LA SENTENZA RESA NEL 2003: IL DISPOSITIVO DEL 13.3.2003

 
Il 13 marzo 2003 (dopo  circa 6 anni e 8 mesi dal 19 luglio 1996 di deposito del ricorso) il giudice del lavoro di 1° grado (dr.sa M. E. F.) si è risolta - dopo un'ondivaga conduzione del procedimento - ad emettere il dispositivo che qui si riproduce: «...accoglie parzialmente la domanda e, per l'effetto, dichiara l'avvenuta dequalificazione del ricorrente a far data dal 1990 e sino al 28.2.97, data di cessazione del rapporto.
Accoglie la domanda relativa al danno biologico e per l'effetto dichiara che il grado d'invalidità permanente del ricorrente e ricollegabile alla dequalificazione è pari al 15%.
Conseguentemente condanna parte ricorrente al pagamento del risarcimento del danno pari a € 22.488,18.
Rigetta le restanti domande.
Condanna parte resistente al pagamento delle spese di giudizio pari a € 2000,70 di cui € 1.910 per onorari.
Pone le spese di CTU a carico di parte resistente».
Si nota immediatamente come non sia stato risarcito il danno da dequalificazione professionale (individuato di durata settennale...ma rivendicato e sussistente per molti anni di più), quando è stato accolto il danno biologico conseguente (o ricollegabile come dice  il magistrato) alla dequalificazione accertata. 
Non v'è chi non noti  la contraddizione in termini. 
Ma ce lo aspettavamo, giacché esibendole l'oramai consolidato orientamento della Cassazione (assertrice dell'immanenza del danno alla professionalità per vanificazione del diritto alla autorealizzazione individuale nel lavoro)  ella aveva "indiziariamente" affermato che quello era "il nuovo orientamento..." (da cui concludentemente si dissociava). E già nel marzo del 1999 se n'era  già dissociata, in una  causa tra un caporedattore di un servizio estero demansionato dall'Ansa (del quale, come a noi ora, aveva rigettato all'epoca la rivendicazione sacrosanta del danno professionale) affermando: 
«I dati di fatto delineati confermano dunque che da responsabile dell'andamento - giornalistico e non - di un ufficio estero, Bufacchi era stato adibito a funzioni di redattore. Tuttavia, il ricorrente non ha chiarito in che modo tale dequalifìcazione si sia concretamente riverberata in negativo sulla sua vita professionale sì che la domanda non può accogliersi.
Si ricorda che in tema di dequalifìcazione professionale al primo orientamento giurisprudenziale - che collegava alla violazione ex art. 13 l. 300/70 la sanzione ex art. 1418 c.c. e, dunque, l'automatico risarcimento del danno (cfr. in tal senso C. Sez. Un. 1781/81; C. 4041/82) - si e' andato via via sostituendo un orientamento più attento al concreto articolarsi della fattispecie oggetto di giudizio: ritenuto, infatti, che la violazione ex art. 13 l. 300/70 può' comportare un danno per il lavoratore il risarcimento e' stato ancorato al verifìcarsi di un danno concreto, sia esso di natura patrimoniale che biologica (cfr. soprattutto C. 8835/1991 e C. 1212/86; C. 3213/92). Ne consegue che l'accertata violazione dell'art. 13 l. 300/70 non comporta - quale conseguenza indefettibile ed automatica - il risarcimento del danno e che , sotto il profilo processuale, il dipendente che lamenti l'avvenuta dequalifìcazione deve anche provare che tale condotta datoriale gli ha, in concreto, causato un danno patrimoniale effettivo; gli ha - ad esempio - comportato una mancata progressione in carriera; gli ha danneggiato la vita di relazione. Il danno, cioè deve essere allegato e provato con specifico riferimento a fatti concreti. Né l'orientamento e l'onere probatorio esposto vengono meno dinanzi ad una valutazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c. (cfr. sul punto Trib. Roma, 28.2.1990 in Not. giur. lav. 1990, 690; Pret. Milano 28.12.1990, in Riv. it. dir. lav. 1991, II , 388 nonché - per la giurisprudenza di legittimità C. 2957/86). Tra le poche voci contrarie può' ricordarsi la sent. n. 13299/92 ove la Cassazione si e' orientata nel senso di un risarcimento scaturito automaticamente dall' accertamento della dequalifìcazione subita: si trattava peraltro di una fattispecie del tutto particolare di un giornalista RAI)» (così, Pret. Roma,  est. F., Bufacchi c. Ansa, del 26.3.99, dep. il 10.6.99).  
Già nel 1999 sostenere quanto sopra era operazione di retroguardia: a maggior ragione  lo risulterà ripetere le stesse o similari argomentazioni - come presumibilmente ipotizziamo avverrà e lo verificheremo nella motivazione - nel 2003 (a distanza di 5 anni), data la presenza di un consolidato orientamento della Cassazione che così suona: « Il demansionamento  professionale dà luogo ad una pluralità di pregiudizi, solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore.  Non solo viola lo specifico divieto di cui all'articolo 2103 c.c., ma costituisce offesa alla dignità professionale del prestatore intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità nel contesto lavorativo (in cui si sostanzia il danno alla dignità del lavoratore, bene immateriale per eccellenza) e quindi lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, con la conseguenza che il pregiudizio conseguente incide sulla vita professionale e di relazione dell'interessato, con indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa (Cass., 18 ottobre 1999, n. 11727). L'affermazione di un valore superiore della professionalità, direttamente collegato ad un diritto fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere immateriale, in qualche modo supera ed integra la precedente affermazione che la mortificazione della professionalità del lavoratore potesse dar luogo a risarcimento solo ove venisse fornita la prova dell'effettiva sussistenza di un danno patrimoniale (cfr. le sentenze 11 agosto 1998, n. 7905; 4 febbraio 1997, n. 1026 e 13 agosto 1991, n. 8835».
Così si è espressa Cass. 6.11.2000 n. 14443 (relegando  ad opinioni superate le precedenti precitate, isolate, sentenze) preceduta e seguita da una nutrita serie di decisioni conformi quali: Cass. 13299/92; Cass. 11727/99, Cass. 7.7.2001, n. 9228; Cass. 23.10.2001, n. 13033; Cass. 2.11.2001, n. 13580; Cass. 14.11.2001, n. 14199; Cass. 2.1.2002, n. 10; Cass. 1.6.2002, n. 7967; Cass. 12.11.2002,n. 15868; Cass. 22.2.2003, n. 2763
Ed è stato anche affermato da questo oramai consolidato orientamento (che ha abbandonato quello che richiedeva al demansionato una "probatio diabolica" sulla immediatamente percepibile obsolescenza  e sull' immanente degrado della professionalità e delle competenze gestionali  sottratte o impedite nell'esercizio quotidiano dall' atto antigiuridico datoriale del demansionamento) che : «Ove la parte abbia chiesto, con domanda di condanna specifica, la liquidazione del danno da dequalificazione, il giudice del merito che abbia accertato, anche tramite la prova presuntiva, l'esistenza di un danno patrimoniale da dequalificazione (nella specie per significativa riduzione quantitativa delle mansioni), non può sottrarsi all'obbligo di una sua determinazione, anche in via equitativa, per la quale può costituire utile elemento di riferimento l'entità della retribuzione...» (Cass. n. 7967/2002); ed ancora:«la liquidazione equitativa ...deve essere compiuta anche quando sia addirittura mancata la dimostrazione, in via diretta, dell'esistenza di un effettivo pregiudizio patrimoniale (Cass. 16 novembre 2000 n. 14443), dato che la prova presuntiva va ricavata dagli elementi di fatto relativi alla durata del demansionamento e dalle altre circostanze del caso concreto (Cass. 2 novembre 2001 n. 13580)» (così Cass. n. 15868/2002). E la più recente Cass. 27 agosto 2003 n. 12553 - reiterando Cass. n. 15868/2002, Cass. n. 13580/2001, Cass. n. 14443/2000 ed altre - ha escluso nuovamente la "probatio diabolica" (anteponendole il dato di comune esperienza, secondo cui dal demansionamento discende automatico degrado od obsolescenza della specifica professionalità), asserendo: «Dalla illegittima attribuzione ad un lavoratone di mansioni inferiori rispetto a quelle assegnategli al momento dell'assunzione può derivare non solo la violazione dell'art. 2103 cod. civ., ma anche la violazione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, da cui deriva il diritto dell'interessato al risarcimento danno patrimoniale conseguente al pregiudizio risentito nella vita professionale e di relazione, e la cui quantificazione può avvenire in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., anche in mancanza di uno specifico elemento di prova da parte del danneggiato, in quanto la liquidazione può essere operata in base all'apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi alla natura, all'entità e alla durata del demansionamento, nonché alle altre circostanze del caso concreto».
Nè è da dire che da parte nostra si fosse mancato di evidenziare i danni alla professionalità conseguenti alla dequalificazione -  anche se intuitivi per senso comune e per l'uomo comune, ed a maggior ragione per un magistrato - premurandoci di addizionare alle (già di per se esaustive) considerazioni del ricorso le seguenti delle note integrative autorizzate del 20 dicembre 2000 ove (dopo aver indicato al magistrato la giurisprudenza della S.C. secondo cui il danno alla professionalità non deve essere provato, in quanto in “re ipsa”) ribadivamo ad abundantiam che tale: «danno, peraltro,..., a tutto voler concedere, risulta comunque ampiamente provato anche nei suoi presupposti in fatto, atteso che il Meucci, oltre alla lesione rappresentata dall'inevitabile obsolescenza delle sue competenze professionali determinata dall'inedia lavorativa, ha visto altresì screditata la sua immagine sia all'interno dell'IMI, di fronte a tutti i dipendenti, come testimoniano i numerosissimi comunicati sindacali affissi in tutte le bacheche dell'Istituto, in cui si evidenzia la sua mortificante condizione professionale (docc. 33-35, 48-52, 66, 72-73, 83-84, 91), sia all'esterno, grazie alla larga eco che le traversie professionali del ricorrente hanno avuto tra gli "addetti ai lavori" nel circoscritto ambiente degli operatori del personale». 
Ci vuol tenacia: aspettiamo la motivazione e ci prepariamo sereni e fiduciosi all'appello, considerando il modesto frutto  economico della condanna datoriale come un "acconto" da conguagliare. 
 
Roma 21 marzo 2003
(aggiornato nel settembre 2003)
LA SENTENZA BEFFARDA - QUANDO IL GIUDICE SI FA CARICO DI NON PREGIUDICARE... LA LIQUIDITA' DEL COLOSSO BANCARIO SANPAOLOIMI
Come avevamo previsto ed anticipato al paragrafo precedente, la motivazione della sentenza - resa  il 15.9.2003 all'incredibile distanza di 7 anni e 2 mesi dal deposito del ricorso in corso di rapporto (19.7.1996) - è la copia appena (e male) aggiornata della sentenza resa dallo stesso giudice M.E.F. il 10.6.1999 (nella causa Bufacchi c. Ansa e Inpgi, da noi preconosciuta), ove il magistrato aveva esaminato (all'epoca) la problematica della "dequalificazione" e del "danno biologico", puntualmente riproposta nella nostra sentenza (rectius, copiata di sana pianta come denuncia già il fatto che si definisce, ora in epoca di giudice unico, ancora Pretore... giacchè tale era la corretta designazione che compariva nella pregressa sentenza Bufacchi!)  per dar la "pubblicitaria" sensazione (non certo a noi!) che non aveva fatto una sentenza "affrettata" ma "meditata" ed "approfondita". Queste sue "meditazioni" - già obsolete nel 1999 - le ha riproposte a 4 anni e mezzo di distanza, in presenza di un orientamento della Cassazione completamente diverso (e a noi favorevole), che non richiede per il danno da dequalificazione la "prova diabolica" del pregiudizio perché è dato di comune esperienza che la dequalificazione e l'inattività forzata determinano automatico degrado ed immiserimento delle capacità ed attitudini professionali. Così, pur non potendo fare a meno di riconoscere 7 anni di forzata inoperosità (dopo la rimozione dall'incarico) ha statuito beffardamente che con ci spetta una lira (rectius,un'euro) a titolo di danno alla professionalità, riconosciuto pacificamente causativo di danno biologico (invece indennizzato dietro riscontro di CTU), giacché non sarebbero stati  da noi dimostrati (il che, peraltro, non risponde neppure al vero, avendo fornito indizi probantissimi, utili ai fini  presuntivi ex art. 2729 c.c.) i danni concreti subiti ad es. alla carriera o all'immagine, per effetto di un demansionamento di durata, intensità e gravità come quello da noi denunciato. Quindi 7 anni persi nell'affidamento di una  professionalità e sensibilità giudiziaria mancata, di un'attenzione diversa da quella dell'Ente creditizio che ci ha mobbizzato indegnamente, attenzione  e fiducia del tutto mal riposta, in quanto per il magistrato si è trattato di una "pratica" indigesta, onerosa per la debordante documentazione mai menzionata in motivazione (con il dubbio che non sia stata neppure letta o letta en passant). 
Quindi, via all'appello. 
Segue, dopo questa breve presentazione illustrativa, la sentenza che ci concerne, viziata anche da una interpretazione irrealistica delle testimonianze, concludentemente  favorevoli a noi e qualificate invece, incredibilmente, "altalenanti".

