale, riconosce e garantisce infatti i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, mentre diverse norme ordinarie (ad esempio l’art. 2 legge n. 89 del 2001 sul mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo) assicurano il risarcimento del danno non patrimoniale oltre la previsione degli artt. 185 c.p. e 89 c.p.c., il cui il citato art. 2059 si riferisce. Sono queste – unitamente agli interventi della Corte costituzionale, ad esempio in materia di danno biologico – le ragioni per le quali di recente (sentenza n. 8828 del 2003) questa stessa Corte ha affermato, interpretando l’art. 2059 c.c. in senso conforme alle norme costituzionali, ad esso sovraordinate, che il danno non patrimoniale, che detta disposizione contempla, comprende, oltre al danno morale soggettivo, anche ogni ipotesi in cui si verifichi un’ingiusta lesione di un valore inerente alla persona, costituzionalmente garantito, dalla quale derivino effetti dannosi insuscettibili di valutazione economica, senza che sia necessario che tale lesione configuri reato. Tali affermazioni devono essere condivise. Come questa C.S. ebbe a rilevare (sent. n. 3563 del 1996), peraltro in tema di danno biologico, esso è immanente al fatto illecito lesivo dell’integrità biopsichica del danneggiato, a differenza delle conseguenze patrimoniali derivanti dalla stessa lesione, trascendenti lo stesso fatto. Tali rilievi devono essere estesi dalla tutela del diritto alla salute alla lesione di ogni altro valore inerente alla persona, costituzionalmente garantito, e comportano pertanto il risarcimento del danno relativo, indipendentemente dai riflessi patrimoniali della stessa lesione,  che costituiscono una voce di danno eventuale, autonoma e aggiuntiva”…..

E’ altrettanto noto che le Sezioni Unite della Suprema Corte con la recentissima sentenza n. 6572 del 24.3.2003, risolvendo il contrasto di giurisprudenza, hanno affermato che il danno esistenziale deve essere provato e più precisamente che “il danno esistenziale può invece essere verificato mediante la prova testimoniale, documentale o presuntiva, che dimostri nel processo “i concreti” cambiamenti che l’illecito ha apportato, in senso peggiorativo, nella qualità di vita del danneggiato. Ed infatti – se è vero che la stessa categoria del “danno esistenziale” si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, del pregiudizio esistenziale: non meri dolori e sofferenze, ma scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso – all’onere probatorio può assolversi attraverso tutti i mezzi che l’ordinamento processuale pone a disposizione: dal deposito di documentazione alla prova testimoniale su tali circostanze di congiunti e colleghi di lavoro”.

Va allora detto che la ***  ha fornito la prova anche in concreto di questo pregiudizio.

Infatti, oltre alla copiosa documentazione che attesta i concreti cambiamenti in senso peggiorativo della qualità di vita della *** , il teste (….) ha ricordato con una certa malinconia che nel 2000 la ricorrente “era una persona allegra estroversa e di grande compagnia” laddove dal 2002 ha cominciato a rifiutare tutti gli inviti miei e dei colleghi.. si metteva piangere…ho capito che non era più la persona brillante che era in precedenza”.

Nel caso in esame la lesione della dignità,della personalità morale e della stessa immagine professionale della ricorrente appare tanto più grave alla luce della stessa elevata capacità professionale riconosciuta dalla convenuta e dell’assenza di qualsiasi reale giustificazione della vessatoria condotta datoriale.

Proprio alla luce di dette circostanze, trattandosi di una voce di danno autonoma che rientra nella più vasta categoria del danno non patrimoniale, appare corretto liquidare per il danno esistenziale la stessa somma liquidata per il danno morale, e quindi euro 25.000,00 pari alla metà del danno biologico.

La ricorrente ha chiesto infine, anche a titolo di risarcimento danni, la condanna della convenuta al pagamento di una somma corrispondente alle retribuzioni non percepite per i periodi di malattia dovuta a colpa del datore di lavoro per complessivi euro 3.638,31.

