Obbligo aziendale di reimpiego in altre mansioni del lavoratore colpito da sopravvenuta inidoneità parziale alle mansioni originarie

 

CORTE Dl CASSAZIONE - SEZIONE 5 - 2 agosto 2001, n. 10574 - Pres. Saggio – Rel. Cellerino - PM. Abbritti (concl. conf) - Telecom Italia S.p.A. c. Albini.

(Rigetta, Trib. Benevento, 30 marzo 1999)

 

Categorie e qualifiche - Mansioni - Sopravvenuta inidoneità fisica - Estinzione del rapporto - Esclusione - Obbligo del datore di lavoro di reimpiego del lavoratore - Sussistenza - Condizioni - Fattispecie.

[Artt. 2087, 2103 c.c.]

 

Nel caso di sopravvenuta inidoneità  alle mansioni lavorative assegnate va riconosciuto al lavoratore il diritto di pretendere, e correlativamente affermato l'obbligo, ex art. 2087, c.c., del datore di lavoro di ricercare, una collocazione lavorativa non pretestuosa, idonea a salvaguardare la salute del dipendente, nel rispetto dell'organizzazione aziendale, dimensionata in modo plausibile e rispettosa delle regole poste a salvaguardia della salute (v. artt. 34 e ss. e 40 e ss. d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626), che costituiscono, nel loro insieme, la disposizione di legge (art. 32 Cost., v. Cass. 10339/2000, cit.), che sancisce, anche sanzionandone le omissioni, gli obblighi posti dall'ordinamento a presidio della salute dei collaboratori del datore di lavoro.

In altre parole, se non è garantita al lavoratore l'assegnazione a mansioni diverse da quelle che incidono sul suo stato di salute, per l'impossibilità oggettiva di offrirgli, in base all'assetto aziendale, una collocazione alternativa dirimente (per dirla tutta: una mansione sedentaria), tuttavia questo dato non esime l'imprenditore dall'obbligo di ricercare ed assicurare che il contesto operativo delle mansioni da espletare sia in linea con le disposizioni appena citate, poste non inutilmente a salvaguardia della salute dei lavoratori, attuando quelle riconversioni strutturali che ricadono nel normale sviluppo delle tecnologie applicate.

Lo jus variandi non identifica solo una posizione soggettiva tutelata, a certe condizioni, in capo al datore di lavoro, bensì è soprattutto diretto a tutelare il lavoratore, attribuendogli il diritto di sindacare la scelta imprenditoriale, pur formalmente diretta alla conservazione delle mansioni, in tutti quei casi in cui si verifichi, obiettivamente, un pregiudizio per la sua salute, che non sia tale, ovviamente, da precludergli il diritto allo svolgimento di un'attività lavorativa alternativa, apprezzabile anche dalla controparte.(Fattispecie relativa ad un dipendente della Telecom Italia S.p.A. che aveva contratto nello svolgimento dell’attività lavorativa una lombosciatalgia cronica dx e una ernia discale in quanto per circa venti anni si era arrampicato, per diverse volte al giorno, su pali telefonici avvalendosi di ramponi anziché di cestelli semoventi, costituenti un meccanismo non soltanto meno usurante ma anche più moderno dal punto di vista dell’evoluzione tecnologica e di maggiore affidabilità antinfortunistica e quindi maggiormente conforme alla normativa sulla tutela della salute dei lavoratori e, in particolare, al d. lgs. n. 626 del 1994).

 

Svolgimento del processo. - Rigettata dal Pretore-giudice del lavoro di Benevento la domanda di Albini diretta ad ottenere dalla S.p.A. Telecom Italia, per ragioni di salute, il mutamento di mansioni nell'ambito del livello d'inquadramento, il Tribunale ha accolto la domanda dichiarando il suo diritto ad essere adibito ad attività equivalenti, compatibili con il suo stato fisico.

Il Giudice d'appello ha ritenuto che dalle prove raccolte e dalle conclusioni della relazione medico legale, fondata sulla documentazione medica esibita, fosse emersa la prova dell'esistenza di un sovraccarico funzionale del rachide lombo-sacrale che aveva provocato una lombosciatalgia cronica dx ed ernia discale L4 e L5 s 1, determinata dall'attività svolta per circa 20 anni, durante i quali, l'Albini, avvalendosi di ramponi, si era arrampicato tre o quattro volte al giorno su pali telefonici, per operarvi per qualche tempo (da mezzora a tre ore).

Contro questa sentenza propone ricorso per cassazione, fondato su un unico motivo, la Soc. Telecom.