 

Tribunale di Roma (sezione lavoro, primo grado) 15 settembre 2003 – Giud. M. E. F. - Meucci M. c. Istituto Mobiliare Italiano SpA (ora SanpaoloImi SpA)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato il 19.7.1996 e ritualmente notificato, MEUCCI Mario ha adito il Tribunale del lavoro di Roma chiedendo che venisse accertata e dichiarata la propria dequalificazione personale (rectius, professionale, n.d.r.) dall'assunzione sino alla data di deposito del ricorso e che, conseguentemente, venisse ordinata la propria reintegra nelle mansioni originarie di responsabile del settore gestione risorse e relazioni sindacali; che, infine, la società convenuta venisse condannata al pagamento in proprio favore di lit. 712.918.503 a titolo di risarcimento del danno da dequalificazione nonché di una somma - da quantificarsi a mezzo ctu - a titolo di risarcimento da danno biologico.
A sostegno della propria domanda il ricorrente - assunto dalla società resistente con la qualifica di funzionario di 3° grado a seguito di annuncio sul giornale per la ricerca di un responsabile per le relazioni sindacali presso la sede di Roma - ha esposto che aveva avuto difficoltà all'espletamento delle proprie funzioni sin dall'inizio a causa di ostacoli frapposti dall'Istituto; che la situazione è poi peggiorata nel maggio 1979 quando nella carica di responsabile del Servizio del personale subentrò il dr. Questa che assunse in proprio la gestione delle relazioni sindacali; che un ulteriore peggioramento si ebbe (quando, n.d.r.) al dr. Questa subentro l'avv. Boutet il quale assegnò la formazione del personale ad altro dipendente, il dr. Minichella (rectius, Menichella, n.d.r.); che dopo un breve periodo di miglioramento, dall'ottobre 1990 è stato costretto alla più completa inoperosità.
Ritualmente costituitasi in giudizio, la resistente ha a sua volta dedotto la totale infondatezza delle pretese di cui al ricorso e ne ha chiesto il rigetto facendo in particolare rilevare come il posto che il ricorrente doveva ricoprire era quello di 1° addetto specialistico alla trattazione delle relazioni sindacali in assistenza del responsabile del servizio e, soprattutto, come sin dall'inizio il ricorrente manifestò una certa insofferenza al modello organizzativo scelto dall'istituto fino al totale rifiuto di collaborare con l'Azienda. La resistente ha inoltre dedotto come il ricorrente non abbia in alcun modo individuato in concreto il danno all'immagine né il nesso eziologico tra il danno stesso e l'attività lavorativa/demansionamento subito. Ha pertanto concluso per il rigetto della domanda.
Esperita l'istruttoria ammessa ed effettuata consulenza tecnica d'ufficio, in data 13.3.2003 il Giudice ha deciso la causa dando lettura del dispositivo in pubblica udienza .
MOTIVI DELLA DECISIONE
La domanda del ricorrente va parzialmente accolta.
Ritiene il giudicante che l'attenzione vada focalizzata sul periodo che parte dal 1990: ciò sia in quanto lo stesso ricorrente lamenta, in sede di narrativa del ricorso, che è proprio dal 1990 che è stato ridotto a condizioni di totale inoperosità, sia in quanto l'istruttoria svolta ha mostrato, sino al 1990, dati altalenanti e in parte discordanti i quali non consentono di ritenere soddisfatto - con quel grado di sufficiente certezza che Ia giurisprudenza unanimemente richiede - l'adempimento dell'onere probatorio di cui all'art. 2697 c.c..
Il teste Paglione (rectius, Pagliaro, ndr.; cfr. verb. ud. del 12.3.1999) ha ad es. dichiarato che "...nel 1976, quando arrivò Meucci, l'allora dirigente dott. Bollino mi disse che Meucci sarebbe stato le specialista addetto alle relazioni sindacali. Del resto lo steste (stesso teste, n.d.r.) ha affermato che dal 1967 in poi l'Imi si avvale, per la richiesta di pareri ed assistenza legale, di uno studio, senza dunque alcuna menomazione delle attribuzioni del Meucci. Alcuna menomazione emerge, peraltro, anche da altra dichiarazione dello stesso teste il quale ha affermato che - quanto alla formazione del personale - sino al 1980 la formazione aziendale si sostanziava essenzialmente in stage individuali presso istituzioni esterne, aspetti che comunque "...venivano curati dal ricorrente …".
A sua volta il teste Firinu (cfr. ver. ud. del 12.3.1999) ha, da una parte, dichiarato che non sa nulla "...in ordine alla concreta assunzione di Meucci e, soprattutto, in ordine alle mansioni che gli furono prospettate…", dall'altra ha però dichiarato che effettivamente "...a noi sindacalisti dissero che si sarebbe occupato della formazione e che sarebbe stato il responsabile delle Relazioni sindacali.....Tanto poi ho constatato personalmente quelle volte che mi sono recato presso l'ufficio di Meucci e l'ho visto rivolgersi e dare disposizioni alla Tucci, in particolare..". Affermazioni contrastanti, e dunque non del tutto chiare, con quanto affermato successivamente dallo stesso nel corso dell'escussione testimoniale: “nonostante quanto ci era stato detto all'inizio la presenza di Meucci non comportò la presenza di un responsabile delle relazioni sindacali...". Infine, dopo una sene di dichiarazioni che danno conto di una vita lavorativa e di una organizzazione aziendale non del tutto chiara e comunque altalenante, il teste afferma che "...negli anni 90 diventa Direttore generale il dott. Masera il quale convocò noi sindacalisti e disse che il responsabile delle relazioni sindacali, alle sue dirette dipendenze, sarebbe stato Meucci. A partire da allora Meucci operò come filtro per (rectius, fra, n.d.r.) noi sindacalisti e il Direttore generale. Inoltre Masera gli affidò anche la gestione delle risorse, prima affidate a Casale (rectius Corsale, n.d.r.), con relativa struttura di personale....". A questo punto però, il contesto probatorio assume contorni più omogenei: "...dopo due mesi circa all'improvviso, uscì un ordine di servizio in cui si diceva che a Meucci sarebbe subentrato di nuovo Casale (rectius, Corsale, n.d.r.). Ricordo che noi Federdirigenti credito facemmo una duro comunicato sul punto. Nessuna spiegazione ci fu data e i dipendenti gli furono sottratti...". Situazione che collima perfettamente con quanto dichiarato dal ricorrente nella narrativa del ricorso. Ed infatti, prosegue il teste, "... vedendo Meucci depresso ed inoperoso, lo convinsi ad occuparsi del sindacato...a parte ciò il Meucci non aveva più nulla da fare...anche al Dipartimento Operativo Fondi Pensione il Meucci non faceva alcunché…”.
La circostanza che nel 1990 Meucci avesse effettivamente l'incarico di responsabile dell'Ente gestione e relazioni sindacali è stata confermata anche dal teste Schiamone (rectius, Schiavone, n.d.r.; cfr. verb. ud. del 30.9.1999), il quale ha anche dichiarato che "...pertanto il Meucci si occupava dell'applicazione delle normative contrattuali dell'Istituto e del primo livello di interlocuzione con le OO.SS...." . Ed anzi:"...organizzativamente il ricorrente costituiva il primo referente gerarchico di alcuni degli addetti al suo settore, costituendo poi io stesso il referente gerarchico finale ...". Anche la circostanza che nel 1990 qualcosa poi cambiò è stata confermata dallo stesso teste il quale ha dichiarato "...ricordo la riunione del 16.5.1990: ... io stesso e il dott. Berchet (rectius, Brechet, n.d.r.) comunicammo al ricorrente che era stato deciso di utilizzarlo in altri incarichi sempre nell'ambito delle funzioni del personale...".
Ancora, sostanziale concordanza di versione è data dal teste Alfani (cfr. verb. ud. del 30.9.1999, il quale ha confermato che " quando Meucci arrivò in Azienda il dr. Bollino lo presentò agli altri dirigenti sindacali in modo ufficiale quale responsabile delle relazioni sindacali..." , ha poi continuato col riferire una serie di altalenanti episodi che lasciano intravedere, ma non con quella sufficiente certezza idonea all'accoglimento della domanda, una certa sottoutilizzazione del Meucci; ha poi - anche lui - confermato che col dott. Masera ("...ricordo che Masera mi riferì che Meucci concertava con lui le linee di politica sindacale e che si avvaleva di Meucci per l'interpretazione della normativa contrattuale e legale del contratto di lavoro...") la situazione era positiva e che però "...poco tempo dopo Meucci è stato rimosso dall'incarico che con Masera aveva acquisito...avrebbe dovuto occuparsi di consulenza in tema di lavoro, ma ciò non ha fatto o per lo meno lo non ho visto alcuna consulenza...".
Le considerazioni sin qui esposte comportano che deve ritenersi accertata una dequalificazione del ricorrente a partire dal 1990 e sino al 28.2.1997, data di cessazione del rapporto.
Con riferimento alla richiesta di risarcimento del danno connessa a tale dequalifìcazione la domanda va invece rigettata.
Si ricorda che in tema di dequalificazione professionale al primo orientamento giurisprudenziale - che collegava alla violazione ex art. 13 l. 300/70 la sanzione ex art 1418 c.c. e, dunque, l'automatico risarcimento del danno (cfr. in tal senso C. Sez. Un. 1781/81; C. 4041/82) - si e' andato via via sostituendo un orientamento più attento al concreto articolarsi della fattispecie oggetto di giudizio: ritenuto, infatti, che la violazione ex art. 13 l. 300/70 può comportare un danno per il lavoratore il risarcimento è stato ancorato al verificarsi di un danno concreto, sia esso di natura patrimoniale che biologica (cfr. soprattutto C. 8835/1991 e C. 1212/86; C. 3213/92). Tate assunto è stato per la prima esaurientemente esposto ed argomentato da C. 8835/91 la quale ha ragionevolmente sottolineato come la potenzialità dannosa del mutamento in pejus di mansioni non comporta - assiomaticamente e sillogisticamente – il diritto del lavoratore al risarcimento del danno e, dunque, la liquidazione del danno; e ciò neanche quando si parla di liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c. la quale presuppone anch'essa - sempre e comunque - la prova dell'effettiva esistenza del danno. L'argomentazione è ragionevole poiché l'art 1226 c.c. ha la sola funzione di sopperire alle eventuali difficoltà inerenti la quantificazione del danno. Si tratta di assunto peraltro pienamente recepito dalla giurisprudenza di merito, come dimostrano Trib. Roma, 2.6.1994 in Not. Giur. Lav. 1994. 323; Pret. Roma, 3.10.1991 in Riv. Crit. Dir. Lav. 1992, 390 e, già prima, Trib. Potenza 5.6.1991 in Giur. Merito, 1993, 527, Pret. Saronno 8.9.1987 in "Or. Giur. Lav." 1987, 879; Pret. Roma 27.3.1986 in Nuovo Dir., 1986, 989).
Ne consegue che l’accertata violazione dell’art. 13 l. 300/70 non comporta - quale conseguenza indefettibile ed automatica - il risarcimento del danno e che, sotto il profilo processuale, il dipendente che lamenti l'avvenuta dequalificazione deve anche provare che tale condotta datoriale gli ha, in concreto, causato un danno patrimoniale effettivo; gli ha - ad esempio - comportato una mancata progressione in carriera o gli ha danneggiato la vita di relazione. Il danno, cioè deve essere allegato e provato con specifico riferimento a fatti concreti. Né - come già esposto – l’orientamento e l’onere probatorio esposto vengono meno dinanzi ad una valutazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c. ( cfr. sul punto Trib. Roma, 28.2.1990 in Not. giur. lav, 1990, 890; Pret. Milano 28.12.1990, in Riv. it. dir. lav. 1991, III, 388 nonché - per la giurisprudenza di legittimità - C. 2957/86. Tra le poche voci contrarie può ricordarsi la sent. n. 13299/92 ove la Cassazione si e' orientata nel senso di un risarcimento scaturito automaticamente dall’ accertamento della dequalificazione subita: si trattava peraltro di una fattispecie del tutto particolare di un giornalista RAI). Per completezza di motivazione va peraltro evidenziato che il Giudicante è consapevole, pur senza aderirvi, di un recente orientamento della Cassazione il quale ritiene invece che il danno da dequalificazlone sia in re ipsa.
Nel caso di specie il ricorrente - pur dilungandosi ampiamente sui fatti in cui tale dequalificazione si è concretata - nulla ha specificamente provato in ordine ai profili concreti (danni alla carriera, all'immagine) del danno lamentato.
La domanda del ricorrente relativa al danno biologico va invece accolta.
Il ricorrente ha chiesto la condanna della resistente pagamento di una somma a titolo di danno biologico; la domanda va accolta per l'importo di euro 22.488,18 sulla base di quanto accertato dal consulente il quale ha individuato la percentuale invalidante nella misura del 15%.
Si ricorda che la tematica del danno biologico, con riferimento sia all'individuazione della sua esatta natura, sia alla sua risarcibilità, sia infine agli eventuali parametri cui far riferimento per la sua liquidazione, ha formato oggetto di un travagliato iter dottrinale e giurisprudenziale.
La risarcibilità del danno biologico è stata per la prima volta affermata dal Trib. di Genova con sentenza del 25. 5.1974 (in Giur. it. 1975, 1,2, 54), ma il suo concreto, reale affacciarsi nel panorama giurisprudenziale va collegato all'intervento della Corte costituzionale la quale, a partire dagli anni 70 e grazie ad un parallelo impulso ad opera della giurisprudenza di legittimità, ha via via affermato e poi ribadito la necessità di dare tutela piena all'art. 32 Cost.
La Corte ha infatti sottolineato come il diritto alla salute ivi menzionato sia " un diritto primario ed assoluto operante anche nei rapporti tra privati" e ne ha concluso che esso non è suscettibile di alcuna limitazione (cfr. ad es. C. Cost. 87 e 88/89 nonché C. Cost. 184/88).
Ad una iniziale interpretazione restrittiva del diritto alla salute globalmente considerato, la stessa giurisprudenza di legittimità ha peraltro sostituito una interpretazione più ampia comprensiva di tutti gli aspetti psico fisici della persona (tale evoluzione giurisprudenziale si coglie appieno nelle sent. C. Sez. Un. 796/73 e C. Sez. Un. 1463/79 nonché C.3675/81 e, ancora, C. 2396/83; C. 1130/85).
Quanto alla individuazione del suo esatto contenuto, si evidenzia come il danno biologico non si sostanzi esclusivamente nella lesione dell'integrità psicofisica. Come ha infatti efficacemente sostenuto ed argomentato la Corte Cost. nella sua sent. n. 356/91 " ..la considerazione della salute come ..diritto fondamentale dell'individuo nella sua globalità e non solo quale produttore di reddito impone di prendere in considerazione il danno biologico - ai fini del risarcimento - in relazione alla integralità dei suoi riflessi pregiudizievoli rispetto a tutte le attività, situazioni e i rapporti in cui la persona esplica se stessa nella propria vita...". Tale posizione è peraltro stata fatta propria dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr. per tutte C. 8054/94; C. 9725/95; C. 3686/96).
In definitiva, può dirsi ormai acclarato in dottrina e giurisprudenza che il danno biologico costituisce una tipologia di danno integralmente risarcibile di per se stesso (cfr. sul punto soprattutto C. Sez. Un. 796/73 e poi C. 411/90; C. 4243/90 e C. 4412/94) la cui fonte normativa - di garanzia e di tutela - passa in primo luogo per l'art. 32 Cost e in secondo luogo per l'art. 2087 c.c.: va peraltro ricordato come, da ultimo, il legislatore sia intervenuto nella materia e, all’art. 3° c del d.l. 70/2000 (rectius, art.13 del d.lgs. n. 38/2000, n.d.r.) ha definito (restrittivamente) il danno biologico come la lesione all'integrità psico fisica della persona, suscettibile di accertamento medico legale; identica nozione è a sua volta contenuta nell'art. 1 del disegno di legge approvato dal Governo il 4.6.1999 in tema di danno alla persona.
Chiarito quanto sopra, si osserva come la consulenza tecnica effettuata abbia accertato - con argomentazioni scevre da vizi logico-giuridici, che il ricorrente ha riportato, a seguito della dequalificazione professionale subita nel periodo 90/97, un danno alla salute pari al 15% (cfr.ctu in atti).
Resta a dire dei criteri di quantificazione/liquidazione del danno biologico, ma la tematica non è di poco conto stante la natura del danno de quo il quale non si presta ad essere provato nel suo preciso ammontare e che - come ha precisato la Corte Cost. nella sent. 184/86, cit.- va liquidato con criteri equitativi, ex art. 1226 c.c. (sullo specifico punto della insussistenza di elementi sicuri ed attendibili per la determinazione del " valore biologico" dell'uomo cfr. C. 1026/97 e C. 7459/97),
Vari i criteri utilizzati dalla giurisprudenza: c'è infatti chi ha fatto riferimento al triplo della pensione sociale (cfr. Trib. Genova 9.3.1989, in Foro It. Rep. 89, voce Danni civili, n. 152); chi ha fatto riferimento al punto di invalidità determinato dalla media delle somme liquidate in casi analoghi (cfr. Trib. Pisa 4.5.1981, in Foro it. Rep. 83, voce danni civili, n. 89); chi ha fatto riferimento al criterio del reddito medio (cfr. C. 5465/88); chi al criterio equitativo tout court (cfr. Trib. Biella 22.4.1989, in Foro it. 90, I, 3003).
Quale che sia il criterio adottato, ritiene questo Pretore (?, nd.r.) che esigenza fondamentale sia quella di garantire un'omogeneità pecuniaria di base che non consenta una ingiustificata diversificazione di liquidazione, da soggetto a soggetto, in presenza di un stesso tipo di lesione. Si tratta, peraltro, di esigenza già più volte manifestata dalla giurisprudenza (cfr. ad es. Trib. Milano 12.12.90. in Giur. civ. 91, 1158 e ss.), ed ispirata ad un evidente opportunità di non valutare in modo difforme situazioni analoghe.
Si premette che è stato per lo più chiarito dalla recente giurisprudenza (a partire da C. 357/93 e seguita da C. 2009/93; C. 477/96; C. 9725/95; C. 5271/95; C. 10539/94) come non possa essere utilizzato come parametro di riferimento il criterio di cui all'art. 4/3° c. d.l. 23.12.1976 conv. in l. 39/77 - consistente nella liquidazione del triplo dell'ammontare annuo della pensione sociale - e molto usato in passato (a partire da C. 102/85. ma cfr. anche C. 1130/85; C. 2150/89 e, per il merito, Trib. Genova 5.7.1993 in Giur. it. 94, I, 1408): tale posizione giurisprudenziale pare pienamente condivisibile pre (?, n.d.r.), essa ha il pregio di sganciare il genus del danno biologico dal criterio del reddito personale del danneggiato. Tale sganciamento appare necessario proprio alla luce della natura che si è voluta attribuire al danno alla salute/danno biologico e di cui si è fatto cenno: si tratta di danno, e dunque di tutela, che ontologicamente prescindono dalla menomazione della capacità del soggetto di produrre ricchezza sì che improprio appare ogni riferimento al reddito (cfr. sul punto anche C. 357/93; C. 2009/93; C. 10539/94 e C. 5271/95). A ciò si aggiunga che tale criterio mal si adatta a tutti quei casi in cui non vi sia prova di una concreta riduzione del reddito conseguente al danno. In sostanza, sembra più consono al danno biologico un riferimento al danno della sfera non patrimoniale intesa come coacervo e manifestazione, di tutti i valori personali dell'individuo .
Conseguentemente, ritiene questo giudicante di adottare il criterio dell'attribuzione di una determinata somma di denaro per ogni punto di invalidità, permanente o temporanea, accertata dovendo poi valutare, caso per caso, se tale attribuzione necessiti di ulteriori aggiustamenti, in eccesso o in difetto, a seconda delle caratteristiche concrete del caso in esame: si pensi ad es. al peso che, nella singola fattispecie, possono rivestire l'età, le condizioni sociali del danneggiato, la gravità delle lesioni riportate ecc. ). In proposito ci si è avvalsi delle tabelle elaborate ed utilizzate in materia dal Tribunale di Roma (1996).
Spese di lite liquidate secondo la soccombenza.
Roma, 13.3.2003
(depositata il 15.9.2003)
 
