Tutto sull'art. 18 *

 

La straordinaria manifestazione del 23 marzo ed il preannunciato sciopero generale forse non saranno sufficienti a convincere il governo a cambiare idea sulla questione dell’art. 18. La battaglia politica in proposito è probabilmente destinata a continuare a lungo, accompagnerà il cammino parlamentare del disegno di legge delega e successivamente, qualora il governo procedesse davvero all’emanazione di un decreto delegato in materia di licenziamenti, si protrarrà sino all’effettuazione di quel referendum abrogativo di cui ormai si parla da più parti.

La questione del referendum merita di essere discussa a parte: ci ritorneremo sopra più avanti. Preliminarmente vale la pena di soffermarsi su ciò che è necessario per reggere il peso di una mobilitazione, nei luoghi di lavoro e nella società tutta, di così ampia durata.

La consapevolezza che le modifiche che si vorrebbero apportare all’art. 18 costituiscono soltanto un primo passo di un progetto di più radicale deregolazione del mercato del lavoro è diffusa ed importante, ma di per sé non sufficiente. Per sostenere una contrapposizione che si giocherà largamente sul terreno della comunicazione, in un contesto mass-mediatico certo non favorevole (per usare un eufemismo) alle ragioni sindacali, pare quanto mai necessaria una capacità di argomentazione e di risposta al fittissimo chiacchiericcio che sarà messo in campo, e diffuso a reti unificate, a supporto delle pretese di governo e Confindustria.

Una discussione del genere si svolse già un paio d’anni fa, all’epoca del referendum abrogativo promosso dai radicali nei confronti dell’art. 18, restando peraltro circoscritta entro una cerchia alquanto ristretta di addetti ai lavori. E’ opportuno riprenderla adesso, passando in rassegna le obiezioni che tradizionalmente vengono proposte con riguardo all’attuale regime di tutela dai licenziamenti illegittimi, per mettere a fuoco come ciascuna di esse, scavata a fondo, risulti della stessa consistenza di una scatola vuota.

 

L’art. 18 dello Statuto dei lavoratori: un unicum normativo?

Nei confronti dell’art. 18 sono state avanzate obiezioni di vario genere sin dalla sua introduzione nell’ordinamento e con frequenza vieppiù crescente nel decennio “liberista” che ci sta alle spalle (solo cronologicamente: giacché l’ideologia che lo ha pervasivamente caratterizzato appare, all’evidenza, ben lungi dall’aver esaurito la propria capacità d’influenza sulle coscienze, così come su diffusi orientamenti politici e culturali, e, quanto al nostro paese, torna anzi a riproporsi nelle attuali politiche governative con un’organicità del tutto inedita.

Di tali contestazioni, la più comune e propagandata è quella che tenderebbe ad accreditare l’idea del carattere assolutamente peculiare del nostro sistema di tutela dai licenziamento illegittimi. Di un’obiezione del genere ci si potrebbe sbarazzare, naturalmente, anche ragionando per paradossi. A chi la propone, infatti, si potrebbe domandare quali conclusioni sarebbe legittimo trarre nell’ipotesi in cui l’ordinamento penale del nostro paese fosse l’unico a non prevedere la pena di morte. Si tratterebbe di una ragione sufficiente per gridare allo scandalo ed invocarne l’introduzione anche da noi? Ad ogni modo, dato che con i tempi che corrono non si può essere del tutto certi della risposta che si darebbe a tale domanda (in fondo orientamenti liberisti in campo economico-sociale e atteggiamenti forcaioli nell’area del diritto penale tendono spesso ad andare a braccetto), vale la pena di misurarsi con l’obiezione in quanto tale.

E’ vero o non è vero, in altre parole, che la reintegrazione nel posto di lavoro rappresenta un’assoluta peculiarità, frutto dell’insana inclinazione dirigistica del legislatore di casa nostra, tale da appesantire il sistema di tutela nei confronti del licenziamento illegittimo con una sanzione che costituirebbe un unicum nel panorama comparato? La critica in questione, come si diceva, è ricorrente, costantemente avvalorata sulla grande stampa d’informazione e specializzata, non di rado sostenuta da affermazioni prive di sfumature di esperti (o presunti tali) di problemi del lavoro: i quali, tutt’al più, sono disposti a riconoscere che in altri paesi la sanzione della reintegrazione sarebbe prevista solo a fronte di un licenziamento di carattere discriminatorio (ad esempio perché attuato per colpire la militanza sindacale di un lavoratore), essendo viceversa ammesse, a fronte di qualsiasi altra ipotesi di licenziamento illegittimo (perché privo di un giustificato motivo di tipo disciplinare o legato a ragioni di carattere tecnico-produttivo), soltanto soluzioni di tipo risarcitorio, tali comunque da mantenere ferma l’estromissione dell’interessato dal posto di lavoro.