Resiste con controricorso l'Albini.

 

Motivi della decisione. - La Telecom Italia S.p.A. denun­cia violazione e falsa applicazione dell'art. 2103, c.c., an­che in relazione agli artt. 1256 e ss., c.c. ed omessa e contraddittoria motivazione (art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.), contestando il principio affermato dalla sentenza, secondo cui «ove sia provata la dipendenza tra la patologia lamentata e la prestazione svolta, il lavoratore ha diritto al mutamento di mansioni».

In particolare, argomenta che non sono emerse «conclusioni univoche sul nesso causale tra patologia e prestazioni lavorative», avendo il ctu espresso piuttosto giudizi ipotetici, senza alcun dato di certezza anche in relazione agli stessi presupposti dell'infermità, collegandola a dati temporali, emersi in sede testimoniale, di per sé incerti e non univoci circa gli interventi, tre o quattro volte al giorno con durata variabile da mezzora a tre ore, su pali, oltretutto avendo il Tribunale omesso di considerare che il lavoratore si avvaleva dell'aiuto di colleghi, e, per contro, valorizzato il sollevamento di pesi da parte sua, peraltro trascurato dalla ctu. Ritenuto che «nel nostro ordinamento vige, come principio di carattere generale, il divieto di mutamento di mansione, non solo disposto unilateralmente, ma anche in virtù di un patto intercorso tra datore di lavoro e lavoratore» e che le disposizioni poste a salvaguardia della salute, quali quelle in tema di pubblico impiego o fondate sulla 1. n. 482/1968 a tutela degli invalidi o sulla 1. n. 1204/1971 per le lavoratrici madri, sono di «natura eccezionale che non possono essere estese a casi simili», la difesa ricorrente conclude osservando che nel caso di specie l'Albini non ha dimostrato l'inidoneità a svolgere determinate mansioni, né che nell'ambito di quelle tecniche v'era la possibilità di un suo diverso collocamento «equivalente», rimanendo a suo carico «ogniqualvolta fosse sopravvenuta la temporanea impossibilità di rendere la prestazione, [...] l'onere di giustificare l'assenza con l'invio di certificazione medica».

Il ricorso non merita di essere accolto.

Anzitutto, mentre è irrilevante, in relazione alla questione qui dibattuta, il richiamo a specifiche disposizioni volte a salvaguardare particolari aspetti di disagio sanitario in relazione al rapporto di 1avoro, è contestabile l'affermazione di parte ricorrente secondo cui nel nostro ordinamento vige il principio dell'immodificabilità delle mansioni per vo­lontà unilaterale o per patto.

Siffatta cristallizzazione non si rinviene nell'art. 2103, c.c., nuovo testo, la cui funzione é, invece, diretta a regolamentare lo jus variandi, esclusa comunque ogni ipotesi vessatoria, del datore di lavoro, obbligato ad esercitarlo, in caso di evoluzione professionale in melius del dipendente e legittimato ad attuarla in caso di collocazione «orizzontale», con destinazione, cioè, del lavoratore a mansioni che rispondano al requisito di equivalenza (contrattuale collettiva o di fatto) con quelle da ultimo svolte.

In proposito, è appena il caso di ricordare il ripetuto intervento di questa Corte, per limitarsi all'anno 1999, totalmente opposto al principio espresso dalla difesa ricorrente, secondo cui permane il diritto dello jus variandi del datore di lavoro, giustificato da esigenze organizzative o strutturali, ovvero da radicali e profonde ristrutturazioni aziendali (Cass. 17 marzo 1999, n. 2428; 19 marzo 1999, n. 2561 (anche con riferimento all'art. 41 Cost.); purché esercitato attraverso il conferimento di funzioni equivalenti: 24 apri­le 1999, n. 4221 e 12 ottobre 1999, n. 11479 e nell'ambito della struttura aziendale o in un contesto più ristretto: 26 maggio 1999, n. 5153).

E, invece, il caso di dire che lo jus variandi deve essere esercitato ed adempiuto nel più rigoroso - e quindi sindacabile - rispetto dei canoni di correttezza e buona fede, alla cui dimostrazione entrambe le parti sono tenute a concorrere per quanto di ragione, come si ricava dall'obbligo datoriale di adibire (e mantenere) il lavoratore alle stesse mansioni per le quali il lavoratore era stato assunto o ad altre, comunque, «equivalenti» o, a quelle successivamente acquisite in melius.