Il Cancelliere
Rita Ceci
Il Giudice
M.E.F.

N.B.

Per completezza va detto che il magistrato - dopo essere stato, durante le udienze dal 1996 al 2003, da noi "foraggiato" senza successo (e del tutto incomprensibilmente...) dal deposito di numerose sentenze di Cassazione di segno contrario a quanto espresso nel settembre 2003 nei nostri confronti (ove asserisce: "va peraltro evidenziato che il Giudicante è consapevole, pur senza aderirvi, di un recente orientamento della Cassazione..." invero risalente al 1992, sic!) - un anno e due mesi dopo la redazione della sentenza per noi beffarda, riteneva di mutare orientamento ed in una causa per demansionamento analoga alla nostra, con sua sentenza del 6.12.2004, "virava di bordo" cioè modificava il proprio orientamento negatore e accordava al ricorrente un indennizzo (pur sempre del tutto esiguo) per danno alla professionalità, parametrato al 30% della retribuzione percepita lungo l'arco del lungo demansionamento (11 anni), pari alla somma di 174.500,00 euro circa. Così argomentando: «Con riferimento  alla  richiesta   di   risarcimento   del   danno  connessa  a  tale dequalificazione la domanda va altresì accolta nei limiti di seguito indicati. Si ricorda che in tema di dequalificazione professionale al primo orientamento giurisprudenziale - che collegava alla violazione ex art. 13 L. 300/70 la sanzione ex art 1418 c.c. e, dunque, l’automatico risarcimento del danno (cfr. in tal senso C. Sez. Un. 1781/81; C. 4041/82) - si e' andato via via sostituendo un orientamento più attento al concreto articolarsi della fattispecie oggetto di giudizio; ritenuto, infatti, che la violazione ex art. 13 l. 300/70 può comportare un danno per il lavoratore il risarcimento e' stato ancorato al verificarsi di un danno concreto, sia esso di natura patrimoniale che biologica. (cfr. soprattutto C. 8835/1991 e C. 1212/86; C. 3213/92). Tale assunto è stato per  la  prima esaurientemente esposto ed argomentato da C. 8835/91 la quale ha ragionevolmente sottolineato come la potenzialità dannosa del mutamento in pejus di mansioni non comporta - assiomaticamente e sillogisticamente - il diritto del lavoratore al risarcimento del danno e, dunque, la liquidazione del danno; e ciò neanche quando si parla di liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c. la quale presuppone anch'essa - sempre e comunque - la prova dell'effettiva esistenza del danno. Si trattava di assunto peraltro pienamente recepito dalla giurisprudenza di merito, come dimostrano Trib. Roma, 2.6.1994 in Not. Giur. Lav. 1994, 323; Pret. Roma, 3.10.1991 in Riv. Crt. Dir. Lav. 1992, 390 e, già prima, Trib. Potenza 5.6.1991 in Giur. Merito, 1993, 527, Pret. Saronno 8.9.1987 in “Or. Giur. Lav.” 1987, 879; Pret Roma 27.3.1986 in Nuovo Dir., 1986, 989). Più di recente (sic!, nd.r.) la giurisprudenza della Corte di cassazione si è tuttavia nuovamente orientata nel senso che tale tipo di danno è espressione della lesione dell'interesse costituzionalmente protetto dall'art. 2 della cost. e cioè del diritto del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità sul posto di lavoro secondo le mansioni attribuite: ne consegue che ad essa consegue il diritto al risarcimento (cfr. ad es. C. 10/2002 e 10157/2004) che può essere quantificato economicamente anche in via equitativa (cfr. sul punto Trib. Roma, 28.2.1990 in Not giur. lav. 1990, 690; Pret. Milano 28.12.1990, in Riv. it. dir. lav. 1991, II, 388. Si ricorda in particolare la sent. C. n. 13299/92 ove la Cassazione si era già allora orientata nel senso di un risarcimento scaturito automaticamente dall’accertamento della dequalificazione subita).Venendo ora al profilo della quantificazione economica del danno connesso alla dequalifìcazione, si osserva che una valutazione equitativa dello stesso non può che prendere le mosse dalle retribuzioni percepite dal ricorrente negli anni in questione:(omissis) Pare tuttavia equo al Giudicante indicare la somma dovuta a titolo di risarcimento nella misura del 30% della retribuzione totale e pari a euro 174.495,70: tanto sopra in considerazione del fatto, da una parte, che un risarcimento pari al 100% dell'importo totale, come richiesto dal ricorrente, costituirebbe una vera e propria duplicazione di pagamento e, dall’altra, che il ricorrente indubbiamente era afflitto da una serie di patologie (omissis) atte ad incidere sulle proprie capacità lavorative».
Ogni commento ci appare superfluo!
LE TESTIMONIANZE ASSERITAMENTE "ALTALENANTI" (rectius, TRAVISATE)

 

TRASCRIZIONE DEI VERBALI DELLE UDIENZE NELLA CAUSA MEUCCI MARIO

c. ISTITUTO MOBILIARE ITALIANO SPA

 

PRETURA DI ROMA- Sezione 6° Lavoro

Verbale di Udienza del 28 novembre 1997

Avanti al Pretore Dott. F. assistito dal sottoscritto Segretario e Coadiutore è stata  chiamata la causa

MEUCCI Mario c. IMI

E’ presente il ricorrente assistito dai suoi procuratori, è altresì presente l’IMI nella persona del Dott. Gaetano Lama procuratore speciale come da procura per atto Notaio Carlucci del 6.11.’97 rep. 42230 che deposita in originale, assistito dal suo procuratore.