Poiché l’argomento viene riproposto con insistita e petulante ripetitività, è sicuramente opportuno puntualizzare, una volta per tutte, che esso, nei termini in cui viene solitamente presentato, va considerato privo di serio fondamento. Nessun unicum normativo, nessuna bizzarria del legislatore italiano: l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, al contrario, si inscrive in un alveo normativo che trova ampi riscontri nell’area dell’Unione europea, soprattutto in quei paesi con i quali la comparazione può ritenersi di  particolare significatività. La disciplina dei licenziamenti presenta ovunque, in effetti, aspetti tecnici di estrema complessità, che non consentono di darne una rappresentazione esauriente in poche battute: ciò, tuttavia, non impedisce di constatare che la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro, sia pure con modalità operative variabili da un paese all’altro, costituisce un rimedio alquanto diffuso nell’Unione europea nei confronti di qualsiasi forma di licenziamento illegittimo e tende ad essere riconosciuta anche in ordinamenti che pure, in linea di principio, restano attestati su soluzioni di tipo risarcitorio (come Gran Bretagna e Danimarca).

Quanto ai sistemi che conoscono meccanismi di tutela analoghi a quello previsto dal nostro art. 18, è sicuramente significativo che la reintegrazione nel posto di lavoro a fronte di un licenziamento illegittimo risulti praticata non soltanto in paesi “minori” (Portogallo ed Austria), come sono disposti ad ammettere persino esponenti governativi, ma anche in paesi di primario rilievo nell’area dell’Unione europea e, per questo stesso, di particolare rilievo a fini di comparazione, come Svezia e Germania Federale.

Non solo le legislazioni di questi paesi sono analoghe alla nostra, ma talvolta prevedono qualche elemento di controllo in più. Si pensi che in Germania l’imprenditore, prima d’intimare qualsiasi licenziamento, è tenuto a consultare il consiglio d’azienda e che l’eventuale opposizione dell’organismo rappresentativo dei lavoratori è fonte del diritto del dipendente licenziato a mantenere il posto di lavoro in pendenza della relativa controversa giudiziaria. D’altra parte, per giudicare del grado di rigidità (o di protezione, a seconda dei punti vista) di un determinato sistema in materia di licenziamenti, non bisognerebbe trascurare mai, come invece si tende strumentalmente a fare (sulla falsariga delle analisi OCSE, cui certuni si industriano immancabilmente a dare da noi un’acritica eco), che le regole applicabili in proposito si dividono in due diversi corpi normativi, in dipendenza del fatto che si tratti di licenziamenti individuali oppure di licenziamenti per riduzione di personale (licenziamenti collettivi). Nel secondo caso esiste una modalità di tutela di tipo esclusivamente procedurale, stabilita da una direttiva comunitaria e perciò di applicazione generale in tutta l’area dell’Unione europea; ma alcuni paesi prevedono forti tutele aggiuntive, come quei “piani sociali” che le imprese tedesche e francesi (ma non quelle italiane) sono obbligate a predisporre in favore dei lavoratori colpiti da un licenziamento collettivo prima di potervi dare legittimamente corso: tanto che, se si dovesse proporre alla Confindustria di scambiare le regole italiane relative alla cosiddetta “flessibilità in uscita”, considerate nel loro insieme, con quelle tedesche, ovviamente considerate anch’esse nel loro insieme, vi sono ben pochi dubbi su quale sarebbe la risposta.