Infatti, l'esercizio dello jus variandi, nel rispetto dei canoni di buona fede e correttezza, deve essere tale da consentire l'immediato ed evidente apprezzamento delle ragioni che lo sostengono, perché se è vero che, per regola generale, la buona fede, ovvero la spiritualità stessa del modo di operare del soggetto attivo, si presume, il comportamento secondo correttezza costituisce l'espressione materiale della regola del caso concreto.

Come tale, questa condotta deve essere immediatamente percettibile e verificabile in modo oggettivo, anche se la prova rimane a carico di chi ne contraddice l'esplicazione. Ciò premesso, il problema dei rapporti fra l'art. 2103 e l'art. 2087, c.c., ha già trovato nella giurisprudenza di questa Corte non poche applicazioni che, anche in relazione alle varie prospettazioni processuali insorte, si sono, di fatto, evolute nel tempo, riconoscendo l'accentuazione del contemperamento delle ragioni della generalità dei lavoratori rispetto a quelle del singolo (v. Cass. 12 giugno 1995, n. 6601) o dell'impresa (Cass. 6 novembre 1996, n. 9684), pervenendo, più di recente, alla valorizzazione del principio, oltretutto di rilevanza costituzionale, del diritto irrinunciabile alla salute e al lavoro, dapprima riconoscendo la responsabilità contrattuale, per colpa, del datore di lavoro per inosservanza delle misure necessarie a tutelare 1' integrità fisica del dipendente (Cass. 22 aprile 1997, n. 3455) e, successivamente, con l'autorità delle Sez. Un. civili (7 agosto 1998, n. 7755) affermando, sia pure in relazione all'e­sercizio del diritto di recesso per giustificato motivo oggettivo, il seguente principio: «In caso di sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, l'impossibilità della prestazione lavorativa quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato (artt. 1 e 3, 1. n. 604 del 1966 e artt. 1463 e 1464, c.c.) non è ravvisabile per effetto della sola ineseguibilità dell'attività attualmente svolta dal prestatore di lavoro, perché può essere esclusa dalla possibilità di adibire il lavoratore ad una diversa attività, che sia riconducibile - alla stregua di un'interpretazione del contratto secondo buona fede - alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti (art. 2103, c.c.) o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore».

Si è, pertanto giunti a sostenere (v. Cass. 5 agosto 2000, n. 10339) che, nel caso di sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni lavorative, il patto di dequalificazione «costituisce non già una deroga all'art. 2103, c.c., norma diretta alla regolamentazione dello jus variandi del datore di lavoro [...] bensì un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto, sorretto dal consenso e dall'interesse del lavoratore; pertanto - ed è questo il passaggio significativo che interessa la presente fattispecie - il datore di lavoro è tenuto a giustificare oggettivamente il recesso con l'impossibilità di assegnare mansioni non equivalenti, nel caso in cui il lavoratore abbia - sia pure senza forme rituali - manifestato la sua disponibilità ad accettarle».

Vale a dire che, prima di procedere al licenziamento, il datore di lavoro dovrà accertare (e, quindi, eventualmente dimostrare in giudizio) la impossibilità di assegnare al lavoratore mansioni compatibili equivalenti, senza che ciò, ovviamente, comporti lo stravolgimento del sistema azienda; quindi, in mancanza di mansioni compatibili equivalenti, ricercare nell'ambito della struttura esistente, con il consenso del lavoratore, la possibilità di adibirlo alla mansione compatibile meno dequalificante e solo, ma come ultima ratio, ricorrere all'espulsione del lavoratore fisicamente inidoneo allo svolgimento delle mansioni ri­coperte.

Se questo è lo stato della giurisprudenza nel momento della crisi, con effetti traumatici, del rapporto di lavoro, per incompatibilità fisica dello svolgimento delle mansioni, a maggior ragione il problema e la soluzione ricordata, già autorevolmente dibattuta ed offerta, si pone in relazione a una situazione meno ultimativa e dirompente, qual è quella evidenziata in questa fattispecie.

Si vuol dire, in altre parole, che lo jus variandi non identifica solo una posizione soggettiva tutelata, a certe condizioni, in capo al datore di lavoro, bensì è soprattutto diretto a tutelare il lavoratore, attribuendogli il diritto di sindacare la scelta imprenditoriale, pur formalmente diretta alla conservazione delle mansioni, in tutti quei casi in cui si verifichi, obiettivamente, un pregiudizio per la sua salute, che non sia tale, ovviamente, da precludergli il diritto allo svolgimento di un'attività lavorativa alternativa, apprezzabile anche dalla controparte.