Si dà atto che il tentativo di conciliazione non riesce.

Si dà atto, ai fini della pratica forense, della presenza della Dott. Bianca Passalacqua.

L’avv. Persi chiede rinvio per poter meglio precisare, per iscritto, alcune repliche in ordine a quanto dedotto in comparsa. L’avv. Scognamiglio chiede altresì termine per note.

Il Pretore

rinvia al 17.4.’98 h.12 con termine per il deposito di dette note al 30.3.’98.

Il Pretore

(firma)

 

Udienza del 17.4.’98. Sono presenti il ricorrente assistito dagli avv.ti Persi e Fassari nonché l’IMI nella persona di G. Lama, già individuato in atti, assistito dal suo procuratore.

Il Pretore

Ammette i capp. 1.6, 1.8, 2.2, 2.4; 2.6; 2.7; 2.8; 2.11; 2.12; 2.14; 3.2; 3.3; 3.4; 3.7; 3.9; 4.8/C; 4.9; 4.10; 4.12; 5.1; 5.2; 5.7; 5.9 del ricorso.

Non ammette i restanti perché pacifici, e/o documentali e/o irrilevanti.

Ammette altresì i capp. 4, 10, 11, 13, 14, 15, 21, 22, 23, 25, 27 della comparsa.

Ammette altresì le prove contrarie.

Riservatosi ogni provvedimento istruttorio, il

Pretore

rinvia, per l’escussione di due testi per parte, al 12.3.’99 h.12.

Il Pretore

  (firma)

All’udienza 12.3.’99  sono presenti il ric. assistito dai suoi avvocati. Per il conv. è presente in sost. dell’avv. R. Scognamiglio l’avv. C. Scognamiglio.

Viene introdotto un teste (per l’IMI, n.d.r.) che si impegna e dichiara:

“Sono Pagliaro Massimo n. in Roma 26.12.’40 ivi res. V. A. Solario 86. Dipendente IMI. Indifferente.

ADR - Lavoro all'IMI dal '67 ed ho lavorato a stretto contatto con il ricorrente dal '76 all’84.  In questo periodo abbiamo lavorato al Servizio del Personale.

ADR - Si trattava di un ufficio privo di una vera e propria struttura ma con un dirigente. Io sono stato il primo che ha iniziato a svolgere le funzioni di direzione.

ADR - Nel 1976, quando arrivò Meucci, l'allora dirigente (Dr.  Bollino) mi disse che Meucci sarebbe stato lo specialista addetto alle relazioni sindacali.  Meucci, peraltro, non aveva una propria struttura, non avendone, peraltro, neanche io una. Ciò è tanto vero che dal '71 al '76 io coprii l'inizio delle operazioni sindacali da solo.

ADR - Giorgio Questa fu il direttore del personale che succedette al Bollino. E ricordo che Questa accentrò ulteriormente su di sé le funzioni di tutta la direzione del personale.  Pertanto partecipava personalmente agli incontri con i rappresentanti dei lavoratori di volta in volta affiancato da altri dipendenti (io, Meucci, Corsale, ecc.) del Servizio a seconda dell'oggetto trattato e della sua complessità.

ADR - Lama fu assunto proprio da Questa, proprio per esigenze di contenzioso del personale.

ADR - Quello che faceva Lama era in precedenza stato fatto da me, mai dal Meucci, almeno che io sappia.

ADR - Dal '67 in poi l’IMI si avvale, per la richiesta di pareri ed assistenza legale, di uno studio esterno.

ADR - Dal '68 sino agli anni '80 circa, di fatto il Dirigente inviava un addetto del personale (di volta in volta prescelto) alle riunioni (in Assicredito, n.d.r.) in cui dovesse essere presente in qualche modo anche l'IMI. Io, per esempio, sono andato molte volte, ma non saprei dire di Meucci.  Non c'era comunque una designazione formale, né per me né per Meucci.  Solo a partire dagli anni '80 circa si è provveduto alla designazione formale (ad es. Dott  Menichella).

ADR - La Dr. sa Querini si occupava delle pre-selezioni e che io sappia ha sempre collaborato con il dr. Corsale. Collaborava con Meucci limitatamente alle attività amministrative di supporto alla formazione.

ADR - Confermo che sino al 1980 la formazione aziendale si sostanziava essenzialmente in stage individuali presso istituzioni esterne e in corsi, aperti a tutto il personale ed aventi oggetto generale e generico, in esecuzione della contrattazione collettiva. Si trattava di argomenti di carattere del tutto generale.

ADR - Dopo il 1980 la formazione aziendale ha subito una rivoluzione su proposta del Dr. Questa il quale propose l'individuazione di particolari figure professionali (ad es. l'ispettore amm.vo) la cui professionalità assicurare mediante una formazione mirata e altamente specializzata.

L'individuazione di cui ho detto fu operata da Questa insieme ad altri dirigenti.

ADR- Confermo l'ultima parte del cap. 14 della comparsa che mi viene letto (a partire da l'opportunità di adibire). (Tale parte del cap. 14 afferma che si era reso opportuno adibire alle iniziative di formazione una specifica “risorsa” sia  in ragione della particolare importanza che essa aveva acquisto a seguito delle riferite  innovazioni sia in prospettiva di un consistente sviluppo della formazione medesima, n.d.r.).

ADR - Prima del 1980 il Meucci, nella sua attività connessa alla formazione aziendale, non valutava preventivamente e sistematicamente i bisogni formativi dell'azienda, bensì soddisfaceva le esigenze di volta in volta manifestate.

ADR - Nulla so in ordine alle mansioni di Meucci dopo il 1984.

ADR - Ricordo che Meucci non era soddisfatto del ruolo ricoperto, anzi per così dire "cercava un ruolo". Tanto so perché mi diceva lo stesso Meucci.

ADR - Non riconosco la struttura del Settore gestione del personale così come descritta a pg. 3 del doc. 44 (fasc. ric.) che mi viene mostrato.

L.C.S

(firmato M. Pagliaro)

 

Viene introdotto altro teste (per Meucci, n.d.r.) il quale, letta la formula di rito, dichiara: Sono FIRINU Bachisio n. a Cagliari il 7.1.’43, res. a Roma via Eschilo 165 funzionario IMI.Indifferente.

ADR - Lavoro all'IMI dal 1965.  Ho avuto contatti col ricorrente, sul posto di lavoro, poiché sono stato per anni sindacalista (dagli anni '70) e dunque avevo rapporti con l'Ufficio del Personale. Non ho mai lavorato però nello stesso ufficio/settore del ricorrente.

ADR - Prima dell'inserimento in azienda di Meucci ricordo che il Capo del Personale (dott.Bollino) ci preannunciò l'arrivo di un grosso esperto in materia giuslavoristica; arrivo che avrebbe dovuto costituire una svolta nell'ambito delle Relazioni sindacali. Tale persona avrebbe dovuto costituire, per i sindacati aziendali, il punto tassativo di riferimento.

ADR - Non so nulla in ordine alla concreta assunzione di Meucci e, soprattutto, in ordine alle mansioni che gli furono prospettate. A noi sindacalisti dissero che si sarebbe occupato della formazione e che sarebbe stato il responsabile delle Relazioni sindacali.

ADR - In seguito ci fu anche detto, sempre da Bollino, che Meucci sarebbe stato adiuvato dalla dott.sa Querini, per la formazione, nonché da una segretaria, tale Tucci poi sostituita.  Tanto poi ho constatato personalmente quelle volte che mi sono recato presso l'ufficio di Meucci e l'ho visto rivolgersi e dare disposizioni alla Tucci, in particolare.

ADR - Confermo il cap. 2.2 del ricorso che mi viene letto specificando che la novità introdotta dal 1985 consisteva nella figura del capoarea (essendo state per l'appunto create le Aree) il quale fungeva da filtro tra il Servizio del Personale ed il Direttore Generale.

ADR - Nonostante quanto ci era stato detto all'inizio la presenza del Meucci non comportò la presenza di un responsabile delle Relazioni sindacali, tant'è che c'era chi faceva riferimento, come organizzazione sindacale, a Pagliaro, e chi al Vice Direttore Generale Angeloni. E infatti ci rendemmo conto che Meucci non sapeva nulla di nulla; addirittura a volte ero io che gli passavo informazioni sulla vita aziendale. Non saprei dire come e chi abbia generato tale situazione.

ADR - Sta di fatto che noi sindacalisti ci lamentammo, più volte, anche per iscritto, col Capo del Personale (Bollino, Questa, Buté, ecc.) di tale situazione. Conseguentemente, i vari rappresentanti sindacali interni iniziarono a scavalcare il Meucci.

ADR - Il Dr. Questa, dirigente capo del Personale a partire dagli anni '80, peggiorò la situazione perché accentrò su di sé, di fatto, anche le relazioni sindacali.

Io stesso ebbi da allora più volte accesso diretto al Capo del Personale per questioni inerenti le relazioni sindacali senza che vi fosse il Meucci. Meucci però ci telefonava per avvisarci degli incontri sindacali.

ADR - Dopo l'arrivo di Questa, responsabile della formazione divenne - al posto di Meucci - Menichella e pertanto la dott. sa Querini e la segretaria che prima collaborava con Meucci passarono a Menichella. Anzi, mi correggo, mi pare che una segretaria Meucci abbia continuato ad averla.

ADR - Non mi risulta che Meucci abbia mai partecipato a commissioni costituite presso Enti, Menichella, al contrario, ci andava.  E così anche Pagliaro (per l'Assicredito).

ADR - Nulla so di eventuali rapporti di Meucci con legali esterni.

ADR - Pagliaro era un funzionario del Personale ma di fatto si occupava di tutto, soprattutto nei rapporti con i sindacati, anche nelle trattative.

ADR - Nulla so in ordine al cap. 2.14 del ricorso. So comunque che Meucci non faceva parte di quella Commissione.

ADR - Al dr. Questa subentrò l'avv.  Boutet e la situazione di Meucci subì ulteriori variazioni.

ADR - Nulla so in ordine al cap. 3.3. del ricorso salvo confermare che Boutet tendeva ad avere rapporti diretti con i sindacalisti.

ADR - Mi risulta che al Meucci veniva in effetti chiesto qualche parere in tema sindacale; così lui  mi ha detto e io stesso ho visto.

ADR - Effettivamente le mansioni svolte dal Meucci si ridussero a quelle menzionate nel cap. 3.7 del ricorso (salvo il penultimo punto), tant'è che oggi le stesse funzioni vengono svolte da una segretaria.  In sede di incontri sindacali il Meucci si limitava a scrivere, verbalizzare o - addirittura - leggere il comunicato. (Il Cap. 3.7- escluso il penultimo punto d) -  afferma che il Meucci era stato adibito a mansioni quasi esclusivamente esecutive, consistenti a) nelle convocazioni telefoniche alle OO.SS degli orari e date degli incontri sindacali con l’azienda;b) nella ricezione dei comunicati sindacali;c) nel controllo contabile dei contributi sindacali spettanti alle OO.SS; d)… ;e) nella partecipazione ogni 4 anni c.a. alle trattative per la stipula del CIA, circoscritto alle poche tematiche di rinvio dal  contratto nazionale, nd.r.).

ADR - Meucci si lamentava di tale situazione, non so se l'abbia fatto anche con i vertici aziendali.

ADR - Non saprei cosa facesse o dovesse fare la dott. Mancini.

ADR - Negli anni 90 diventa Direttore Generale tale Dott.  Masera il quale convocò noi sindacalisti  e ci disse che il Responsabile delle Relazioni sindacali, alle sue dirette dipendenze, sarebbe stato Meucci.  A partire da allora Meucci operò come filtro fra noi sindacalisti ed il Direttore Generale.

ADR - Inoltre Masera gli affidò anche la gestione delle risorse, prima affidata a Corsale, con relativa struttura di personale (dipendenti diretti da Meucci).  Dopo due mesi circa all'improvviso uscì un ordine di servizio in cui si diceva che a Meucci sarebbe subentrato di nuovo Corsale. Ricordo che noi Federdirigenti credito facemmo un duro comunicato sul punto. Nessuna spiegazione fu mai data e i dipendenti gli furono sottratti.

ADR - Nulla so in ordine alla riunione dei 16.5.90.