Se in alcuni fra i più rilevanti paesi dell’Unione europea la materia dei licenziamenti risulta ispirata a criteri regolatori quali quelli che sono stati, sia pur sommariamente, richiamati, ne consegue  che l’argomento “europeo”, modulato sul consueto ritornello “aboliamo la reintegrazione per allinearci all’Europa”, può essere agevolmente respinto. Si può anzi aggiungere, per completare il quadro, che proprio in tempi recenti la Confederazione europea dei sindacati si è fatta promotrice di una proposta di regolamentazione dei licenziamenti individuali, destinata nelle intenzioni a costituire la base di una futura direttiva UE in proposito, che, pur non escludendo la possibilità di colpire un licenziamento illegittimo con una misura di carattere economico, pone in primo piano il valore della sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro [1]. La circostanza conferma che l’aspirazione al ripristino del rapporto di lavoro travolto da un licenziamento ingiustificato non soltanto è largamente diffusa nella coscienza dei movimenti sindacali dei paesi più diversi, ma costituisce un tratto permanente della loro azione rivendicativa. Ne risulta smentita, al tempo stesso, la tesi del carattere anacronistico della reintegrazione. Essa, d’altro canto, potrebbe avere senso se chi la propone, come è solita fare la Confindustria, avesse in qualche momento giudicato adeguato ai tempi l’istituto in questione: quando invece è a tutti noto che le contestazioni al riguardo  cominciarono prima ancora che lo Statuto dei lavoratori entrasse in vigore. D’altronde, se con affermazioni del genere ci si volesse limitare a sostenere che le regole dello Statuto sono invecchiate, e per questo stesso meritevoli di superamento, sarebbe fin troppo facile replicare che il principio americano dell’employment-at-will (ovvero della libertà di licenziamento senza giusta causa) è sicuramente assai più datato, risalendo addirittura ai primi del novecento.

 

Le altre contestazioni nei confronti dell’art. 18

Una seconda contestazione comunemente rivolta alla nostra disciplina dei licenziamenti individuali si fonda sul cosiddetto “effetto soglia”, che da essa sarebbe indotto, ed è all’origine di una delle tre ipotesi di deroga all’applicazione dell’art. 18 proposte dal governo. Trattandosi di una normativa applicabile soltanto nelle unità produttive con più di quindici dipendenti, in altre parole, ne deriverebbe un disincentivo all’ampliamento dell’occupazione una volta raggiunta la fatidica soglia: donde la tesi del rapporto di causa ed effetto fra le regole in materia ed il fenomeno del “nanismo imprenditoriale”. Quantunque si tratti di una critica periodicamente riproposta, essa non perde i tratti tipici dell’affermazione di puro buon senso, non corroborata da riscontri empirici in grado di offrirne almeno una parvenza di dimostrazione. Non è il caso, naturalmente, di ripetere le critiche rivolte a questo specifico profilo del disegno di legge delega sul fascicolo di gennaio della Rivista; vale la pena, piuttosto, mettere a fuoco un paio di argomenti che appaiono assenti dalla discussione corrente.

La questione del rapporto fra soglie proprie della legislazione del lavoro e dimensioni dell’impresa, invero, andrebbe affrontata con più precisa cognizione dei suoi contorni effettivi. Ragionando in termini astratti, ad esempio, si può certamente sostenere che siano proprio le regole in materia di licenziamento a scoraggiare la propensione delle imprese ad assumere; muovendosi sullo stesso piano, d’altra parte, non vi sarebbero difficoltà ad argomentare, almeno con pari dignità, una tesi del tutto diversa: attribuendo il fenomeno del “nanismo imprenditoriale” a caratteristiche intrinseche al tipo di produzione, che determinano la dimensione dell’impresa, unitamente ad altri condizionamenti di carattere tecnico-economico, in misura ben più decisiva. Se poi dall’astratto, dai modelli teorici, si volesse passare al concreto, ovvero ai dati normativo-istituzionali reali, ci si accorgerebbe che è proprio la seconda ipotesi a risultare fondata, ed anzi incontestabile, quanto meno con riguardo alle imprese artigiane: in questo caso, infatti, è la legge-quadro del 1985 (un complesso di regole, si badi bene, di diritto commerciale e non di diritto del lavoro) a fissare, ragionevolmente del resto, il limite massimo di dipendenti, differenziato per tipologia di produzione, che ciascuna impresa è tenuta a non superare per non perdere la qualifica di artigiana (ed i benefici connessi).