In siffatte situazioni, oggettivamente necessitate e comprovate, va dunque riconosciuto al lavoratore il diritto di pretendere, e correlativamente affermato l'obbligo, ex art. 2087, c.c., del datore di lavoro di ricercare, una collocazione lavorativa non pretestuosa, idonea a salvaguardare la salute del dipendente, nel rispetto dell'organizzazione aziendale, dimensionata in modo plausibile e rispettosa, per restare nella presente vicenda, delle regole poste a salvaguardia della salute (v. artt. 34 e ss. e 40 e ss. d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626), che costituiscono, nel loro insieme, la disposizione di legge (art. 32 Cost., v. Cass. 10339/2000, cit.), che sancisce, anche sanzionandone le omissioni, gli obblighi posti dall'ordinamento a presidio della salute dei collaboratori del datore di lavoro.

In altre parole, se non è garantita al lavoratore l'assegnazione a mansioni diverse da quelle che incidono sul suo stato di salute, per l'impossibilità oggettiva di offrirgli, in base all'assetto aziendale, una collocazione alternativa dirimente (per dirla tutta: una mansione sedentaria), tuttavia questo dato non esime l'imprenditore dall'obbligo di ricercare ed assicurare che il contesto operativo delle mansioni da espletare sia in linea con le disposizioni appena citate, poste non inutilmente a salvaguardia della salute dei lavoratori, attuando quelle riconversioni strutturali che ricadono nel normale sviluppo delle tecnologie applicate.

Alla luce di questi principi, che la Corte intende ulteriormente avvalorare e confermare, escluso ogni riferimento alla prestazione parziale (art. 1256 e ss., c.c.), da ritenere un obiter dictum del Tribunale, espresso in funzione di un'ipotesi di risoluzione del rapporto mai entrata a far parte del tema processale, e, pertanto, emendabile ex art. 384, 2° co., c.p.c., ritiene il Collegio che il convincimento del Giudice d'appello meriti di essere confermato.

Esso è, infatti, ancorato alla valutazione della prova orale che ha confermato le usuranti modalità della prestazione dell'Albini, espletata attraverso un impegno lavorativo (peraltro apprezzato dalla Telecom, che si dichiara «soddisfat­ta dell'adempimento»: v. ricorso pag. 6, penultimo cpv.) particolarmente gravoso e costante nel tempo, che la consulenza tecnica ha ritenuto incidente, con efficacia causale, sullo stato di salute del lavoratore.

D'altra parte, l'ipotesi su cui si fonda il giudizio della relazione medico legale, recepita dalla sentenza e denunciata con grande affidamento dalla difesa ricorrente, che ne sottolinea il carattere ambiguo e non decisivo («il ctu conclude ribadendo che solo se l' Albini abbia usato prevalentemente o esclusivamente mezzi tecnici, quali l'autocestello, per montare sui pali del telefono, il meccanismo patogenico avanti esposto per la formazione dell'ernia e del dolore sciatico verrebbe a cadere completamente, mancando già il primum movens, che nel caso specifico é il sovraccarico funzionale prolungato della colonna vertebrale dovuto allo sforzo muscolare e alla postura») ha trovato nell'apprezzamento positivo della prova testimoniale, effettuato dal Tribunale, l'anello di congiunzione e il nesso causale degli effetti nocivi sulla salute dell'Albini dell'attività di operatore sui pali, espletata con le riferite modalità, sicché la valutazione conclusiva non dipende dalla opinabilità dell'eziologia morbigena, ma dal concreto atteggiarsi della prestazione, necessitata da un armamentario (i ramponi) la cui uti­lizzazione, risalente nel tempo, appare oggi, non solo dal punto di vista dell'evoluzione tecnologica, superata dall'uso di «cestelli» semoventi, oltretutto di maggiore affidabilità antinfortunistica, secondo la stessa prospettazione del Consulente, ricordata dalla sentenza e in linea con le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 626 del 1994, reso in attuazione di varie direttive Cee, «riguardanti il migliora­mento della sicurezza e della salute dei lavoratori nei luoghi di lavoro».

Scadono, quindi, a livello di sterile contestazione («quante volte [...] quanto tempo [...] quanti chili?») le argomentazioni che la difesa della Telecom propone, nel ricorso, sulla valutazione delle prove effettuata dal Tribunale, tenuto conto che il convincimento complessivo offerto dalla sentenza non può essere scomposto millimetricamente, ma dà ragione dell'iter logico che presiede e sostiene la decisione in modo che appare immune da censura, posto che assembla il dato delle modalità usuranti della prestazione dell'Albini, ricavato dalle convergenti deposizioni testimoniali, con la valutazione medico legale, che, a sua volta, appa­re coerente con quelle evenienze.