ADR - A seguito di ciò io stesso, vedendo Meucci depresso e inoperoso, lo convinsi ad occuparsi del sindacato e anzi di tanto ringraziammo pubblicamente il Dr. Masera.

A parte ciò il Meucci non aveva più nulla da fare.

ADR - Confermo che, come da apposito ordine di servizio, Meucci non fece parte del comitato per il coordinamento delle politiche del personale di Gruppo.

ADR - Nulla so in ordine al punto 5.7 dei ricorso.

ADR - Da quello che ho visto io, anche al Dipartimento Operativo Fondi Pensione il Meucci non faceva alcunché; a parte “piccole cose”: così mi riferiva.

ADR - Pagliaro aveva una sua struttura organizzativa di personale, almeno di fatto.

ADR - Avevo contatti quotidiani col Meucci.

L.C.S.

 (firmato Bachisio Firinu)

Si dà atto per la pratica forense della presenza del dott. Massimi Francesco.

E’ inoltre presente il convenuto nella persona del procuratore speciale, dott. Lama, ora in virtù di procura ex art. 320 c.p.c. del 10.3.’99 per atti Notaio D. Balzoni rep. 73763 che deposita in originale, rilasciata dal legale rappresentante del S. Paolo di Torino che ha incorporato l’Imi. L’avv. Scognamiglio deposita originale della procura speciale ad litem rilasciatagli dal legale rappresentante del S. Paolo Imi giusta atto Not. Balzoni del 10.3.’99 rep. 73764.

Il Pretore

Rinvia al 30 9.’99 h. 11 per l’audizione di un teste per parte.

Il Pretore

 (firma)

 

Udienza del 30.9.’99 sono presenti: Il ricorrente assistito dai suoi avvocati  ed il resistente assistito dal suo avvocato. E’ altresì presente, ai fini della pratica forense, il Dr. Francesco Massimi.

Viene introdotto il teste (per l’IMI, n.d.r.) il quale, lette le formule di rito, dichiara: “Nicola Schiavone, n. a Milano il 23.6.1954, res. a Roma Via Padre Angelo Paoli 88. Dirigente industriale. Indifferente.

ADR - Sono stato dirigente presso l’IMI dal 1.3.’90 al 31.12.’90, con incarico di Capo Servizio del Personale.

ADR - Prima del 1990 non lavoravo presso l’IMI e dunque nulla so.

ADR - Sono stato superiore gerarchico del ricorrente ed ho pertanto constatato personalmente che nel 1990  aveva l’incarico di responsabile dell’Ente Gestione e Relazioni sindacali. Pertanto Meucci si occupava dell’applicazione delle normative contrattuali e del primo livello di interlocuzione con le OO.SS. La supervisione e l’indirizzo della gestione e della negoziazione con i sindacati erano di mia competenza. Organizzativamente il ricorrente costituiva il primo referente gerarchico di alcuni degli addetti al suo settore, costituendo proprio io stesso il referente gerarchico finale. Che io sappia Meucci non ha mai effettuato, né gli è stato mai richiesto, studi di progetti per l’attribuzione di incarichi e/o studi relativi a sistemi di incentivazione e/o di promozione.

Anzi, con riferimento a quest’ultimo, l’incarico di sviluppare uno studio avente ad oggetto specifico le progressioni di carriera e i sistemi di incentivazione contributiva fu affidato a me personalmente ed io me ne occupai avvalendomi anche, previe autorizzazioni dell’IMI, di consulenti esterni.

ADR - Ricordo che nel corso dell’anno in cui sono stato superiore gerarchico del Meucci si sono verificati più episodi di mancate informazioni da parte del ricorrente nei miei confronti, di incontri con i sindacati su temi che per loro natura avrebbero necessitato di previa e successiva informazione nei miei confronti; si sono inoltre verificate occasioni in cui – pur avendo io e il Meucci convenuto determinate modalità di contatto con i sindacati – il ricorrente ha seguito modalità diverse da quelle concordate. Infine si sono verificate occasioni in cui alcuni rappresentanti sindacali mi hanno riferito di affermazioni/considerazioni fatte dal Meucci in ordine a temi che non avrebbero dovuto essere esplicitati con le OO.SS. Ad esempio ricordo che il Meucci riferì ad alcuni esponenti sindacali valutazioni di dirigenti IMI fatte o dal Direttore Generale o da dirigenti della funzione del personale.

ADR - Gli episodi di cui ho detto si sono verificati sistematicamente nel periodo in cui il Meucci è stato responsabile del Settore Gestione risorse e relazioni sindacali dal mio arrivo (1.3.90) al 17.5.1990; con riferimento invece al periodo 17.5.90 al dicembre ’90 ho potuto constatare solo sporadici episodi di trasferimento di valutazioni.

ADR - Non ricordo fatti e/o episodi circostanziati o riferibili a persone precise esemplificativi degli atteggiamenti del ricorrente appena descritti.

ADR - Ho più volte fatto presente al Meucci di non gradire gli atteggiamenti e i comportamenti da lui tenuti nelle occasioni di cui ho appena parlato; che io sappia però non sono stati adottati provvedimenti disciplinari per il periodo interessato.

ADR -  Nel periodo marzo-maggio 1990 escludo che vi siano state indicazioni mie o di altri dirigenti del personale dirette a richiedere o a consentire incontri tra il Meucci e il Direttore Generale in ordine a linee di politiche sindacali e relative attuazioni. Quanto ho detto è riferito anche alle problematiche di gestione delle risorse.

ADR - Ricordo la riunione del 16.5.’90: nel corso della stessa l’avv. Fioravanti, io stesso ed il Dr. Brechet comunicarono al ricorrente che era stato deciso di utilizzarlo in altri incarichi sempre nell’ambito della funzione del personale.

L.C.S.

(firmato Nicola Schiavone)

 

Viene introdotto altro teste (per il Meucci, n.d.r.), che lette le formule di rito, dichiara :”Rubino Alfani, n. a Milano il 3.3.’39, res. a Roma Via Girolamo Fracastoro, n.2. Dirigente sindacale. Indifferente.”.

ADR - Sono Dirigente sindacale IMI dal 1971 a tutt’oggi. Preciso però che io, dipendente IMI, sono distaccato presso la centrale Confederale CISL dal 1990, a via Po 21. Anzi preciso che dal giugno 1973 al giugno 1985 non sono stato presso l’IMI in quanto distaccato quale segretario FIBA CISL del Lazio. Dal 1985 al 1990 sono stato invece prevalentemente all’IMI, però continuando a svolgere attività sindacale.

ADR -Nel periodo 1976-1985 e 1990-1996 mi recavo in Viale dell’Arte 25, dove lavorava Meucci, con una frequenza approssimativa di una volta a settimana. Nel periodo 1985-1990 la mia frequenza invece era pressoché quotidiana.

ADR - Preciso comunque che tutto ciò che accadeva in termini di relazioni sindacali era da me conosciuto.

ADR - Non sono a conoscenza di un colloquio, precedente all’assunzione del Meucci, in cui Gastone Bollino avrebbe spiegato a quest’ultimo cosa avrebbe dovuto fare presso l’IMI. So solo che Bollino G. chiamò me ed altro D. Sindacale comunicandoci che – al fine di dar maggiore rigore e professionalità alle relazioni sindacali in ambito IMI – sarebbe stato assunto, su disposizione del Presidente Cappon, un professionista reperito sul mercato. Costui avrebbe dovuto diventare responsabile delle relazioni sindacali e primo diretto interlocutore. Mai fu però fatto il nome di alcuno.

ADR - Confermo pienamente il capitolo 1 di cui al punto 8 di cui mi viene data lettura.(Il cap. 1.8 afferma che era stata assegnata a supporto del Meucci, per lo svolgimento delle mansioni pattuite, la Dr.sa Querini e una dattilografa/segretaria a rotazione, prima Sig.na Tucci, poi Lizzul, poi De Gregori, n.d.r.).

ADR - Quando Meucci arrivò in Azienda il dr. Bollino lo presentò agli altri Dirigenti sindacali in modo ufficiale quale responsabile delle relazioni sindacali. Io però quel giorno non ero presente.

ADR - Mi fu riferito che nel corso di questa riunione ufficiale fu anche detto che si sarebbe anche finalmente proceduto all’assunzione di personale di (con, n.d.r.) più rigorosi sistemi selettivi e formativi.

ADR - Nel 1986 (1976, n.d.r.) il Servizio del Personale faceva capo direttamente al D. Generale. Nel 1985 il servizio del Personale non aveva più un rapporto diretto con il D. Generale bensì con uno dei quattro Vice Direttori Generali (Segretario Generale) preposto all’area legale ed affari generali.

ADR - Negli anni successivi alla sua assunzione mi ha raccontato di una sua “sottoutilizzazione” nel senso che riteneva di non svolgere il suo ruolo.

ADR - Di fatto (per, n.d.r.) noi rappresentanti sindacali Meucci non era  il nostro diretto interlocutore e quindi  ci rivolgevamo direttamente a Bollino, per la trattazione dei temi concreti in materia sindacale.

ADR - Constatai dunque io stesso che Meucci non aveva un suo ruolo e che il suo ufficio si occupava di questioni pratiche di poco conto.

ADR - Quando nella carica di responsabile del servizio del personale, subentrò Questa Meucci non fece più nulla. Meucci controllava i permessi sindacali e comunque escludo, durante la gestione Questa, abbia avuto alcun incontro con i Dirigenti Sindacali.

ADR - Il nostro interlocutore era solo il Dr. Questa, e per un brevissimo periodo c’era ancora Pagliaro che lo affiancava.

ADR - Ricordo che nelle riunioni sindacali c’era Questa affiancato da Pagliaro e poi Meucci che prendeva appunti per suo conto estranei al verbale delle riunioni stesse.

ADR - Anche Pagliaro si limitava ad affiancare Questa il quale rimaneva l’unico a prendere ogni decisione.

ADR - Ricordo la commissione di inquadramento del personale del CIA del gennaio 1981: segretario della stessa fu nominato Pagliaro e non Meucci perché il primo e non il secondo godeva di un rapporto fiduciario con Questa.

ADR - A Questa subentrò il Dr. Boutet che affidò la selezione del personale laureato al Dr. Menichella e quella del personale inferiore alla Dr. Querini.

ADR - Subentrato Boutet il disagio di Meucci divenne palese; ricordo specificamente di una riunione nel corso della quale il Dr. Meucci  provò, infruttuosamente, ad intervenire.

ADR - Ricordo di un episodio specifico in cui a Meucci fu richiesto un parere circa un provvedimento disciplinare e Saracini, Direttore Generale IMI, mi chiamò dicendomi che il parere prodotto da Meucci era “di uno fuori dal mondo”.(Purtroppo non è stata verbalizzata  la causale di tale affermazione del Direttore Generale – invero ben esplicitata dal teste Alfani – consistente nell’avversione di Saracini alla proposta di Meucci di un provvedimento disciplinare”leggero” di sospensione per 10 gg. in luogo del licenziamento auspicato dal Saracini che gli avrebbe risolto il problema della permanenza in azienda del sindacalista oggetto di procedura disciplinare, n.d.r.).

ADR - Confermo il capitolo 3.7 del ricorso che mi viene letto.(Il cap.3.7 afferma che il Meucci è stato adibito a mansioni quasi esclusivamente esecutive, consistenti a) nelle convocazioni telefoniche alle OO.SS degli orari e date degli incontri sindacali con l’azienda;b) nella ricezione dei comunicati sindacali;c) nel controllo contabile dei contributi sindacali spettanti alle OO.SS; d) nell’esame di questioni giuridiche di ridotta rilevanza;e) nella partecipazione ogni 4 anni c.a. alle trattative per la stipula del CIA, circoscritto alle poche tematiche di rinvio dal  contratto nazionale, nd.r.)

ADR - Il malessere di Meucci per la sua sottoutilizzazione fu riportato anche da una sua lettera inviata a noi sindacati in cui chiedeva di affiggere in bacheca il bando della sua assunzione. A seguito della nostra affissione  del bando Saracini ci chiamò e mi disse che la situazione andava risolta.

ADR - Con la presenza di Masera, D. Generale IMI a partire dal 1981 (1988, n.d.r.), a Boutet subentrò quale capo del Personale l’avv. Azzena.

ADR - Ricordo  che Masera mi riferì che Meucci concertava con lui le linee di politica sindacale e che si avvaleva di Meucci per l’interpretazione della normativa legale e contrattuale del contratto di lavoro. Mi disse anche che gli aveva affidato l’incarico di procedere ad una bozza di attribuzione di incarichi e dei sistemi di incentivazione/promozione.

ADR - Poco tempo dopo  Meucci è stato rimosso dall’incarico che con Masera aveva acquisito: è cambiato l’organigramma del servizio gestito da Meucci. Inoltre il ricorrente è stato privato di 4/5 collaboratori correlati agli incarichi che aveva avuto.