V’è di più: v’è da prendere in considerazione l’esistenza, del massimo rilievo rispetto a questo specifico profilo del dibattito in corso, dei cosiddetti lavoratori trasparenti, ovvero di quei lavoratori (come gli apprendisti e gli interinali), che possono essere liberamente impiegati senza incidere sul numero dei dipendenti, appunto la “soglia”, al cui superamento è legata l’applicabilità di certe regole lavoristiche, ivi comprese quelle in materia di licenziamenti. Ciò che occorre sapere, in definitiva, è che già adesso il sistema consente alle piccole imprese di superare la mitica soglia dei 15 addetti, evitando di restare sottoposte al regime dello Statuto dei lavoratori in materia di licenziamenti. Certe imprese artigiane, in primo luogo, attraverso l’assunzione di apprendisti possono arrivare a sfiorare complessivamente i quaranta addetti continuando a restare soggette al regime di tutela meramente risarcitorio, proprio della piccola impresa. La non computabilità degli apprendisti e dei lavoratori interinali (per tacere di altre figure particolari introdotte nella legislazione del lavoro degli ultimi anni) costituisce, d’altra parte, una regola generale, di cui tutte le piccole imprese possono avvalersi per superare senza “affanni normativi” la soglia dei 15 dipendenti. C’è davvero bisogno d’altro per dimostrare la vacuità della querelle sull’effetto soglia?

Anche l’argomento che si sente spesso ripetere, del resto, basato sull’assunto che la soglia indurrebbe molti imprenditori a frazionare artificiosamente l’organizzazione produttiva in entità formalmente distinte, tutte al di sotto della soglia medesima, non solo non è suffragato da dati precisi sulla rilevanza quantitativa del fenomeno, ma non regge sul piano logico. Volendo fare un raffronto con la legislazione fiscale, infatti, sarebbe come dire che, siccome esistono svariate tecniche elusive per sottrarsi all’applicazione della stessa, se ne deve concludere che le imposte vadano drasticamente ridotte: quando invece, con tutta evidenza, si tratta semmai di introdurre gli opportuni correttivi, atti a rendere impraticabili operazioni elusive, quando non apertamente fraudolente, nell’area del diritto tributario come in quella del mercato del lavoro.

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Un’ulteriore critica nei confronti della disciplina dei licenziamenti è stata formulata in base all’assunto che l’applicazione della normativa in materia si presterebbe ad esiti arbitrariamente difformi, essendo la sensibilità dei giudici variabile da una parte all’altra del paese ed, in particolare, troppo attenta alle ragioni dei lavoratori nelle regioni a più alto tasso di disoccupazione, in quelle del sud in primo luogo. Le affermazioni in proposito si fondano su ricerche interdisciplinari, frutto della collaborazione di economisti e giuslavoristi, i cui risultati sono stati utilizzati come argomento a sostegno della proposta di cancellare qualsiasi ruolo dell’autorità giudiziaria nella risoluzione delle controversie in materia di licenziamento.

Non è questa la sede per discutere la correttezza metodologica, veramente assai opinabile, delle ricerche in parola. Ci si può limitare ad osservare che non si può naturalmente escludere, ed anzi è altamente probabile,  che i giudici, non operando sotto una campana di vetro, risentano di stimoli provenienti dall’ambiente circostante: pur se bisognerebbe preoccuparsi di aggiungere che non v’è ragione di ritenere che simili condizionamenti riguardino soltanto la materia dei licenziamenti, né, men che meno, che essi operino a senso unico (a favore dei lavoratori). E d’altro canto si allungherebbe troppo il passo se da una constatazione del genere, di per sé alquanto banale, si volessero trarre implicazioni sull’opportunità di superare un cardine della civiltà giuridica, quale è quello rappresentato dalla mediazione giudiziaria dei conflitti (anche fra privati).

Gli occhiuti analisti cui si è accennato, peraltro, omettono sempre di includere, nel novero delle variabili prese in considerazione, quella legata ai comportamenti concreti delle imprese. Ammesso, ed assolutamente non concesso, in altre parole, che sussista un dato statisticamente significativo, dal quale possa desumersi che i giudici del lavoro, nelle controversie in materie di licenziamenti, tendano maggiormente a privilegiare le ragioni dei lavoratori nelle aree meridionali, occorrerebbe altresì preoccuparsi di verificare che ciò non dipenda dalla minore propensione al rispetto delle regole proprio di un ambiente a cultura industriale tuttora assai più fragile di quella riscontrabile nelle zone del paese a più alto tasso di sviluppo (e di sindacalizzazione: elemento, quest’ultimo, assolutamente rilevante per ottenere un più diffuso rispetto preventivo della legislazione del lavoro e contenere il ricorso, necessariamente ex post, all’intervento dei giudici).