Infatti, costituisce ferreo principio di questa Corte, da cui non v' è motivo per discostarsi, quello secondo cui (v., ad es., Sez. Un., 27dicembre 1997, n. 13045; 11 giugno 1998, n. 5802) il controllo della Cassazione sulla motivazione del giudice del merito in relazione alla censura di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, non può tradursi in un riesame del fatto o in una rinnovazione del giudizio sul fatto, poiché il giudizio di cassazione non conferisce alla Corte il potere di riesaminare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, le argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta esclusivamente di individuare le fonti del proprio convincimento, di esaminare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere tra le risultanze quelle ritenute più idonee a dimostrare i fatti in discussione, di dare la prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova, salvi i casi tassativamente previsti dalla legge.

Alla luce di queste considerazioni il ricorso va rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo (Omissis).

 

Sopravvenuta inidoneità allo svolgimento delle mansioni di assunzione ed obbligo di repechage. Nota a Cassazione, Sez.Lav., 10 ottobre 2005, n. 19686

 

La sentenza della Corte di Cassazione n. 19686 del 10 ottobre 2005 chiude la vicenda giudiziale di un lavoratore subordinato divenuto, nel corso del rapporto di lavoro, fisicamente inidoneo allo svolgimento delle mansioni per le quali era stato assunto.

Il lavoratore, giunto davanti al Tribunale di Napoli, chiedeva l’accertamento dell’illegittimità del provvedimento con il quale era stato destinato a mansioni inferiori e congiuntamente pretendeva la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito.

Il giudice di primo grado, sulla base di una perizia tecnica, accoglieva il ricorso del lavoratore e dichiarava il suo diritto allo svolgimento di altre mansioni all’interno del livello contrattuale di appartenenza e, di conseguenza, condannava il datore di lavoro al risarcimento del danno cagionato.

Deve essere specificato che il lavoratore era divenuto fisicamente inidoneo alle mansioni di giuda, comprese nel sesto livello contrattuale, e le nuove mansioni di assegnazione corrispondevano ad incarichi dissimili a quelli previsti per un conducente ed inclusi in un livello inferiore.

La Corte d’Appello riformava la decisione del giudice di primo grado affermando l’esigenza della prova, da parte del lavoratore, dell’esistenza nell’organico aziendale di posti scoperti per addetti a diverse mansioni nello stesso livello al cui espletamento il lavoratore si reputava idoneo. In altri termini, il lavoratore non doveva limitarsi a sostenere la capacità di svolgere mansioni incluse nel sesto livello, ma anche provare la sussistenza concreta di posizioni ricopribili in quel livello.

La Corte di Cassazione, a sua volta, stabiliva il principio di diritto secondo cui “Il datore di lavoro che adibisca il lavoratore, divenuto inidoneo alle mansioni da ultimo espletate, a mansioni di livello inferiore, con il consenso del dipendente, ha l’onere di provare, a norma dell’art.2697 c.c., pur con le ragionevoli limitazioni imposte dal caso concreto e dalle mancate allegazioni del dipendente, l’impossibilità o la non convenienza aziendale di adibire il lavoratore ad altre mansioni equivalenti a quelle da ultimo espletate o a mansioni di livello intermedio”.

La Corte di Cassazione, nel motivare la sua decisione, elogiava l’insegnamento impartito dalle  Sezioni Unite che, con sentenza del 7 agosto 1998 n.7755, componendo il contrasto insorto nella Sezione Lavoro in ordine alla licenziabilità del dipendente divenuto parzialmente inidoneo alla prestazione per la quale era stato assunto, affermava che la sopravvenuta infermità permanente e la conseguente impossibilità di esecuzione della prestazione lavorativa possono giustificare oggettivamente il recesso datoriale dal contratto di lavoro subordinato, ai sensi degli artt. 1 e 3 della legge n.604/66, se risulti ineseguibile non solo la concreta attività del dipendente, ma sia anche esclusa la possibilità, alla stregua di un’interpretazione del contratto secondo buona fede, di svolgere una diversa attività riconducibile alle mansioni assegnate o ad altre equivalenti secondo quanto disposto dall’art. 2103 c.c. e, persino, in mancanza di altre soluzioni, a mansioni inferiori compatibili con le residue capacità del lavoratore, purché l’azienda non debba operare un mutamento dell’assetto organizzativo.