ADR - A seguito di ciò fu definito dal Capo del personale successivo, tale Musetti, titolare di un rapporto di STAFF: avrebbe cioè dovuto occuparsi di consulenza in tema di lavoro ma ciò non ha fatto o perlomeno io non ho visto alcuna consulenza.

ADR - Nulla so in ordine al punto 5.7 del ricorso.(Il punto 5.7 riferisce della prospettazione di un incarico presso una costituenda  Azienda Consociata informatica, Imitec, previa risoluzione del rapporto con l’IMI, abbandono dell’incarico sindacale, ecc. n.d.r.)

ADR - Ricordo che un giorno fui informato del fatto che Meucci era stato mandato nell’area Finanza all’8 ° piano, dove avrebbe dovuto occuparsi dei fondi pensione integrative che l’IMI avrebbe potuto offrire al mercato.

ADR - Di fatto ho constatato che di ciò si occupava il Dr. Berlanda. Non so dire di cosa il Meucci concretamente si occupasse.

ADR - Con Masera Meucci prendeva parte attiva alle riunioni sindacali fungendo da vero e proprio interlocutore.

ADR - Ricordo che quando Meucci fu rimosso dall’incarico nel settore relazioni sindacali, ciò avvenne a seguito di una lettera con cui l’avv. De Gregorio (addetto pratiche SIR presso l’IMI)  e responsabile della RSA FABI chiedeva la rimozione di Meucci perché inaffidabile in quanto iscritto ad una organizzazione professionale (denominata Federdirigenti).

ADR - Quanto sopra mi fu raccontato, sia  pur velatamente, dal Dr. Masera.

L.C.S  

(firmato Rubino Alfani)

Il Giudice

rinvia per l’escussione di un teste di parte resistente per il periodo 83/89 e di un teste per il periodo 91- 95.

L’avv. Persi chiede di poter essere ammesso all’escussione di due testi di parte ricorrente.

Inoltre chiede che voglia ordinarsi alla resistente la produzione della documentazione di cui al punto 3, pag. 68, del ricorso.

Il Giudice

riservandosi in ordine a qualsivoglia provvedimento istruttorio, rinvia al 12/5/2000, h. 11,30.

 

Il collaboratore

Il giudice

(firma)

 (firma)

 

 

Udienza del 12/5/2000:sono presenti il ricorrente assistito dagli avvocati Fassari e Persi; per parte convenuta è presente il Proc. Spec. Avv. G. Lama assistito dall’Avv. Porcelli in sost. Avv. Scognamiglio.

Viene introdotto (per l’IMI, n.d.r.) il teste (relativamente al periodo 1989) che lette le formule di rito dichiara: “Giorgio Brescié (Brechet, n.d.r.) n.  Roma 12.5.’38, res. Roma, Via Baldovinetti n.24. Pensionato. Indifferente.

ADR – Ho lavorato presso l’IMI dal giugno del 1964 al settembre 1997. Dalla fine del 1983 alla fine del 1985 sono stato responsabile del settore Grandi  Crediti all’industria alimentare; sino al novembre 1989 sono stato Direttore Generale presso una Banca del Gruppo IMI a Milano.

 

L.C.S.

 (firma Giorgio Brechet)

Viene introdotto (per l’IMI, n.d.r.) altro teste che, lette le formule di rito, dichiara: “ Umberto Musetti n. Piombino 24/5/51 res. Roma Via Caio Mario n. 7 . Dirigente di Azienda. Indifferente.

ADR -  Lavoro all’Imi dal marzo 1991.

Dal Marzo 1991 all’ottobre 1998 sono stato responsabile  del servizio del personale. In tale periodo Meucci lavorava al servizio del personale e io sono il suo diretto superiore gerarchico.

ADR – Quando arrivai all’IMI  era stata appena (nel 1990) (effettuata, n.d.r.) una sorta di ristrutturazione che aveva comportato una redistribuzione degli incarichi e relative responsabilità. A seguito di ciò lo stesso Meucci, responsabile dei rapporti con il sindacato, era stato assegnato/rimosso alla posizione di staff al responsabile del servizio nel senso che  dipendeva direttamente da me, non aveva una struttura organizzativa che facesse direttamente capo a lui, che prendeva incarichi di volta in volta da me. Si trattava di incarichi legati alle competenze giuslavoristiche del Meucci e comunque compatibili con la carica sindacale da lui stesso rivestita.

ADR – Ricordo ad esempio di averlo incaricato di volere approfondire aspetti connessi all’applicazione di una normativa negoziale ad una società del Gruppo, al momento non ne ricordo altri. Effettivamente ricordo che il Meucci assolse l’incarico da me affidatogli.

ADR – Ricordo che non appena giunto all’IMI ebbi dei colloqui individuali con tutti i responsabili dei settori che facevano capo a me, in tale occasione il Meucci mi rappresentò il disagio che gli derivava da una situazione di tensione, per altro già precedente, con l’Azienda stessa.

ADR – Preso atto di ciò tentai di attivarmi per trovare una collocazione diversa al Meucci in ambito del gruppo IMI.

ADR –Non ricordo che il Meucci abbia mai mancato di ottemperare a qualche singolo e concreto incarico da me affidatogli. Ricordo solo questa evidente situazione di disagio.

ADR -  Ricordo che Meucci era spesso assente per malattia tant’è che trovai anche delle difficoltà a programmare una sua attività lavorativa continua stanti le sue frequenti assenze.

ADR – Ricordo che verso la fine del 1991 il vice Direttore Generale dell’IMI, dr. Martino, propose, in un colloquio individuale, al Meucci di divenire responsabile dell’ufficio del personale di una società del Gruppo in via di costituzione in seguito chiamata IMITEC.

Mi riferì il Dr. Martino che Meucci rifiutò.

ADR – Ed infatti il Meucci rimase con me, all’ufficio del personale dove la situazione di disagio evidenziata si è protratta fino al 1995 quando Meucci fu assegnato ad un nuovo dipartimento dell’IMI che si occupava di previdenza complementare con compiti di esperto di diritto del lavoro e previdenza.

L.C.S.

 (firmato Umberto Musetti)

Il Giudice

Rinvia per l’escussione  di un teste relativo al periodo 1983 –1989 anzi rinvia per decisione all’udienza del 26/1/2001 ore 13,00 con termine per note al 20/12/2000.

 

Il Collaboratore

Il Giudice

(firma)

(firma)

 

Udienza del 26.1.2001 sono presenti il ricorrente assistito dai suoi avvocati; per parte resistente è presente avv. Scognamiglio. E’ presente per l’IMI il procuratore Lama.

L’avv. Scognamiglio contesta l’ammissibilità e la rilevanza (dei documenti, n.d.r.) prodotti con le note autorizzate depositate.

Avv. Persi si oppone specificando che trattasi di mere difese delle quali  è stata richiesta esibizione ovvero ne è già stata prodotta in parte con il ricorso.

Il Giudice

Rinvia al 22.3.2001 h. 10,30, acquisisce la documentazione di cui sopra trattandosi interamente di documenti precostituiti.

Invita le parti a chiarire con note quali siano le mansioni proprie di un funzionario di terzo grado o comunque di funzionario con specifico riferimento nell’ambito IMI. Invita infine parte ricorrente alla riformulazione di conteggi con indicazione di una retribuzione media da prendere a base per un’eventuale quantificazione del danno, entro il 2/3/2001.

 

Il Canc. C.

Il Giudice

(firma)

 (firma)

 

 

Udienza del 22.3.2001. Sono presenti il ricorrente assistito dall’avv. Fassari nonché parte resistente in persona del procuratore speciale assistito dal suo Avv.to.

Il Giudice

Rinvia al 15.6.2001 ore 13.300 per il giuramento del CTU con nomina nella persona del Dr. Francesco Raimondo. Manda alla cancelleria per le comunicazioni.

Il Canc. C.

Il Giudice

(firma)

 (firma)

 

Udienza del 15/6/01 . Sono presenti per parte ricorrente Avv.ti Fassari e Persi, per parte resistente Avv. Scognamiglio. E’ presente il CTU, Dr. Francesco Raimondo il quale dichiara di accettare l’incarico e presta giuramento di rito e declina le proprie generalità. Raimondo Francesco, n. Roma 8/10/1935 con studio in Roma Via Latina 57/I.

Dichiara di iniziare le operazioni peritali il 19/7/01 ore 16 nel proprio studio medico in Roma Via Latina 57/I.

Al consulente  viene posto il quesito di cui al foglio allegato.

L’avv. Scognamiglio si oppone all’ultima parte del periodo, quella relativa alla capacità di lavoro specifica stante la mancanza di apposte conclusioni sul punto. L’avv. Persi contesta

                                                        Il Giudice

Attribuisce al CTU l’acconto di £. 500.000 che pone a carico del ricorrente. Gli avvocati Persi e Fassari indicano quale loro CTP il Prof. Dott. Riccardo Dominici Via Santamaura 61. L’avv. Scognamiglio per San Paolo IMI nomina quale CTP il Prof. Natale Marco Di Luca c/o Istituto Med. Legale Università La Sapienza di Roma nonché  Via Corridoni 15, Roma.

 

Da termine di 90 gg. al consulente per il deposito della perizia.

Rinvia per discussione all’udienza del 12/4/02 , h. 13,15.

Il Canc. C.

Il Giudice

(firma)

 (firma)

 

all.to

Meucci/I.M.I.

(ud.15.6.2001)

 

Quesiti al C.T.U

 

“Dica il CTU, visitato il Meucci Mario, esaminata la documentazione ed eseguiti gli accertamenti diagnostici ritenuti necessari, se lo stesso sia affetto da infermità o comunque da disturbi allo stato di salute, causalmente riconducibili agli eventi di lavoro così come risultanti dagli atti di causa e, nell’eventuale affermativa, indichi il grado percentuale della menomazione dell’integrità psico-fisica da intendersi come danno biologico e le eventuali ripercussioni sulla capacità lavorativa specifica”.

 