A fronte di affermazioni così generiche ed approssimative, in definitiva, è difficile respingere la sensazione che la tesi, che si voleva sostenere, abbia preceduto l’analisi empirica, conferendole i caratteri di un’indagine fin troppo (pre-)orientata.

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Resta da prendere in considerazione l’assunto relativo al preteso carattere discriminatorio della disciplina della reintegrazione nel posto di lavoro. Sotto un’angolazione diversa ritorna in discussione la questione della “soglia” dei 15 dipendenti, criticandosi in questo caso la circostanza che, a fronte del criterio dimensionale prescelto dal legislatore, i lavoratori delle piccole imprese risulterebbero ingiustamente penalizzati. A queste preoccupazioni “egualitarie”, curiosamente riprese ad ogni piè sospinto proprio da coloro che delle protezioni in materia di licenziamenti vorrebbero sbarazzarsi nella misura più ampia possibile, si può replicare in primo luogo che, nelle economie di mercato, qualsiasi normativa in proposito è inevitabilmente il risultato di un compromesso fra esigenze dell’impresa e del lavoro (fra efficienza ed equità, per esprimersi col linguaggio tanto in voga fra certi studiosi di scienze sociali): compromesso storicamente variabile ed assai comunemente espresso, in termini normativi, proprio attraverso la fissazione di una soglia dimensionale, al di sotto della quale operano regole più elastiche [2]. Si potrebbe aggiungere, in secondo luogo, che l’argomento, di per sé, prova troppo. Sul piano strettamente logico la questione dei diversi livelli di tutela garantiti dalle regole attuali non necessariamente si presta ad essere affrontata ridimensionando le protezioni più intense di cui godono i lavoratori addetti ad unità produttive di dimensioni maggiori; è del tutto evidente, invero, che, se ci si pone nell’ottica del superamento di regole diseguali, si potrebbe egualmente realizzare l’obiettivo estendendo le regole più protettive (almeno in parte) a coloro cui oggi esse non risultano applicabili. A prescindere da schermaglie dialettiche del genere, la critica in questione si presta comunque ad essere contestata alla radice, negando che l’attuale disciplina dei licenziamenti giovi soltanto ai lavoratori delle imprese maggiori. La verità è che, come l’esperienza comparata ha messo ampiamente in luce, esiste un nesso inscindibile fra tutela “forte” in materia di licenziamenti, tasso di sindacalizzazione ed incisività dell’azione sindacale [3]; e che la prima costituisce la base materiale dell’azione rivendicativa del sindacato, i cui effetti, peraltro, non riguardano soltanto i lavoratori più “stabili”, ma si riflettono anche sulla condizione di quelli operanti nelle piccole imprese. Al di là di qualsiasi pretestuosa argomentazione, in definitiva, anche da questo punto di vista resta confermato che ciò di cui si sta discutendo non riguarda tanto un problema immediato di costi o di efficienza del sistema delle imprese, quanto una questione di potere nei luoghi di lavoro e nella società.

 

E se il governo non cedesse?

Gli argomenti che abbiamo cercato di allineare potrebbero essere di qualche utilità nel confronto, lungo ed aspro, che probabilmente occuperà i prossimi mesi. Al momento in cui scriviamo, infatti, non sembra prevedibile un ripensamento del governo sulla questione dei licenziamenti: l’iter della controriforma andrà verosimilmente avanti e ad essa si potrebbe essere costretti a rispondere con una raccolta di firme per la richiesta di un referendum popolare abrogativo.