Merita di essere ribadito che l’intervento delle Sezioni Unite, nel valutare le due posizioni assunte dalla dottrina e dalla giurisprudenza sul tema delle conseguenze che l’aggravarsi delle condizioni di salute del lavoratore comportano sul piano lavorativo (dove una posizione maggioritaria sosteneva la possibilità per l’azienda di procedere automaticamente alla risoluzione del rapporto, ed una posizione minoritaria individuava invece nel licenziamento l’alternativa estrema), risolveva il conflitto rafforzando la validità della tesi secondo la quale il datore di lavoro, per procedere al licenziamento, deve fornire la prova di aver esperito ogni utile tentativo per individuare una nuova  collocazione per il lavoratore.

La sentenza della Corte di Cassazione riaffermava dunque il diritto del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro, eventualmente derivabile dal consenso ad un patto di dequalificazione consistente per l’appunto nell’assegnazione a mansioni inferiori rispetto a quelle precedentemente espletate.

Va rilevato che l’orientamento favorevole alla conservazione del posto di lavoro e perciò alla validità del patto di dequalificazione, muove dalla premessa che non si tratti di una deroga all’art.2103 c.c., bensì di un adeguamento del contratto ad una nuova situazione di fatto.

L’onere probatorio gravante sul datore di lavoro recedente dal contratto si sostanzia nella giustificazione oggettiva dell’impossibilità di assegnare il lavoratore inidoneo alle mansioni abituali, ad altre mansioni equivalenti nello stesso livello, o a mansioni intermedie fra le precedenti e quelle di fatto attribuite.

E’ da tener conto che la sopravvenuta inidoneità del lavoratore ai compiti per i quali è stato assunto dà luogo ad una specifica responsabilità in capo al datore di lavoro, dal momento in cui egli dovrà  assumere una decisione in merito alla nuova situazione di fatto, considerando tanto l’interesse del lavoratore alla salvaguardia del suo posto di lavoro secondo modalità confacenti alle sue residue capacità, quanto agli specifici interessi dell’azienda relativi ai presumibili costi derivanti dall’impiego del lavoratore inidoneo ma anche attinenti l’eventualità di dover  stravolgere l’apparato organizzativo per concepire la ricollocazione del lavoratore.

In adempimento all’obbligo di cooperazione il datore di lavoro sarà tenuto alla predisposzione delle condizioni materiali necessarie allo svolgimento dell’attività lavorativa ed anche impiegare appieno le capacità del lavoratore anche fuoriuscendo, in ragione del consenso del lavoratore, dai limiti imposti dall’art.2103 c.c.

E’ dunque ormai consolidato che il dovere datoriale di ricollocazione del dipendente in azienda debba essere praticato antecedentemente l’intimazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Ove, però, la ricollocazione non risultasse fattibile e dato il divieto di impiegare il lavoratore in mansioni pregiudizievoli il suo stato di salute,  è concesso al datore di lavoro far valere l’infermità del lavoratore e giustificare il recesso in ragioni inerenti l’attività produttiva ed organizzativa.

Risulta tuttavia intuibile che l’assegnazione ad altre mansioni si configuri come un’operazione agevole solo allorquando sussistono in azienda reali posti vacanti nel medesimo livello o altre posizioni in cui collocare il dipendente, anche a livelli inferiori.

Il che vale a dire che il datore di lavoro non dovrà, per puro assistenzialismo, creare posizioni superflue ove impiegare il dipendente addossandosi, per conseguenza, il costo di una posizione di lavoro caratterizzata da una vana proficuità.

Si vuole pertanto sottolineare che il dovere datoriale di tutela dell’interesse del lavoratore, nell’ipotesi di sopravvenuta inidoneità alle mansioni di assunzione, esuli dall’imposizione di operare uno stravolgimento dell’assetto organizzativo e perciò dalla ridistribuzione dei compiti o  dalla creazione di una nuova figura professionale ad hoc cui adattare le residue capacità del lavoratore menomato.

Per concludere, mi preme ribadire che il dovere datoriale di ricollocazione deve mirare fondamentalmente alla tutela del superiore interesse dell’occupazione ma non certamente nella sconvolgente riconfigurazione dell’apparato organizzativo per porre in essere la condizione di cooperare all’accettazione della prestazione.

 

Veronica Passarella

Dottore in Scienze Politiche, specializzazione in Consulenza del lavoro

ver.pass@tin.it

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