L'ESPOSTO AL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA

ALLA SEZIONE DISCIPLINARE DEL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA
P.za Indipendenza n. 6 - 00185 ROMA
ESPOSTO IN PROPRIO
per il riscontro di responsabilità disciplinari a carico del giudice Dr.sa  ................, in servizio presso la sezione lavoro del Tribunale di Roma, Viale Giulio Cesare 54 – 00192 - ROMA .
Il sottoscritto Mario MEUCCI, .......................................................espone quanto segue:
-        di aver intrapreso, con ricorso depositato il 19.7.1996 innanzi alla Pretura del lavoro di Roma -  in costanza  di servizio quale funzionario dell’Istituto Mobiliare Italiano SpA (ora, per intercorsa incorporazione SanpaoloImi Spa) – una causa per demansionamento, forzata inattività, reintegrazione nelle mansioni ex art. 2103 c.c. e risarcimento danni, contro la datrice di lavoro sopremenzionata;
-  il ricorso assegnato alla dr.sa ..................., ha visto quale data di fissazione della prima udienza  il 28 novembre 1997 (dopo un anno e 4 mesi ca.), vedendosi respinta la richiesta di anticipazione, nel frattempo avanzata con supporto di certificazione medica evidenziante sindrome depressiva da carenza di lavoro, suscettibile di  aggravarsi  per mantenimento dello status quo;
-   la prima udienza si è tenuta, pertanto, alla data sopraindicata del 28.11.1997, mentre nelle more  il sottoscritto – per insostenibilità psicologica della situazione stressante – risolveva per dimissioni incentivate il proprio rapporto di lavoro. Conseguentemente il ricorso risultava circoscritto al solo aspetto risarcitorio dei danni da dequalificazione, da perdita di chances e biologico (esclusa, quindi, la problematica della reintegrazione) che faceva sperare in un accelerazione dei tempi di decisione;
-   alla prima udienza il magistrato ha richiesto -  insolitamente - alle parti  redazione di note dirette a delimitare i fatti oggetto di causa (e senza che risultasse verbalizzato, ma desumibile dalla prima pagina delle note medesime, cfr. all. 1); ha richiesto, dilatoriamente,  in sostanza una “sintesi” (una specie di “bignamino”) del ricorso e della memoria costitutiva di controparte, adducendo l’eccessiva dimensione (n. 68 pagg. del ricorso e n. 65 della memoria costitutiva), incombenza puntualmente assolta dalle parti con rispettive note del 30 marzo 1998;
-    il procedimento si  è sviluppato  attraverso  9 udienze effettive e con due rinvii appresi in Cancelleria (28.11.97; 17.4.98; 12.3.99; 30.9.99; 12.5.2000; 26.1.2001; 22.3.2001; 15.6.2001; 13.3.2003: si  acclude la trascrizione a computer dei verbali per mera comodità, all.2). Sono stati ammessi ed escussi solo due testimoni per il ricorrente (Sig. Firinu e Dr. Alfani) e  tre per la convenuta (Dr. Pagliaro, Dr. Schiavone,  Dr. Musetti)  ed è stato fatto ricorso a CTU medico/legale (incaricato dal Giudice in data 15.6.2001  e che ha reso la propria relazione il 4 aprile 2002);
-      il dispositivo è stato letto all’udienza del 13.3.2003 e la motivazione della sentenza (che si unisce, all.3, pp.5 e quattro righe) è stata depositata il 15.9.2003 a distanza di 7 anni e due mesi ca. dal deposito del ricorso.
Ritiene lo scrivente che – in presenza di cause a contenuto similare, quali svolte, esemplificativamente, presso il Tribunale di Torino (all. 4, est. Ciocchetti, decisa in 6 mesi, pp. 5; all. 5, est. Sanlorenzo, decisa in 1 anno e 3 mesi, pp.12), il Tribunale di Pinerolo (all.6, decisa in 10 mesi, pp. 16), il Tribunale di Siena (all. 7, decisa in 1 anno e 1 mese, pp. 20), il Tribunale di Tempio Pausania (all. 8, decisa in 3 anni e 2 mesi, pp.20) e presso molte altre sedi giudiziarie – il tempo occorrente alla trattazione del procedimento di 1° grado sia irragionevolmente esagerato, in se e per se, (attraverso l’ampio intervallo delle 9 udienze, dai 6 agli 8 mesi l’una dall’altra) ed ancor di più in relazione alla modestia materiale grafica e  giuridico-contenutistica della decisione emessa, dietro anche valutazione comparativa con quelle dei colleghi dei Tribunali innanzi menzionati.
Per quanto  sopra detto (e ripetuto al successivo punto a) oltreché per quanto diremo al punto b), si è maturato il  convincimento che il magistrato sia incorso nella violazione della legge sulle guarentigie dell’ordinamento giudiziario ed in particolare dell’art. 18 R.DL.vo 31 maggio 1946 n. 511, secondo cui: «Il magistrato che manchi ai suoi doveri  o tenga in ufficio o fuori, condotta tale che lo rende immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario, è soggetto a sanzioni disciplinari».
Spieghiamo in appresso  ed in dettaglio le ragioni di tale richiesta di esame a fini di censura:
a)         l’esorbitanza temporale in primo grado (7 anni e 2 mesi ca. dal deposito del ricorso!)  è – a nostro avviso ed a prescindere dagli eventuali rimedi  contro la durata irragionevole del processo (c.d. legge Pinto, ecc.) – sintomatica di una “mancanza di operosità e laboriosità del magistrato” (cfr. Cass. sez. un. n. 1334/2000; Cass. sez. un. n. 1039/2000; Cass. sez. un. n. 14487/03) suscettibile di menomare, particolarmente in questo momento congiunturale,  «la credibilità ed estimazione dell’attività giudiziaria in seno alla collettività, anche in relazione alla legittima attesa di una sollecitudine comparabile con il personale ed i mezzi a disposizione» (così in Cass. sez. un. n. 1039/2000).
Naturalmente tale considerazione si basa sull’oggettività dei tempi  impiegati: il riscontro di cause esimenti o giustificatrici o di forza maggiore è pacifica incombenza dell’Organo  investito di svolgere l’istruttoria.
b)          Ma il  comportamento professionale tenuto dal magistrato in questione – a sentenza redatta e  letta - appare  indiscutibilmente connotato (da)  e sintomatico anche di “scarso impegno, insufficiente ponderazione, approssimazione o limitata diligenza” (cfr. Cass. sez. un. 11276/98; Cass. n. 170/99), nell’operare concreto, nell’interpretazione della legge, nello scostamento dall’orientamento giurisprudenziale consolidato in tema di “indennizzabilità dei danni da dequalificazione”. Afferma, al riguardo  Cass. sez. un. n. 538/2000: «... il comportamento del magistrato può essere censurabile sul piano disciplinare anche con riguardo agli atti ed ai provvedimenti resi nell’esercizio delle sue funzioni e, quindi, nell’attività interpretativa ed applicativa di norme di diritto, quando riveli scarsa ponderazione, approssimazione, frettolosità o limitata diligenza, idonee a riverberarsi negativamente sul prestigio del magistrato stesso e dell’ordine giudiziario, restando escluso che la censurabilità, in tali limiti, dell’attività del magistrato sia configurabile come violazione del principio dell’indipendenza della magistratura (Cass., Sez. Un., 6.novembre 1997, n. 10920; Cass. Sez. un. 7 agosto 1996, n. 7226; Cass., Sez. Un., 14 marzo 1995, n. 2925; Cass., Sez. Un., 23 luglio 1993, n. 8241; Cass., Sez. Un., 24 luglio 1986, n. 4754; Cass., Sez. Un., 28 marzo 1985, n. 2181).
Per migliore comprensione dei nostri addebiti alleghiamo per  la sezione disciplinare del CSM la sentenza n. 4681/1999 (dep. 10.6.1999) redatta dalla stessa................. in una causa tra Bufacchi c. Ansa e Inpgi (all. 9, decisa in 6 anni ca., 1993-99), in relazione alla quale ha maturato (e, a nostro avviso, concluso) il suo aggiornamento professionale.
Con la sentenza che ci concerne il magistrato – parzialmente accogliendo una delle varie nostre richieste - ha riconosciuto a nostro danno una dequalificazione per 7 anni (dal 1990 al 1997), tuttavia senza alcun indennizzo di sorta, a tale titolo. Richiamando, a supporto, 3 sentenze della Cassazione comprese tra il 1986 ed il 1992 (riconducibili all’aggiornamento  per la sentenza Bufacchi c. Ansa del 1999), cioè a dire si è basato su di un orientamento giurisprudenziale risalente a 11 anni fà, obliterando  quello consolidatosi, in sede di legittimità, nel frattempo (costituito dalle seguenti decisioni: Cass. 13299/92; Cass. 11727/99, Cass. 6.11.2000 n. 14443; Cass. 7.7.2001, n. 9228; Cass. 23.10.2001, n. 13033; Cass. 2.11.2001, n. 13580; Cass. 14.11.2001, n. 14199; Cass. 2.1.2002, n. 10; Cass. 1.6.2002, n. 7967; Cass. 12.11.2002,n. 15868; Cass. 22.2.2003, n. 2763.; Cass. 27 agosto 2003 n. 12553; cfr. le massime, all. 10), secondo cui: «Va respinto l’addebito che la Corte di appello abbia errato nel riconoscimento al ricorrente demansionato dei danni patiti, identificabili nelle sofferenze e nella umiliazione subite dal medesimo nell'ambiente di lavoro, in quanto – all’opposto – la Corte veneziana ha fatto corretta applicazione della ormai costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui dalla illegittima attribuzione ad un lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle assegnategli al momento dell'assunzione può derivare non solo la violazione dell'art. 2103 c.c., ma anche la violazione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, da cui deriva il diritto dell'interessato al risarcimento del danno patrimoniale conseguente al pregiudizio risentito nella vita professionale e di relazione e la cui determinazione può avvenire in via equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c.c., anche in mancanza di uno specifico elemento di prova da parte del danneggiato, in quanto la liquidazione può essere operata in base all'apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi alla natura, all'entità e alla durata del demansionamento, nonché alle altre circostanze del caso concreto (cfr. tra le tante Cass. N. 15868 del 2002, Cass. N. 7967 del 2002, Cass. N. 10 del 2002, Cass. N. 14199 del 2001)» (così, Cass. 27 agosto 2003 n. 12553 – Pres. Senese – Rel. D’Agostino).
Orientamento che, invero, la dr. sa.............. dice di conoscere – in quanto da parte nostra reiteratamente documentatogli – ma al quale dichiara di non aderire, senza esplicitarne le ragioni, sottoporlo a critica, nè tanto meno indicare esemplificativamente le tipologie di prova pretese in  concreto dal demansionato.
Secondo noi nella fattispecie è riscontrabile la ricorrenza di quel presupposto, richiesto ai fini della responsabilità disciplinare del magistrato, così espresso: « Per determinare la responsabilità disciplinare di un magistrato, per comportamenti tenuti in occasione del compimento di atti del suo ufficio, non è sufficiente la violazione (anche sotto forma di falsa applicazione o disapplicazione) di una norma di legge che egli sarebbe stato tenuto ad osservare, poiché in tale maniera al giudice disciplinare sarebbe dato il potere di imporre al magistrato la propria interpretazione della legge - in contraddizione con il principio di cui all’art. 101 cost., sulla soggezione del medesimo solo alla legge - ma è necessario indagare se il comportamento sia espressivo di un atteggiamento idoneo a compromettere la credibilità del magistrato e il prestigio dell’ordine giudiziario, valutandone le modalità e il contesto, e, specificamente, verificando la sussistenza in primo luogo di una incontrovertibile difformità della seguita interpretazione della norma dalle interpretazioni della stessa già prospettate o ragionevolmente possibili ».
Invero era più comodo giungere a questa conclusione “aberrante” (aberrante perché non si beffa il demansionato dicendogli di aver riscontrato un ‘effettiva dequalificazione da inattività forzata per ben 7 anni, induttiva anche di un danno biologico del 15% riscontrato dal CTU, affermando apoditticamente che, in sostanza, niente gli spetta  come ristoro del  “danno alla professionalità”, perchè “pur dilungandosi ampiamente sui fatti in cui la dequalificazione si è concretata, nulla ha specificamente provato in ordine ai profili concreti (danni alla carriera, all’immagine) del danno lamentato”, così da p. 4 della sentenza). E, sul punto, peraltro contro ogni veridicità, perché da parte nostra avevamo specificato (e documentato) nel ricorso e nelle note conclusionali,  quali  presunzioni ex art. 2729 c.c. e indizi gravi, precisi e concordanti come “...a tutto voler concedere, il danno risulta comunque ampiamente provato anche nei suoi presupposti in fatto, atteso che il Meucci, oltre alla lesione rappresentata dall'inevitabile obsolescenza delle sue competenze professionali determinata dall'inedia lavorativa, ha visto altresì screditata la sua immagine sia all'interno dell'IMI, di fronte a tutti i dipendenti, come testimoniano i numerosissimi comunicati sindacali affissi in tutte le bacheche dell'Istituto, in cui si evidenzia la sua mortificante condizione professionale (docc. 33-35, 48-52, 66, 72-73, 83-84, 91), sia all'esterno, grazie alla larga eco che le traversie professionali del ricorrente hanno avuto tra gli "addetti ai lavori" nel circoscritto ambiente degli operatori del personale ». E quanto al danno alla carriera avevamo messo in evidenza, in apposito capitolo del ricorso dedicato alla perdita di “chanches” - e tramite prospetti statistici con i pari grado ed anzianità - come  lo scrivente, a fronte di una progressione in carriera  in IMI SpA costituita da promozioni ogni 4-5 anni in media e talora con punte di 1,5 anni, aveva effettuato due soli avanzamenti, in 20 anni, con una media di uno ogni 10 anni.
Quindi, contro ogni evidenza ed argomentazione, il magistrato in questione pecca di astrattezza e apoditticità nelle conclusioni negatrici l’indennizzo. Cosa avremmo dovuto produrre per “provare in concreto”: attestazioni di screditamento (per il danno all’immagine) e, per il danno alla professionalità, certificazioni (e da parte di chi?) che ad una selezione presso altra azienda o società specializzata di selezione del personale eravamo stati riscontrati “obsoleti da demansionamento pregresso ed in atto”? Non  è dato di comune esperienza (ex art. 115 c.p.c.) o non risultava concludentemente dalle testimonianze rese (utili ex art. 2729 c.c.) che l’inattività di un funzionario preposto a gestione di personale sottordinato si immiserisce con l’inesercizio e la sottrazione del medesimo e che di conseguenza si perdono le attitudini decisionali, formative, propositive oltreché l’aggiornamento specialistico? E tanto più quando, incredibilmente, la dequalificazione non dura mesi, ma si riscontra – come il magistrato ha riscontrato - protratta per 7 anni in inattività forzata.
Ora forniamo la più benevola delle spiegazioni per cui  – per quel magistrato - era  più comodo giungere a quella conclusione: perché non avrebbe (neppure) faticato giacché la pagina 3 della nostra sentenza n. 19861/03 era già predisposta  alla (e copiabile integralmente dalla) pag. 15-16 (in tema di danno alla professionalità) della precedente sentenza n. 4681/99 afferente a Bufacchi c. Ansa. Così pure ha fatto per la trattazione del danno biologico – ove, per mimetizzare (con un’apparenza di approfondimento) la nostra decisione “frettolosa”, la dr. sa ............. ha ricopiato  (a pagg. 4-5 della nostra  sentenza) le pagg. 6-7-8-9 della Sua sentenza n. 4681/99 precitata.
Insomma, riservando alla sintesi dell’istruttoria  una pagina e mezzo  ca. (fine pag. 1,2, inizio pag. 3) ha confezionato  - dopo 7 anni e 2 mesi - con “copia/incolla” una decisione scarna di 5 paginette, tutt’altro che centrate e calibrate sul caso concreto (che afferiva ad un demansionamento dell’arco di quasi un ventennio). 
La sentenza che n’è uscita presenta marginalissimi aggiornamenti giuridici (e molti errati, cfr. quella da noi ricorretta, all. 11) e ripete addirittura quegli errori  materiali reperibili nella n. 4681/99 da noi corretti  a suo tempo per la stampa sulla rivista di cui siamo redattori. Una spia della copiatura (che fa invero sorridere) – ma ce ne sono  ad abundantiam – è quella che è reperibile nella locuzione (in epoca di abolizione della figura del Pretore), “ a parere di questo Pretore...”, “ritiene questo Pretore...” (p.5, due volte), nella nostra sentenza del 2003!
Riteniamo a questo punto che nel comportamento della Dr.sa ............ siano riscontrabili, secondo noi : a) scarsa diligenza - mascherata con ricorso ad espedienti di furbizia - approssimazione, inosservanza e non considerazione dei documenti depositati, parzialità nella valorizzazione (rispetto a questi dati oggettivi) di una testimonianza “de relato” di parte convenuta (dr. Pagliaro) smentita addirittura da quelle di altri due testi di parte ricorrente; b) pretermissione acritica di orientamento costante nell’ultimo decennio della giurisprudenza di legittimità con funzione nomofilattica; c) se non dolo, quantomeno colpa; d) incidenza sulla credibilità e sul prestigio del ruolo personale e dell’ordine giudiziario, tramite l’evidenziazione di scarsa laboriosità, carente aggiornamento professionale (per ancoraggio a risalenti orientamenti minoritari e comunque di oltre 11 anni fà) e/o scadente professionalità.
Alle determinazioni di codesto Organo ci si rimette, in considerazione della specifica funzione e competenza, secondo quanto riferisce Cass. sez. un. n. 11732/98, per la quale: « La sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, nel valutare disciplinarmente i comportamenti dei singoli magistrati, compie un’ordinaria attività ermeneutica che si realizza nell’applicare al caso concreto la previsione legale dell’art. 18 r.d.leg. 31 maggio 1946 n. 511, mediante un’interpretazione sistematicamente coordinata con le altre norme del diritto statale (costituzione ed altre fonti di cui all’art. 1 preleggi) e con le fonti di diritto interne all’ordinamento della magistratura e di livello infralegislativo quali il codice etico, le fonti c.d. paranormative dello stesso consiglio superiore della magistratura, i precedenti in materia della sezione disciplinare o della corte di cassazione».
Si resta a disposizione per quanto riteniate necessario – sia nella forma di un  diretto colloquio o confronto con l’incolpata, sia per documentazione da esibire – e nel richiedere di essere informati sull’esito del presente esposto, si inviano distinti saluti.
Roma, 21 novembre 2003
all.ti n. 11
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Con lettera del 31/5/2004 prot. P10432/2004 - in perfetta linea di conferma del detto popolare "cane non morde cane" - il CSM così mi rispondeva: «In relazione all'esposto pervenuto in data 12 dicembre 2003 comunico che il consiglio Superiore della Magistratura, nella seduta del 19 maggio 2004, ha deliberato l'archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, visto l'esito delle informazioni assunte. Il segretario generale (Luigi Salvato)».
Per quanto dissenziente nel caso specifico - nella convinzione che le informazioni assunte abbiano trovato una compiacente copertura locale -  tuttavia, confidando ancora nell'imparzialità della "migliore" e della "maggioranza" della magistratura (peraltro, non restandomi altra alternativa se non quella antigiuridica dei mafiosi - a me estranea - del "farsi giustizia da soli"), ho interposto appello presso la Corte di Roma contro l'incredibile sentenza di 1° grado, per la cui discussione è stato fissato quale inizio il 10 ottobre 2005.
Quantunque estremamente rare, non mancano sanzioni del CSM, confermate dalla Cassazione, a carico di taluni magistrati "neghittosi" che non abbiano dato prova di produttività o professionalità specifica. Per documentazione si clicchi su questo link.
I Rinvii
Pochi giorni prima dell'udienza fissata per il 10 ottobre 2005, la Cancelleria della Corte d'Appello comunicava al mio legale lo spostamento (o rinvio) d'ufficio a Lunedì 2 ottobre 2006 (dopo un intero anno, sic!), senza motivazione alcuna. Infine il Venerdì immediatamente antecedente  l'udienza di Lunedì 2 ottobre 2006, ancora la Cancelleria comunicava lo spostamento (o rinvio) d'ufficio a Lunedì 8 gennaio 2007, ancora senza motivazione alcuna. Poi differiva l'udienza al 12.2.2007 - con invito ad una soluzione conciliativa non raccolto dall'azienda - ed il 12.2.2007, a seguito di nostri rilievi sull'insufficienza (tra l'altro) della percentuale del danno biologico fissata dal CTU nel 15%, emetteva ordinanza affinché lo stesso «previa nuova visita peritale, fornisca chiarimenti in ordine ai rilievi del ricorso in appello proposto da Meucci...», rinviando il procedimento all'udienza del 28.5.2007, per il solo giuramento del CTU. All'udienza  del 28 maggio 2007 la Corte d'Appello investiva il CTU  del compito - previa nuova visita - di fornire chiarimenti a fronte delle nostre eccezioni, tramite relazione da depositare entro il 26 settembre 2007, rinviando all'udienza del 9 giugno 2008. Ma il CTU  redigeva e depositava la relazione - adducendo motivi personali -  solo sabato 7 giugno 2008, precludendo alla nostra difesa controdeduzioni nei termini e - tramite equilibrismi argomentativi ed errori medico-giuridici - riconfermava la percentuale del 15% di danno biologico. Conseguentemente la Corte d'appello - all'udienza di due giorni dopo, 9 giugno 2008, non poteva far altro che rinviare a data successiva, fissata nel 16 febbraio 2009, assegnando termine di 20 giorni prima (entro il 27 gennaio 2009) per il deposito di relazioni controperitali.
Nel frattempo, imbattutomi nell'esame di un caso giuridicamente non dissimile dal mio - deciso da Trib. Roma 28.3.2006 (R.G. 211235/05), reperita nel sito della Corte d'Appello di Roma, decisione che invito caldamente i navigatori a leggere - osservo che se in primo grado mi fossi imbattuto in una sentenza così superbamente argomentata dal lato giuridico, il discorso sarebbe probabilmente oramai chiuso, mentre si trascina dal 1996. Questione di fortuna!
Con fax inoltrato dalla Corte d’Appello di Roma 3 giorni prima dell’udienza fissata al 16 febbraio 2009, indirizzato ai miei legali, è stato comunicato il “rinvio d’ufficio” della mia causa al 6 luglio 2009 ore 10.
Questo inaccettabile slittamento non motivato conferma – semmai ve ne fosse stato bisogno - che nella Capitale  i tempi della nostra magistratura sono “africani” come al Sud, in linea con quanto evidenziato nell’articolo sotto riportato, desunto dal sito di Domenico D’Amati (www.legge-e-giustizia.it).
«TEMPI FRANCESI PER LA GIUSTIZIA IN PIEMONTE, AFRICANI NEL SUD - Differenze di funzionamento rilevate nella relazione annuale del presidente della Suprema Corte.
3 febbraio 2009 - Per la prima volta, nella relazione annuale sull'amministrazione della giustizia, si è dato atto della profonda differenza di funzionamento del servizio tra le diverse aree del paese, fenomeno ben noto agli utenti e sinora sistematicamente ignorato dai vertici del sistema giudiziario. Nella relazione del presidente Vincenzo Carbone sono dettagliatamente riportati i dati raccolti dalla Banca d'Italia sulla giustizia civile. Da essi risulta, tra l'altro, che una causa di lavoro dura in media 369 giorni nel Nord Ovest, 619 nel Nord Est, 591 nel Centro, 1031 nel Sud e nelle isole. Per le altre cause civili i tempi sono di 694 giorni nel Nord Ovest, 897 nel Nord Est, 960 nel Centro e 1209 nel Sud e nelle isole. Desolante è per noi la graduatoria della Banca Mondiale sull'efficienza della giustizia civile. L'Italia è al 156° posto su 181, mentre Germania e Francia sono rispettivamente al 9° e al 10°. Il nostro paese è preceduto da Angola, Gabon e Guinea, ma precede Gibuti, la Liberia e l'Afghanistan. Tuttavia da un raffronto dei dati sulla durata dei processi emerge che in Piemonte i tempi delle cause civili sono vicini a quelli francesi, mentre nel Sud sono di poco superiori a quelli dell'Angola. La relazione Carbone rileva che questa singolare diversità offre "spunti di riflessione", ma non cerca di stabilirne le cause, lasciandone ad altri il compito. L'iniziativa andrebbe assunta dai responsabili degli uffici, che dovrebbero organizzare momenti di confronto, con la partecipazione degli utenti del servizio, per individuare le ragioni di questa inaccettabile differenza ed eliminarla, portando le altre regioni al livello piemontese (anch'esso peraltro da migliorare per collocare l'Italia in una più decente posizione nella graduatoria della Banca Mondiale).
Nel nostro Paese, a Torino si rispetta il termine di 60 giorni, dal deposito del ricorso, previsto dalla legge per la fissazione della udienza di discussone delle cause di lavoro. Spesso nel giro di complessivi 12-18 mesi si esaurisce oltre al giudizio di primo grado, anche quello di appello. A Torino l'organico dei magistrati è adeguato, il palazzo giudiziario è ampio e ben dotato di attrezzature informatiche, il personale di cancelleria appare sufficiente. Questo significa che, se si vuole, si può. (D. d'A)».