La strada del referendum, certo, è sempre stata scivolosa per lavoratori e sindacati: i precedenti in materia non incoraggiano. In questo caso, peraltro, potrebbe essere percorsa con significative probabilità di successo, purché si tengano ferme alcune condizioni preliminari. La prima di esse attiene al carattere dell’iniziativa referendaria, che dovrebbe essere impostata solo ed esclusivamente attorno ad una grande emergenza sociale, com’è quella dei licenziamenti, senza pretendere che essa faccia da traino ad altre questioni (rogatorie, falso in bilancio, conflitto d’interessi). Non perché le tematiche evocate non siano rilevanti; ma perché la loro miscela potrebbe impedire di mettere ben a fuoco il problema principale; rischierebbe di offrire al governo (che, va ribadito, dispone ormai di un controllo quasi totalitario sui mezzi di comunicazione) argomenti pretestuosi sull’obiettivo “politico” della consultazione; ne comprometterebbe, forse, l’esito finale: giacché non va dimenticato che un referendum può fallire non soltanto perché la maggioranza dei votanti si pronuncia contro l’abrogazione, ma anche per mancato raggiungimento del quorum necessario per assicurarne la validità (evenienza tanto più probabile quando i quesiti sono molteplici e vertono su materie disparate fra loro).

La seconda condizione riguarda l’unicità dell’iniziativa referendaria in materia di licenziamenti. Si sente parlare, invero, di un progetto di referendum da indire con l’obiettivo di cancellare le regole attuali, incentrate sulla soglia relativa al numero degli addetti, per conferire carattere di generalità  alla disciplina della reintegrazione nel posto di lavoro. Poggiando inevitabilmente sulla drastica alternativa sì/no che è propria dello strumento referendario e ne segnala la schematicità, tanto più in materia di lavoro, ove le soluzioni normative vanno sempre calibrate tenendo conto dei loro effetti e, quindi, con tutta la ponderazione che è necessaria, questo secondo referendum non soltanto avrebbe verosimilmente scarsissime possibilità di successo, ma rischierebbe anche di compromettere quelle, invece assai solide, del referendum sulla controriforma governativa.

Ciò non vuol dire, naturalmente, che l’attuale disciplina dei licenziamenti debba essere considerata intoccabile: non foss’altro perché, come si è ricordato, essa è il risultato di un compromesso e la linea che ne segna i termini non può non essere considerata mobile e suscettibile di adeguamento. La normativa vigente in materia, del resto, non è quella originaria dello Statuto dei lavoratori, ma la versione di essa riformulata dalla legge 108 del 1990. Il cammino riformatore può riprendere da lì, magari sforzandosi di individuare criteri più sofisticati di quello imperniato sulla soglia occupazionale per estendere, in qualche misura, le regole dello Statuto anche nell’area della piccola impresa: purché si abbia consapevolezza che interventi di impatto socialmente così rilevante possono realizzarsi solo se attorno ad essi si è costruito previamente il grado di consenso necessario e senza la pretesa di sostituire scorciatoie referendarie agli strumenti, certo più faticosi e complessi, ma non surrogabili, della politica.

 

Massimo Roccella – Ordinario di diritto del lavoro

 

(*) Questo articolo è tratto da "La rivista del manifesto", n. 27 di aprile 2002. Si ringrazia la direzione della rivista e la casa editrice per aver consentito la riproduzione.

 

NOTE

 

[1]  La proposta della CES ha dovuto necessariamente essere formulata in termini aperti, per tener conto della pluralità delle situazioni normative esistenti nei diversi paesi dell’Unione europea. Ciò non sminuisce l’importanza della centralità assegnata alla sanzione della reintegrazione, considerato oltre tutto che le regole prefigurate sarebbero destinate ad un’applicazione generalizzata, a prescindere dalla dimensione dell’impresa.

[2] La relatività del criterio dimensionale è confermata dall’esperienza tedesca. In Germania la soglia dei 5 addetti, stabilita dalla legge per delimitare il campo applicativo della normativa sui licenziamenti, era stata elevata a 10 dal governo Kohl, col risultato di privare alcuni milioni di lavoratori, peraltro senza alcuna ricaduta positiva di simile misura sul piano occupazionale. Più recentemente, con un provvedimento legislativo entrato in vigore il 1° gennaio 199, il Governo Schroder ha ripristinato la soglia più bassa dei 5  addetti.

[3] Basti pensare ai livelli elevati di sindacalizzazione che permangono in paesi come l’Italia, la Svezia e la Germania, non a caso caratterizzati da un modello di protezione nei confronti del licenziamento illegittimo incentrato sulla reintegrazione nel posto di lavoro; e confrontarli con quelli, bassissimi, riscontrabili negli Stati Uniti od anche in paesi, come la Spagna, ove il regime dei licenziamenti conosce solo sanzioni di tipo risarcitorio.

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