A tal fine la ricorrente ha dedotto che la malattia dovuta a colpa del lavoratore non è utile ai fini del decorso del periodo di comporto (Cass. n. 5413/2003; Cass. n. 7730/2004; Cass. n. 4959/2005; Cass. n.11092/2005).

Tuttavia si deve ritenere che quanto già liquidato a titolo di risarcimento danni possa essere considerato comprensivo anche di questo più limitato pregiudizio.

In questi limiti il ricorso merita accoglimento e la Tim Italia  spa, deve essere condannata al pagamento delle somme come sopraindicate, oltre interessi di legge (trattandosi di somme liquidate in via equitativa non spetta la rivalutazione monetaria).

Va aggiunto che il giudice ordinario può, in caso di dequalificazione e di accertata destinazione a mansioni inferiori, ordinare al datore di lavoro la reintegra del lavoratore in mansioni corrispondenti al suo livello di inquadramento e al bagaglio di professionalità acquisito, ciò che costituisce una vera e propria condanna ad un “facere” (così tra le altre Cass. n. 11727/99 e n. 11479/99).

La Cassazione, con la recente sentenza n. 425/2006, ha ritenuto corretta anche l’utilizzazione in questo caso da parte del giudice del termine “reintegrazione”.

La Suprema Corte ha rilevato che in passato la sua giurisprudenza aveva dubitato circa la legittimità, in caso di dequalificazione del lavoratore dipendente, di una sentenza di condanna del datore di lavoro ad adibire il lavoratore alle mansioni in precedenza assegnate, soprattutto in considerazione del carattere eccezionale del provvedimento di reintegrazione, consentito nei soli casi previsti dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970. Le pronunce emanate in epoca successiva – ha peraltro ricordato la Corte – hanno osservato che, anche a voler ritenere che il c.d. ordine di reintegrazione nelle specifiche mansioni esercitate prima della illegittima destinazione ad altro incarico non sia suscettibile di esecuzione forzata, è tuttavia consentita l’emanazione dell’ordine in questione da parte del giudice, restando inteso che il datore di lavoro può ottemperarvi anche assegnando il dipendente a mansioni diverse e caratterizzate soltanto dal requisito della equivalenza alle precedenti con la conseguenza che la condotta del datore è sanzionabile, oltre che mediante la condanna del medesimo al risarcimento del danno, anche con l’ordine di reintegrazione del lavoratore nel precedente incarico o in altro avente identico contenuto.

Se si riconosce che la violazione della norma imperativa di cui all’art. 2103 cit. implica la nullità del provvedimento datoriale – ha osservato la Corte – si deve parimenti ammettere la possibilità che al lavoratore sia accordata una tutela piena, mediante l’automatico ripristino della precedente situazione, fatto salvo, ovviamente, il c.d. jus variandi del datore di lavoro; tale situazione non ha nulla a che vedere con quella prevista dall’art. 18 della L. 300/70, il cui richiamo costituisce un falso problema. L’ordinamento vigente – ha affermato la Corte – privilegia la tutela satisfattoria dell’interesse leso; alla sua realizzazione è preordinata la pronuncia di condanna del datore all’adempimento in forma specifica (nella specie, la riassegnazione delle mansioni precedentemente svolte o di quelle equivalenti); tutela che è anch’essa “reale”, al pari di quella prevista dall’art. 18 cit., in quanto comporta la persistenza del rapporto illegittimamente modificato del datore, ma appartiene alla sfera del “diritto comune”, non essendo assimilabile al regime “speciale” previsto per il licenziamento ritenuto illegittimo.

Le spese, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

 

Roma lì, 28.3.2006 (depositato l'8.4.2006)

Il Giudice

Dr. Umberto Buonassisi

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P.S. - La sentenza è perfettamente allineata alle considerazioni da noi espresse nel novembre 2005 nell'articolo "Alcuni punti fermi in tema di oneri probatori del demansionamento e del mobbing", constatazione che è per noi fonte di indubbia gratificazione.

 

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