(aggiornamento al 16.2.2009)

Il verdetto della Corte d'Appello di Roma
Il 6 luglio 2009 la Corte d'Appello ha portato in decisione il mio ricorso (depositato nel novembre 2004) avverso la sentenza pretorile di 1° grado, rigettando il ricorso incidentale del datore di lavoro, inizialmente IMI SpA, poi SanpaoloImi SpA e da ultimo Intesa Sanpaolo SpA, attuale ragione sociale di controparte dopo le varie fusioni. Sono per ora in possesso del solo dispositivo, che pubblico in attesa del deposito della motivazione della sentenza. Eccolo qui!
La sentenza, depositata nel dicembre 2009, a 6 mesi di distanza, la trovi qui. L'importo del risarcimento allo stato (comprensivo di accessori, stante le lungaggini giudiziarie), corrispondente al costo sopportato dalla banca incorporante l'IMI SpA (non già dai singoli dirigenti responsabili), è evidenziato in questo prospetto. Sempre poco, a fronte dei pregiudizi professionali ed extraprofessionali arrecatimi...
(aggiornamento al 12.5.2010)

Ricorso e controricorso incidentale in Cassazione

 

Con la lettera di liquidazione delle somme risarcitorie poste a suo carico dalla Corte d'Appello di Roma, Banca Intesa - tramite i propri difensori Avv.ti R. e C. Scognamiglio - aveva avanzato la riserva di ricorso per Cassazione. Puntualmente un giorno prima della scadenza dell'anno per il passaggio in giudicato ci veniva notificato uno scarno - quanto del tutto infondato - ricorso, cui abbiamo replicato, in data 10 gennaio 2011, con un controricorso corredato da 5 motivi incidentali, tramite cui abbiamo inteso richiedere alla Cassazione di colmare due lacune della sentenza di 2° grado: il mancato riconoscimento e indennizzo del demansionamento anteriore a quello riconosciuto solo per il periodo 1990-1997, nonché la liquidazione del risarcimento di danno per i 7 anni di riconosciuto demansionamento (1990-97), per i quali la Corte d'Appello si era limitata a indennizzare il distinto ed ontologicamente autonomo danno da perdita di chances promotive, ma non il danno professionale puro correlato al demansionamento.

Se la Banca non avesse ricorso, da parte nostra ci saremmo astenuti da adire nuovamente le vie giudiziali, accontentandoci del passaggio in giudicato della sentenza di 2° grado. Ma si sa che le società per azioni sono società anonime, caratterizzate dall' assenza di responsabilità individuale e nominativa che grava invece su un normale datore di lavoro/imprenditore. Da qui la loro strategia ed il loro interesse  a sperimentare tutti i 3 gradi di giudizio. Tanto pagano gli azionisti!

Sebbene saremo costretti ad attendere ancora del tempo prima di vedere la conclusione della incresciosa vicenda, riteniamo di dover, al tempo stesso, "ringraziare" Banca Intesa per averci consentito di richiedere titoli aggiuntivi di risarcimento che altrimenti avremmo lasciato cadere.

Sarà nostra cura tenervi informati.

 

(aggiornamento dell'11.1.2011)

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